Pochi giorni addietro abbiamo avuto occasione di commentare in senso fortemente critico l'idea del professor Giovanni Valotti di sostituire ai concorsi sistemi di reclutamento "privatistici" che, in Italia, non potrebbero mai aver presa in modo corretto, come per le primarie.
Tra i vari slogan oggettivamente ritriti e stanchi dell'idea del Valotti, c'è quello della valutazione della capacità "manageriale" della dirigenza.
Non si tratta di certo di un'idea del solo Valotti. Da almeno un quarto di secolo ci siamo convinti che il ruolo della dirigenza non può essere solo la conoscenza delle regole burocratiche, ma appunto la capacità manageriale di valorizzare le risorse disponibili, di innovare i processi, accelerare i tempi, diminuire i costi, modernizzare i servizi.
Parole bellissime, obiettivi sacrosanti.
Ma, siamo proprio certi che dalle parole, in questo Paese, si possa passare ai fatti? Per essere più precisi: attengono, come unico e solo esempio, alla "managerialità" le scellerate disposizioni contenute nell'articolo 1, comm 510 e 516, della legge 208/2015? Norme, cioè, che sottopongono ad un'autorizzazione, che nemmeno si sa bene chi la debba rilasciare, la scelta operativa di avvalersi o meno delle convenzioni Consip e che, nel caso del comma 516, potrebbero indurre a ritenere necessaria l'autorizzazione anche quando non esista la convenzione? E' attraverso uno dei più burocratici atti esistenti nel mondo, l'autorizzazione, che si ritiene di avvalersi della "managerialità" dei dirigenti?
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