Scrive su Il Sole 24 Ore del 22 maggio 2015, nell'articolo dal titolo "La riforma e l'Italia che vogliamo" il politologo Sergio Fabbrini: "Con la riforma, finirà il ping pong delle leggi da una camera all'altra. Quando si dovrà votare la legge finanziaria dello stato, ad esempio, non ci sarà più la competizione tra deputati e senatori ad avanzare richieste particolari per incrementare le rispettive fortune elettorali nella propria circoscrizione. Il processo decisionale sarà semplificato e reso più efficiente".
Perfettamente lecito sostenere le ragioni del sì. Meno corretto, appare, tuttavia, motivare le proprie opinioni con elementi che vorrebbero corrispondere ad un desiderio, la semplificazione del processo decisionale, ma non vi riescono.
I fatti dovrebbero essere la luce che guida ogni analisi, specie se realizzata da un docente universitario, che conosce meglio di chiunque altri gli strumenti della ricerca.
E' molto difficile dimostrare che quanto afferma il Fabbrini, come molti sostenitori del sì, rispetto al tema della semplificazione e della maggiore efficienza dell'iter parlamentare risponda al vero, quando questo è il confronto tra l'attuale testo dell'articolo 70, che disciplina l'iter delle leggi, ed il nuovo testo se vincesse il sì:
Non c'è bisogno di molti commenti. Il Senato può chiedere di intervenire su ogni materia, almeno per formulare un proprio parere. Su molte altre è ancora necessario il suo voto. Ma, la cosa singolare è che non risulta per nulla chiaro quali siano queste materie, mentre è evidente che gli iter legislativi da uno che era, la doppia lettura, divengono circa 12.
Pare ancora meno corretto sostenere le ragioni di una legittima posizione favorevole alla riforma, con quanto afferma ancora il Fabbrini: "E' probabile che, una volta applicata, la riforma costituzionale mostrerà alcuni limiti specifici. D'altra parte, non solamente è stata fatta in parlamento attraverso compromessi tra forze politiche diverse ma la stessa differenziazione legislativa tra la Camera dei deputati e il futuro Senato delle regioni dovrà essere verificata sul piano empirico".
Non è accettabile, sul piano della scienza giuridica, prima ancora che della politica pura, approvare qualsiasi legge, ma soprattutto la principale legge che regola la vita di una Nazione, cioè la Costituzione, da un lato con la consapevolezza che molto probabilmente la legge (pur spacciata come in grado di per sè di modificare in meglio la Repubblica) avrà limiti e difetti, e dall'altro riservarsi di effettuare eventuali correzioni in un secondo momento.
La riforma costituzionale del 2001, quella che introdusse la sciagurata riforma del Titolo V che, adesso, in parte sarebbe rivista proprio con la legge sottoposta al referendum del prossimo ottobre, è stata, per voce unanime, un clamoroso ed immenso errore: ma, come si nota, da 15 anni quella riforma continua a produrre i danni immensi, specialmente assestati al debito pubblico a causa di un folle aumento dei poteri delle regioni.
Dunque, come si vede, scherzare con la Costituzione non è come fare esperimenti in laboratorio. Si producono danni enormi, che rischiano di durare anni ed anni, perchè non è affatto semplice (nè immaginabile) continuare a rabberciare e modificare una Costituzione, come anche le leggi.
Insomma, se si vuol sostenere il sì, perchè sul piano politico si intende condividere un'azione del Governo (pur nella consapevolezza che la Costituzione è una materia della quale l'esecutivo dovrebbe solo disinteressarsi), bene, si faccia. Ma, poichè lo scopo della riforma è aumentare a dismisura i poteri dell'esecutivo e creare guarentigie per i potentati regionali (la riforma da un lato corregge il Titolo V, ma dall'altro assicura l'immunità ai presidenti delle regioni...), sarebbe più lineare non motivare il proprio favore alla riforma con indicazioni semplicemente non rispondenti alla banale lettura dei testi.
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