Immaginiamo un mercato del lavoro chiuso e asimmetrico, nel quale l’offerta è nota, disponibile, integralmente registrata e gestita da servizi pubblici e privati, mentre la domanda è opaca, nascosta, tenuta per se stesse dalle aziende.
Non è difficile immaginarlo: è il mercato del lavoro italiano.
Immaginiamo, ora, che la causa di questa asimmetria siano i servizi pubblici per il lavoro che non sono in grado di intermediare bene, come in Germania. Facciamo finta che non sia vero che in Germania si investano per i servizi pubblici per il lavoro 9 miliardi l’anno, contro i 700 milioni l’anno dell’Italia (dati Eurostat) e che in Germania non operino circa 80.000 addetti, contro i 7.700 in Italia.
Se fosse, comunque, vero che il mercato del lavoro è inefficiente perché i servizi pubblici non sanno intermediare, non si capisce come mai, nonostante la piena apertura normativa all’operatività degli intermediari privati, nemmeno il canale di intermediazione delle agenzie per il lavoro riesce a rendere le vacancy pienamente trasparenti e conoscibili. Secondo le rilevazioni Isfol, se l’incidenza dell’intermediazione pubblica non arriva al 4%, quella del privato è di poco superiore al 3%.
Immaginiamo che i dati siano sbagliati e che, invece, il privato sia molto più efficiente di quanto non rilevi l’Isfol.
Nonostante questo sforzo di immaginazione, non si può fare a meno di constatare che la domanda di lavoro “esplicita” sia bassissima quasi irrilevante. La prova? Garanzia Giovani: a fronte di 100.000 giovani inseritisi nel programma, vi sono solo, a fine giugno, circa 3.000 proposte di lavoro, per lo più missioni brevi di somministrazione, travasate da Cliclavoro e dai portali ordinariamente utilizzati sul canale di Garanzia Giovani, dunque 0 nuove proposte in più.
Immaginiamo che si voglia rimediare a queste disfunzioni, attraverso la “premialità”, cioè remunerando gli intermediari “a risultato”, allo scopo di incentivarli a ricercare la domanda.
Anche in questo caso, però, c’è poco da immaginare, perché questa è la strada che pare si voglia ostinatamente prendere in considerazione in Italia. Strada che, però, a ben vedere, sarà null’altro che un vicolo cieco. Il perché è semplice.
In un mercato opaco, le agenzie autorizzate ed accreditate non hanno alcuna ragione di operare per aprirlo del tutto e rendere tutta la domanda visibile e trasparente. Hanno, invece, lo stimolo a segmentarlo, cioè a tagliarlo verticalmente o orizzontalmente, acquisendo un parco clienti, le aziende, alle quali proporre i lavoratori. Il ragionamento sbagliato è: più intermediazione si fa, maggiori sono i guadagni, dunque se il pubblico incentiva con premi a risultato questa “caccia”, l’incontro domanda/offerta migliorerà.
Non è così, invece. Bisogna sempre ricordarsi che le agenzie autorizzate o accreditate sono imprese, che perseguono il profitto. Esse non hanno interesse alcuno ad aprire il mercato del lavoro, ma solo di acquisire quel parco clienti tale da assicurare i profitti ed i margini di guadagno programmati e considerati necessari e sufficienti. Le leggi della microeconomia insegnano che oltre un certo margine, l’attività poi diviene inefficiente. Dunque, nessun’agenzia ambirà mai ad aprire l’intero mercato, ma ciascuna competerà con l’altra per occupare posizioni (il più possibile utili e vantaggiose) nei segmenti, senza che questo porterà mai ad assicurare una manifestazione del 100% delle vacancy. Al contrario, le agenzie private, proprio perché investono e faticano per procurarsi clienti, hanno tutto l’interesse a tenere per sé le domande di lavoro dei clienti. A creare, dunque, mini mercati chiusi, in un mercato chiuso.
Quindi, l’operato delle agenzie, che certamente è utile nell’ottica della sussidiarietà, ad incrementare le occasioni di incontro/domanda offerta, crea, di fatto, dei mini mercati del lavoro, all’interno del più ampio mercato del lavoro.
L’incentivo a risultato pubblico, di fatto, non potrebbe cambiare le cose. Aiuterebbe solo le agenzie private a trovare ricavi e margini prima, ma non ad aprire il mondo della domanda come, invece, il sistema richiederebbe.
