Nel corso della trasmissione su
Radio 24 “I conti della belva” dell'11 giugno è stato affrontato il problema, effettivamente
molto complesso, di come sia possibile che la Cassazione Sezione Lavoro, con la
sentenza 9.6.2016, n. 11868, abbia potuto ritenere ancora vigente il testo
originario dell’articolo 18 della legge 300/1970.
Sul punto, occorre essere molto
chiari: l’interpretazione fornita dalla Cassazione non si poggia per nulla su
testi normativi, ma è solo di tipo sostanzialmente finalistico/sociologico.
Volendo essere più caustici, la
sentenza ritiene ancora applicabile al lavoro pubblico il testo di una norma
che non è più vigente. Vediamo perché.
Nel corso della trasmissione
menzionata, si è fatto riferimento alla riforma operata all’articolo 18 da
parte del “Jobs Act”, ricordando che la sostanziale abolizione della tutela “reale”
per il licenziamento illegittimo consistente nel reintegro varrà solo per gli
assunti successivamente alla vigenza della riforma. Quindi, si è concluso, il
legislatore ha frazionato il mercato del lavoro in 3 parti:
a)
lavoratori privati ai quali non si applica più il
reintegro;
b)
lavoratori privati (di imprese con almeno 15
dipendenti) ai quali continua ad applicarsi;
c)
lavoratori pubblici, ai quali si applica il testo
originario dell’articolo 18.
Tali conclusioni, tuttavia, non
sono corrette. Partiamo dal “Jobs Act”, anzi, per la precisione, dal d.lgs
23/2015, intervenuto appunto a ridisciplinare le tutele conseguenti ai
licenziamenti illegittimi.
E’ bene evidenziare che il d.lgs
23/2015 non ha riformato l’articolo 18.
La legge ha introdotto una disciplina diversa della tutela dei licenziamenti,
senza modificare il testo dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori,
esattamente allo scopo di porre in essere due distinte discipline di tutela:
quella per i lavoratori assunti dopo l’entrata in vigore del d.lgs 23/2015
(anche per effetto di trasformazioni del rapporto di lavoro da flessibile a
tempo determinato e nel caso di lavoratori di imprese che passino ad avere
oltre 15 dipendenti sempre oltre la data di entrata in vigore della riforma) e
quelli assunti prima.
Basta andare a controllare il
testo della norma: nessuno degli articoli del d.lgs 23/2015 modifica il testo
dell’articolo 18.
La norma più rilevante del d.lgs
23/2015 ai fini che interessano è l’articolo 1, comma 1: “Per i lavoratori che rivestono la qualifica di operai, impiegati o
quadri, assunti con contratto di lavoro
subordinato a tempo indeterminato a decorrere dalla data di entrata in vigore
del presente decreto, il regime di tutela nel caso di licenziamento illegittimo
è disciplinato dalle disposizioni di cui
al presente decreto”.
La norma, come si nota è
chiarissima: riguarda esclusivamente il futuro. Il d.lgs 23/2015, quindi, crea
una disciplina della tutela dei licenziamenti “parallela” a quella dell’articolo
18 dello Statuto dei lavoratori e riservata alle vicende di instaurazione di
rapporti di lavoro a tempo indeterminato successive alla propria entrata in
vigore.
A molti è stato fatto credere
che il Jobs Act abbia “abolito” l’articolo 18, ma, come si dimostra, non è
vero. L’articolo 18 è rimasto operante: fra molti anni, però, non sarà più
operante, una volta che tutti i lavoratori (privati) siano stati assunti nel
nuovo regime inaugurato dal d.lgs 23/2015.
Fissato quanto sopra, occorre,
allora, verificare se anche la “legge Fornero”, cioè la legge 92/2012 abbia
compiuto simile operazione, distinguendo, quindi, due differenti regimi
normativi tra dipendenti pubblici e dipendenti privati. La risposta è semplice:
no.
