Dirigenza, la controriforma è servita
Luigi Oliveri
Nel dare conto dell’approvazione definitiva alla Camera del disegno di legge delega di riforma della PA, moltissimi giornali hanno accolto la revisione della disciplina della dirigenza, sottolineando che “finalmente” gli “incarichi non saranno più a vita” e saranno, invece, legati “al merito”.
Come sempre gli slogan, le dichiarazioni ministeriali e le connesse veline fanno breccia, così da indurre i giornali a descrivere la riforma della dirigenza esattamente all’opposto di quello che effettivamente dispone la legge delega.
Merito? Più un concetto è oggetto di slogan e proclami ripetuti a gran voce, meno esso risponde alla realtà dei fatti.
Di disciplina del “merito” nella legge delega, in tema di dirigenza, non c’è la minima traccia. Semmai, il disegno di legge ora atteso all’approvazione definitiva del Senato si sbilancia nel regolare il “demerito”, con la previsione della decadenza dei dirigenti dal ruolo unico laddove siano rimasti privi di incarico a seguito di valutazione negativa e, ancora, con la incredibile previsione del demansionamento come rimedio ad un licenziamento che sarebbe dovuto a giustificato motivo soggettivo.
L’unico barlume di regolazione del “merito” si ha quando la legge consente di prolungare la durata degli incarichi dirigenziali, ordinariamente prevista in 4 anni, di altri 2 anni (assurda la sfasatura temporale prevista) laddove il dirigente abbia ottenuto una “valutazione positiva”.
Ecco, in effetti per “merito” tutti intenderemmo la capacità di dimostrare sul campo l’idoneità a condurre con efficacia il proprio lavoro, dimostrata dai risultati ottenuti e dall’aggiornamento professionale acquisito e dimostrato.
Ma, di questo concetto di “merito” il disegno di legge assolutamente non si occupa, con specifico riferimento all’elemento fondamentale al quale il “merito” dovrebbe essere correlato: il conferimento o mancata conferma degli incarichi dirigenziali.
Asservimento alla politica. Il “merito” presupporrebbe che gli elementi di valutazione delle capacità del dirigente fossero valutati da soggetti terzi rispetto alla politica, allo scopo di garantire competenza tecnica nel processo valutativo, nonché autonomia rispetto al possesso di tessere o benemerenze di partito.
In effetti, il disegno di legge delega prevede che sia delle Commissioni nazionali, una per ciascuno dei tre ruoli unici della dirigenza (statale, regionale e locale) a valutare le competenze dei dirigenti, sulla base di una serie di criteri generali da prefissare.
Tutto bene, allora. No. Perché il compito delle Commissioni non arriverà fino alla produzione di una graduatoria (in questo tutti reputeremmo consistere una procedura finalizzata alla valorizzazione del “merito”), ma alla preselezione di un certo numero di dirigenti. La scelta finale del soggetto da incaricare spetterà totalmente e senza necessità di motivazione alla politica.
Sarà, dunque, molto semplice poter influire sulle scelte delle Commissioni (che saranno di nomina politica, ça va sans dire), in modo che nelle rose confluiscano esattamente quei dirigenti dotati di tessere o benemerenze di partito, per orientare sin dall’inizio l’esito di procedure che si dipingono come aperte e meritocratiche, ma facilissimamente pilotabili.
L’esperienza della gestione dell’albo dei segretari comunali, dalla quale la riforma mutua moltissimi spunti (a scapito degli stessi segretari, in quanto si prevede l’abolizione della figura) insegna che selezioni da albi o ruoli non sono mai determinate dal merito: nel 99,9% dei casi, quando le amministrazioni locali hanno aperto le procedure per l’assegnazione dell’incarico ai segretari, quale fosse il nome dell’incaricato lo si sapeva, tutti, da prima.
Non solo il “merito” dunque ha pochissimo a che vedere col conferimento degli incarichi, ma anche con la conferma. Alla parte politica il disegno di legge rende semplicissimo disfarsi di quel dirigente, non dotato di tessera e benemerenze, che occupa un posto che si desidererebbe assegnare ad altro soggetto, molto tesserato e benemerito: non confermare l’incarico e lasciarlo a languire nel ruolo della dirigenza, a metà stipendio e a rischio di licenziamento.