Di fatto, dunque, il premio per il “risultato” finirebbe per essere solo una sorta di aiuto di stato alle aziende private. Per altro, quando un servizio, anche se reso da un soggetto privato, è finanziato dal pubblico, è da considerare pubblico. Del resto, viste anche le garanzie costituzionalmente previste al lavoro, è evidente che i servizi per l’incontro domanda/offerta sono pubblici per loro natura, di qualunque tipo sia la natura giuridica dei soggetti operanti, pubblica o privata.
Sia detto per inciso, anche il sistema della libera scelta dei disoccupati per spendere la “dote”, come previsto (molto in sintesi) in Lombardia finisce per essere null’altro che una remunerazione pubblica per l’attività dei privati. Si consideri che la “dote” vale mediamente 3000 euro. Se si applicasse questo sistema a tutta l’Italia, sapendo che i disoccupati sono circa 3,2 milioni, la spesa pubblica per le politiche del lavoro andrebbe a circa 9 miliardi. E ci ritroveremmo, allora, al livello della spesa pubblica della Germania. A riprova che, al di là del modello di servizi che si vuole impiantare, il livello della spesa pubblica conta, conta tantissimo.
Ma, immaginiamo ora un’idea banale, un uovo di Colombo: un sistema di incentivi/disincentivi che induca (per non dire oblighi) le aziende, tutte, a pubblicare su un portale pubblico le domande di lavoro. Tutto sommato, non sarebbe difficile: agevolazioni sull’applicazione della legge 68/1999, oppure condizionamenti ai benefici previdenziali per l’apprendistato o le assunzioni di percettori, potrebbero forzare le aziende a rendere finalmente pienamente conoscibile non il fabbisogno presunto di lavoro (tipo l’indagine Excelsior di sempre discussa e discutibile utilità), ma esattamente, hic et nunc, la domanda di lavoro. E immaginiamo che il portale di cui sopra sia collegato al sistema delle Comunicazioni Obbligatorie. Immaginiamo ancora che il sistema dell’incontro domanda/offerta preveda che i soggetti, pubblici e privati, debbano rispondere alla domanda di lavoro pubblicata dalle aziende entro massimo 5 giorni, con l’invio telematico di rose di candidati (massimo 5 nomi) aderenti al profilo professionale. Se entro 5 giorni non perviene nessuna rosa, l’azienda potrebbe agire per ricercare per suo conto. Viceversa, se le pervenissero le rose, dovrebbe motivare (sia pure brevemente e facilmente col sistema telematico) lo scarto di tutti i candidati, e nuovamente procedere per proprio conto. Altrimenti, laddove scegliesse uno dei candidati trasmessi dai soggetti, un codice informatico legato alla CO potrebbe tracciare il processo, ed evidenziare che l’azienda si è servita del sistema potendo, dunque, avvalersi degli incentivi spettanti, e, ancora, contestualmente connettere l’avvenuta assunzione alla rosa trasmessa da uno dei soggetti, pubblici o privati.
Alla fine di un processo del genere, si avrebbe un’apertura pressoché totale del mercato e la possibilità di tracciare con estrema precisione quali soggetti hanno trasmesso nei tempi le rose più utilizzate e, dunque, più efficaci.
Questo significa, certo, per le agenzie perdere il controllo del parco clienti. Ma, se si definisse questa procedura come livello essenziale delle prestazioni, le agenzie potrebbero contare comunque su una clientela scelta, laddove capaci di dimostrare di essere in grado di offrire servizi ulteriori (formazione, ricerca, selezione, consulenza aziendale), o, comunque, candidati migliori e tempi più ristretti.
E nulla vieterebbe di pensare ad un sistema che premi “a risultato” non il singolo incontro domanda/offerta, che nel sistema verso il quale pare si sia intenzionati ad andare non garantirebbe un’opportunità lavorativa in più del normale flusso del mercato, ma l’intero andamento dell’intero mercato, misurando quante opportunità di incontro domanda offerta in più si sono determinate, quali soggetti hanno garantito maggiori e più celeri e di miglior qualità rose di candidati, utilizzate dalle aziende.
Il mercato del lavoro si assesterebbe. Gli investimenti avrebbero il vantaggio di contare finalmente su una simmetria domanda e offerta, le agenzie potrebbero specializzarsi sul loro vero valore aggiunto: la qualità maggiore, rispetto ad un livello essenziale delle prestazioni che, però, per suo verso deve essere comunque di qualità elevata.
Siamo, comunque, consapevoli che questo disegno di riforma a 180 gradi del mercato del lavoro non verrà mai attuato.
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