La legge 92/2012, a differenza
del Jobs Act, ha modificato – eccome – l’articolo 18 dello statuto dei
lavoratori, attraverso il proprio articolo 1, comma 42[1].
In particolare, detto ultimo
articolo ha espunto dal testo originario dell’articolo 18 il comma 1, cioè
esattamente quello che prevedeva la tutela generalizzata del reintegro: “Ferma restando l'esperibilità delle
procedure previste dall'articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604, il
giudice, con la sentenza con cui dichiara inefficace il licenziamento ai sensi
dell'articolo 2 della legge predetta o annulla il licenziamento intimato senza
giusta causa o giustificato motivo ovvero ne dichiara la nullita' a norma della
legge stessa, ordina al datore di lavoro di reintegrare il lavoratore nel posto
di lavoro”.
Con la legge-Fornero, la tutela
reale è limitata a casi specifici di violazione di specifici divieti di
licenziamento o al caso in cui il giudice accerti che non ricorrono gli estremi
del licenziamento dovuto a giustificaoto motivo soggettivo o a giusta causa, in
quanto il fatto addebitato al lavoratore non sussista.
Dunque, a seguito dell’entrata
in vigore della legge 92/2012 il testo dell’articolo 18 dello Statuto dei
lavoratori è stato modificato; detto in altro modo, il testo originario dell’articolo
18 dello Statuto dei lavoratori, che prevedeva come tutela generalizzata il reintegro,
non esiste più.
La legge 92/2012, è bene
chiarirlo, a differenza del d.lgs 23/2015, non contiene nessuna disposizione
che limiti la propria portata ad una certa categoria di lavoratori, pubblici o
privati, assunti prima o assunti dopo una certa data. Ha riformato l’articolo
18 sic et simpliciter.
Il problema è tutto lì. La
Cassazione, nella sentenza 11868 non ha avuto modo di evidenziare la
coesistenza giuridica di due diverse “versioni” del testo dell’articolo 18 sul
piano strettamente giuridico, proprio perché il testo dell’articolo 18 è stato
modificato, in assenza di qualsiasi norma espressa che conservasse, per l’impiego
pubblico, il testo previgente.
Al contrario, nel d.lgs 165/2001
(il testo unico di disciplina del pubblico impiego) esiste l’articolo 51, comma
2[2], che
contiene una clausola di “rinvio”, volta ad applicare automaticamente al lavoro
pubblico la disciplina dello Statuto dei lavoratori.
Si tratta, senza dubbio alcuno,
di un rinvio cosiddetto “mobile”: il legislatore intende che alla fattispecie
del lavoro pubblico si applichi sempre lo Statuto dei lavoratori, anche quando
norme successive lo integrino o lo modifichino. Esattamente come ha disposto la
legge Fornero.
E’ per questo che il ragionamento
proposto dalla Cassazione con la sentenza del 9 giugno non convince. Essa
giunge in modo molto confuso e contorto ad affermare che il rinvio non sarebbe mobile,
ma statico, riferito, cioè al testo dell’articolo 18 dello Statuto dei
lavoratori “ante” riforma Fornero, essenzialmente per due motivi:
1) perché
manca la norma di “armonizzazione” tra disciplina del lavoro privato e quello
pubblico;
2) perché
“in presenza di una norma di rinvio
finalizzata ad estendere ad un diverso ambito una normativa nata per
disciplinare altri rapporti giuridici (l’articolo 51, comma 2, del d.lgs
165/2001 nda), è consentito al
legislatore di limitare, con un successivo intervento normativo di pari rango
(sarebbe la legge 92/2012, nda), il
rinvio medesimo e, quindi, di escludere l’automatica estensione di modifiche
della disciplina richiamata. Detto intervento, che è quello verificatosi nella
fattispecie (la legge 92/2012, nda),
fa sì che il rinvio si trasformi da mobile a fisso, ossia che la norma richiamata
resti cristallizzata nel testo antecedente alle modifiche apportate dalla
riforma, che, quindi, continua a disciplinare i rapporti interessati dalla
norma di rinvio, dando vita in tal modo ad una duplicità di normative, ciascuna
applicabile in relazione alla diversa natura dei rapporti giuridici in rilievo”.
