Una riforma della PA buona solo per la partitocrazia
Luigi Oliveri
La riforma “rivoluzionaria” della pubblica amministrazione è ad utilità prossima allo zero per i cittadini, ma funzionalissima all’aumento smisurato dell’influenza della politica nella vita di tutti i giorni.
Il pacchetto di norme approvato venerdì 13 giugno dal Governo compie numerosi passi indietro di anni, nella direzione di una concezione partitocratrica della PA, intesa come “proprietà” non di tutti, ma della maggioranza al potere, che vuole preservarlo anche attraverso l’utilizzo dei “gangli” burocratici.
La disposizione che meglio rappresenta l’idea complessiva di pubblica amministrazione contenuta nella riforma è data dalla modifica dell’articolo 90 del d.lgs 267/2000, al cui comma 2 si aggiunge il seguente ultimo periodo: “in ragione della temporaneità e del carattere fiduciario del rapporto di lavoro si prescinde nell’attribuzione degli incarichi dal possesso di specifici titoli di studio o professionali per l’accesso ai corrispondenti qualifiche ed aree di riferimento”.
Tradotta, la disposizione significa che i sindaci potranno nominare nel proprio staff esattamente chi vogliono ed attribuirgli l’inquadramento professionale che vogliono; in ipotesi, potrebbero anche assegnare la qualifica di funzionario o – perché no? – di dirigente anche a persone prive del requisito di accesso dall’esterno per concorso, cioè la laurea,.
Insomma, non conta per nulla la qualificazione professionale. Vale solo l’atto di vassallaggio, l’incarico proveniente dal politico, che dispone del potere di creare il suo “cavallo di Caligola”.
Si tratta di una norma di un’iniquità e odiosità senza pari. Qualsiasi persona che intenda affrontare la carriera nel lavoro pubblico deve, come previsto dalla Costituzione, sottoporsi alla selezione concorsuale. L’amico del politico no. Gli basta appunto il rapporto di fedeltà, l’autodafè, per ricevere un incarico prescindendo (prescindendo!) da titoli di studio e professionali.
Questo sarebbe il modo di incentivare la “meritocrazia”, nonché l’efficienza nella pubblica amministrazione…
La cosa che ulteriore rileva, nell’esame di questa norma simbolica dell’intero impianto della riforma (che trova riverberi nel ridisegno della dirigenza), è la constatazione che essa non sia per nulla casuale, ma esattamente ad usum delfini.
Infatti, l’ipotesi di un sindaco, o presidente della provincia che abbia incaricato nel proprio staff ed in quello degli assessori dipendenti “di fiducia”, attribuendo loro la qualifica di funzionario pur non essendo laureati, si è verificata. Ed è stata oggetto di una sentenza della Corte dei conti, Sezione giurisdizionale della Toscana, 4 agosto 2011, n. 282, la quale ha considerato quanto segue: “Ciò, naturalmente, non comporta affatto che le assunzioni dall’esterno ex art. 90 del TUEL debbano essere lasciate al mero arbitrio degli amministratori, senza alcun vincolo di corrispondenza tra il trattamento economico di categoria D normativamente previsto e i requisiti minimi, culturali e professionali, atti a giustificare la corresponsione di quel trattamento anche in assenza della laurea. Al riguardo effetto tranciante hanno le considerazioni della Corte Costituzionale di cui alla sentenza n.252 del 30 luglio 2009, per le quali: “Il riconoscimento agli amministratori pubblici…… di un certo grado di autonomia nella scelta dei propri collaboratori esterni (v. sentenze n. 187 del 1990 e n. 1130 del 1988), non esime …… dal rispetto del canone di ragionevolezza e di quello del buon andamento della pubblica amministrazione”. Ciò al fine di evitare che l’assunzione (sia pure a tempo determinato) di personale sfornito dei requisiti normalmente previsti per lo svolgimento di funzioni che è destinato ad esplicare determini l’inserimento nell’organizzazione pubblica di soggetti che non offrono le necessarie garanzie di professionalità e competenza (Corte Cost. sentenza n. 27 del 2008)”.