Il provvedimento di mancata conferma non sarà da motivare e, anzi, il disegno di legge insiste molto sulla circostanza che i dirigenti non possano permanere nel medesimo incarico per più di 4 anni (più eventuale 2 di proroga), se non mediante una nuova procedura di assegnazione.
Trionfo della politica. Nell’attuale sistema, gli organi di governo che dispongono del potere di attribuire gli incarichi, effettuano la valutazione e selezione dei dirigenti all’interno della dotazione organica dell’ente. Questo, ovviamente, restringe il campo d’azione e rende davvero complicato valorizzare la benemerenza da tessera, senza plateali forzature.
Con la riforma, invece, le procedure saranno aperte a tutti i dirigenti inseriti in ambito nazionale nel ruolo unico. La possibilità di “pescare” il benemerito si amplia a dismisura e, simmetricamente, la soggezione del dirigente di ruolo non particolarmente noto per impegni di partito si incrementa esponenzialmente.
L’organo politico per disfarsi del dirigente non dovrà far altro che rispettare la legge: lasciar decorrere i 4 anni di incarico, attivare la procedura selettiva e attingere dalla “preselezione” chi meglio ritenga. Il “merito” sarebbe assolutamente ben altra cosa.
Durata a vita? L’altro slogan, molto trionfalistico, valorizza la decisione della legge delega di eliminare la “durata a vita” degli incarichi dirigenziali, esattamente per i meccanismi e le scadenze descritte prima.
Ci sarebbe, tuttavia, da chiedere ai molti che hanno scritto sui giornali dell’eliminazione della durata a vita, dove abbiano tratto questa notizia e, soprattutto, come l’abbiano verificata.
Eppure, controllare se davvero oggi esista una durata a vita degli incarichi sarebbe semplice: basta andare a leggere il d.lgs 165/2001.
Il quale all’articolo 19, comma 2, dispone: “Tutti gli incarichi di funzione dirigenziale nelle amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, sono conferiti secondo le disposizioni del presente articolo. Con il provvedimento di conferimento dell'incarico, ovvero con separato provvedimento del Presidente del Consiglio dei ministri o del Ministro competente per gli incarichi di cui al comma 3, sono individuati l'oggetto dell'incarico e gli obiettivi da conseguire, con riferimento alle priorità, ai piani e ai programmi definiti dall'organo di vertice nei propri atti di indirizzo e alle eventuali modifiche degli stessi che intervengano nel corso del rapporto, nonché la durata dell'incarico, che deve essere correlata agli obiettivi prefissati e che, comunque, non può essere inferiore a tre anni né eccedere il termine di cinque anni”.
La “durata a vita” degli incarichi non c’è e non c’è mai stata. Affermare che la legge delega la elimina, significa cadere nel tranello del marketing, che vuole presentare la riforma della dirigenza come la liberazione della politica dal giogo che essa subirebbe da una dirigenza descritta come imbullonata a vita al proprio incarico. Molte volte per confermare questo assunto, erroneo e contraddetto dalla legge chiarissima sul punto, si è citato l’esempio di Ercole Incalza, dimenticando di dire che egli non era un dirigente a tempo indeterminato, ma un soggetto incaricato di volta in volta e chiamato dall’esterno dai ministri di turno. Se è rimasto “a vita” il deus ex machina delle grandi opere pubbliche, ciò è stato dovuto a precise scelte della politica e per nulla a vizi delle norme, che avrebbero consentito incarichi a vita.
Revoca per responsabilità erariale. Un’ultima annotazione va fatta con riferimento all’introduzione di un emendamento secondo il quale gli incarichi dirigenziali debbono essere revocati in caso di condanna anche non definitiva della Corte dei conti per danno erariale, connessa a fatti dolosi in settori esposti a rischi di corruzione.
Si tratta di un emendamento che introduce una norma che può apparire corretta sul piano etico, ma crea una grandissima confusione tra elementi completamente disomogenei. Il giudizio contabile, rispetto alla corruzione, non ha nulla a che vedere. La revoca dell’incarico per fatti corruttivi dovrebbe essere frutto dell’attivazione dei sistemi anticorruzione interni, previsti dalla legge 190/2012 e non da un arresto giurisprudenziale che può avere natura, cause ed oggetti completamente diversi.
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