Tale sentenza ha condannato gli amministratori, i dirigenti ed i funzionari a diverso titolo coinvolti nell’assunzione nello staff degli organi di governo di 4 dipendenti, inquadrati come funzionari, qualifica che per l’accesso richiede la laurea, pur non possedendola.
Tra i condannati dalla decisione della Corte dei conti citata, c’è proprio l’attuale Presidente del consiglio.
Non sembra affatto casuale, dunque, che il Governo abbia introdotto una norma (utilissima in sede di appello alla sentenza, specie se prima o poi giunga una norma di interpretazione autentica che ne chiarisca la portata retroattiva) come quella vista. Essa risponde perfettamente alla logica dell’amministrazione pubblica intesa come profanazione diretta della volontà dell’organo politico, che deve essere lasciato libero di esercitare l’arbitrio in merito a chi assumere e a quali dirigenti affidare la gestione, possibilmente scegliendoli anche in questo caso arbitrariamente.
L’altro elemento simbolico della riforma della pubblica amministrazione è, infatti, rappresentato dall’impianto della riforma della dirigenza. Un omaggio colossale allo spoil system all’italia, cioè la possibilità indiscriminata per il politico al potere di turno di costruire un apparato di dirigenti di partito o, comunque, di persone di esclusiva affidabilità partitica, all’interno dell’amministrazione.
Il passaggio fondamentale della riforma della dirigenza finalizzata al più politicizzato degli spoil system sta nella volontà di introdurre il licenziamento per i dirigenti che restino privi di incarico per un certo periodo di tempo (l’idea fa parte della legge delega che completa il pacchetto delle riforme approvate il 13 giugno). Il Governo aveva in precedenza ribadito ai sindacati che l’introduzione del ruolo unico e l’abrogazione del sistema delle fasce debbono “inevitabilmente combinarsi con la disciplina delle ipotesi in cui un dirigente rimanga privo di incarico”, sicchè “qualora un dirigente rimanga per un periodo di tempo privo di incarico e non sia riuscito a trovare collocazione, anche temporanea, nel settore privato, il rapporto di lavoro dovrà essere risolto”.
Tutto si giocherà, dunque, sull’attribuzione ai dirigenti degli incarichi a tempo determinato. Sostanzialmente, la riforma trasforma la dirigenza da qualifica contrattuale, in una sorta di “abilitazione”. I vincitori dei concorsi, ma anche i dirigenti già in ruolo, acquisiranno solo una sorta di “aspettativa legittima” all’assegnazione dell’incarico dirigenziale. Contrariamente ad ogni altro dipendente pubblico (ma anche privato), il reclutamento pubblico non avverrà, se non solo formalmente, allo scopo di coprire posti vacanti e connessi fabbisogni lavorativi. Sarà, invece, qualcosa di molto simile all’iscrizione ad un albo. La politica, poi, potrà scegliere fior da fiore la “persona di fiducia”. Vediamo come.
I dirigenti entrati nei “ruoli” di fatto non eserciteranno le funzioni dirigenziali, se non riceveranno un incarico. E si determineranno situazioni che risulteranno paradossali. Tra esse, la presenza di dirigenti di fatto “pagati per non lavorare”. Infatti, i dirigenti privi di incarico (tra cui, quelli neo assunti e quelli ai quali un incarico sia scaduto, ma non ne sia stato assegnato un altro) per il periodo di tempo che sarà disposto dalla legge delegata, percepiranno comunque uno stipendio, pur non svolgendo alcuna funzione, anche se limitato alla sola parte tabellare: senza, dunque, percepire la retribuzione “di posizione”, connessa appunto allo svolgimento di un preciso incarico dirigenziale, né quella di “risultato”, ovviamente attribuibile solo in presenza del conseguimento degli obiettivi connessi con l’incarico stesso.
Insomma, a riforma pur di allargare gli spazi per una dirigenza “di fiducia” ammette la presenza di una schiera che non si può, oggi, immaginare quanto grande potrà essere, di dirigenti pagati per non lavorare. E’ vero che in questi casi la retribuzione lorda risulterà più che dimezzata. Risulta, tuttavia, difficile comprendere quale sia la razionalità di un sistema che preveda la remunerazione di dipendenti altamente qualificati che, tuttavia, non prestano attività lavorativa. E tutta da dimostrare è l’utilità di un sistema che ammette un reclutamento tramite concorsi di personale dirigenziale che, paradossalmente, potrebbe non ricevere mai, dopo l’assunzione, alcun incarico, essendo slegata l’assunzione dalla copertura di un preciso posto in organico, o quanto meno una rosa di posti attribuibili.
In ogni caso, facendo conseguire alla mancanza prolungata di incarichi la conseguenza del licenziamento, si dà alla politica un potere enorme sulla dirigenza, determinandone una chiarissima precarizzazione ed una sottoposizione all’arbitrarietà delle scelte, in totale contrasto con la posizione di autonomia imposta dagli articoli 97 e 98 della Costituzione e con la giurisprudenza costituzionale maturata a partire dalla sentenza della Consulta 103/2007.
Infatti, agli organi politici per avere una dirigenza sotto il proprio stretto controllo e orientata più a dimostrare di meritare fiducia ai fini del rinnovo dell’incarico, che non a svolgere l’attività lavorativa con efficacia ed imparzialità, basterà semplicemente ventilare la possibilità del mancato rinnovo dell’incarico. E giungere realmente alla decisione di non assegnare incarichi ai dirigenti considerati “non allineati”, senza nemmeno dover fare la fatica di applicare la normativa già esistente, che consente sia di assegnare incarichi meno rilevanti e remunerati, sia di licenziare i dirigenti poco capaci, sulla base degli esiti della valutazione degli obiettivi.
A ben vedere, il sistema del licenziamento per il dirigente privo di incarico, sostanzialmente vanifica le buone intenzioni della riforma, che vorrebbe appunto puntare sulla semplificazione e maggiore efficacia del processo di valutazione come leva per migliorare il funzionamento della PA. Se, infatti, non si lega la mancata assegnazione dell’incarico, che può condurre al licenziamento, a valutazioni negative e motivate, sarà semplicissimo per la politica disfarsi della dirigenza “non consonante” e costituire un apparato di dirigenti “vicini” ai partiti, potendo contare allo scopo anche sugli incarichi ai dirigenti “esterni”, utilissimi per scalzare dagli incarichi dei dirigenti di ruolo troppo autonomi.
Non a caso, la legge delega prevede l’assunzione di dirigenti non di ruolo “senza previa verifica della disponibilità di dirigenti di ruolo aventi corrispondenti caratteristiche”.
Allora, lo scopo preciso della riforma si coglie se si mette in relazione la licenzi abilità per mancanca di incarico con le cooptazioni senza concorso di dirigenti non di ruolo. Infatti, agli organi politici risulterà semplicissimo costruirsi una dirigenza “schierata” politicamente. Per la cooptazione dei dirigenti “di fiducia”, secondo le bozze in circolazione, non sarà necessario verificare se negli organici di ruolo siano presenti dirigenti dotati dell’esperienza e qualificazione professionale necessaria. Dunque, un ministro o un sindaco potrebbe comunque decidere di assumere un dirigente dall’esterno, nonostante nell’organico sia presente un dirigente di ruolo dotato di competenze e professionalità per svolgere un certo determinato incarico. Così, l’assunzione del dirigente esterno servirà per lasciare quello di ruolo senza incarico e poterlo condurre magari al licenziamento.
Un paradosso incredibile, che rende in sostanza i dirigenti assunti per concorso o tramite il corso-concorso più instabili dei dirigenti fiduciari. Infatti, questi vengono selezionati in genere distogliendoli temporaneamente da altre attività. Perso l’incarico, dunque, non perdono il lavoro, ma tornano da dove provengono.
L’altro paradosso è che per la dirigenza di ruolo si prevede un limite temporale agli incarichi di 3 anni, mentre per quella fiduciaria la durata potrà coincidere col mandato politico. E’ vero che non di rado il mandato politico, specie quello dei governi nazionali, è di breve durata; ma in astratto il dirigente esterno può avere un incarico per 5 anni, contro i 3 di quello di ruolo.
E’ sostanzialmente la creazione di una sistema di porte girevoli dei funzionari e maggiorenti dei partiti, che potranno essere chiamati a far parte degli apparati amministrativi anche a scapito dei dirigenti di ruolo, che potranno essere lasciati appositamente senza incarico e licenziati, per far spazio alla dirigenza “parallela” di natura fiduciaria e politica.
Cosa ne guadagnino i cittadini dalla creazione di apparati creati dalla politica è tutto da capire.
Le conseguenze di simile visione ed impostazione della pubblica amministrazione non sono certo quelle sbandierate della maggiore efficienza. Invece, si crea un apparato controllato direttamente dalla politica, che ne è diretta profanazione e che con la politica si identifichi nel modo più diretto e stretto possibile. Cosa che metterà in seria discussione il ruolo di imparzialità ed i principi di buona amministrazione.
I cittadini si troveranno esposti a decisioni non gestite sul piano tecnico e della parità, ma influenzate dall’appartenenza esplicita allo schieramento al potere, all’essere “parte”, possibilmente attiva, di quella certa maggioranza, con le inevitabili conseguenze discriminatorie.
Il tutto, travestito da una riforma che avrebbe dovuto ridare vigore alla PA, ma che invece si limita a false o inefficaci riformettine, come la fuffa della mobilità obbligatoria, che limitata al raggio di 50 chilometri non permetterà mai la redistribuzione del personale tra aree e territori in modo ottimale.
O l’altra riformetta-slogan del potenziamento delle funzioni dell’Anac, che assorbirà l’Avcp per intensificare i “controlli” sugli appalti e, in particolare, le varianti, che dovranno essere inviate obbligatoriamente ai fini delle verifiche. Ma, un’autorità di 350 persone circa, come farà a verificare le migliaia e migliaia di varianti che si producono in un anno? Ma, soprattutto, perché si insiste ancora nei controlli successivi, svolti, cioè, dopo che la decisione amministrativa è adottata, e non, come sarebbe utile e necessario, prima che essa produca i suoi effetti? Qual è il concetto di “prevenzione” al quale esattamente pensa il Governo?
[…] considerazioni tecniche molto puntuali sono state fatte su questo provvedimento qui: Una riformaccia utile solo alla partitocrazia e all’arbitrio. […]
RispondiElimina[…] drastico ancora il giudizio del giurista Luigi Oliveri: La disposizione che meglio rappresenta l’idea complessiva di pubblica amministrazione contenuta […]
RispondiElimina[…] Bisognerà aspettare che la “epocale riforma della PA italiana” sia chiarita nei dettagli per poter esprimere giudizi più precisi, ma dalle prime indicazioni v’è ragione di ritenere che il bimbominkia voglia portarci verso una democrazia territorale dei clan (vedere nel dettaglio l’articolo di Seminerio) ben inquadrata da un citato commento di Luigi Olivieri (si veda qui l’intero articolo): […]
RispondiElimina[…] tra le altre cose, la modifica dell’articolo 90 del d.lgs 267/2000, al cui comma 2, come segnalato da Luigi Oliveri (che della materia è certamente esperto, per ragioni professionali). Al comma 2 […]
RispondiElimina[…] tra le altre cose, la modifica dell’articolo 90 del d.lgs 267/2000, al cui comma 2, come segnalato da Luigi Oliveri (che della materia è certamente esperto, per ragioni professionali). Al comma 2 […]
RispondiElimina[…] Rilievoaiaceblogliveri – #PA # riforma Una riformaccia utile solo alla partitocrazia e all’arbitrio […]
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