Queste due affermazioni
sarebbero corrette se la previsione dell’armonizzazione tra disciplina del
lavoro privato e quella del lavoro pubblico avesse contenuto una norma chiara
di “salvezza” dell’efficacia del vecchio testo dell’articolo 18, o se la legge
92/2012 avesse riformato le tutele per i licenziamenti illegittimi solo per i
privati, ma senza riformare il testo dell’articolo 18, cosa che invece ha
fatto.
Non si deve dimenticare che
entra in gioco un altro articolo, importantissimo, del d.lgs 165/2001, il 2,
comma 2, primo periodo, che è la norma fondamentale da cui deriva la (parziale)
“privatizzazione” del lavoro pubblico: “I
rapporti di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche sono disciplinati dalle disposizioni del
capo I, titolo II, del libro V del codice civile e dalle leggi sui rapporti di
lavoro subordinato nell'impresa, fatte salve le diverse disposizioni
contenute nel presente decreto, che costituiscono disposizioni a carattere
imperativo. [...]”.
Dunque, la legge che disciplina
il rapporto di lavoro pubblico afferma:
1. al
lavoro pubblico si applicano tutte (tutte) le norme che regolano il rapporto di
lavoro nell’impresa;
2. tuttavia,
di queste norme non si applicano quelle “diverse”, cioè particolari e
specificamente dedicate al lavoro pubblico e che lo rendono ancora peculiare e
diverso da quello privato, contenute nel d.lgs 165/2001 stesso.
Se il legislatore del testo
unico sul lavoro pubblico avesse inteso differenziare la tutela dei
licenziamenti illegittimi per il pubblico impiego rispetto a quella per il
lavoro privato, avrebbe potuto farlo, prevedendo una norma “particolare”, volta
a regolamentare tale tema in modo “diverso” rispetto al privato. Ma, come prova
proprio il citato articolo 51, comma 2, non lo ha fatto, esprimendo esattamente
la volontà contraria: far entrare nella disciplina del lavoro pubblico l’intera
regolamentazione dello Statuto dei lavoratori, comprese le sue modifiche ed
integrazioni.
Se, allora, la legge Fornero
modifica l’articolo 18, dette modifiche:
1. cambiano
per sempre il testo dell’articolo 18 e, in assenza di una norma che faccia
salva il vecchio testo, esso cessa di produrre qualsiasi effetto;
2. entrano
automaticamente nella disciplina del rapporto di lavoro pubblico.
La sentenza della Cassazione si
sforza di negare le evidenze di cui sopra, lasciando intendere che la legge
92/2012 avrebbe modificato la norma di rinvio contenuta nell’articolo 52, comma
1, ma senza riuscire a dimostrare tutto ciò.
Soprattutto, la Cassazione non
prende atto che l’armonizzazione prevista dalla legge Fornero è necessaria
esattamente per la ragione opposta a quella evidenziata nella sentenza: non per
adeguare la disciplina della tutela dei licenziamenti illegittimi del lavoro
pubblico a quella del lavoro privato, ma, al contrario, per verificare se sia
opportuno introdurre una previsione normativa particolare e diversa per il
lavoro pubblico, in ragione delle particolarità che ancora lo connotano. E
questo, per la ragione semplicissima che il testo dell’articolo 18 è stato
modificato, sicchè non è assolutamente fondato affermare che esista una sua ultravigenza.
La quale, per altro, non può essere affermata da una sentenza, ma dovrebbe
essere disposta per legge, altrimenti il giudice, se potesse di volta in volta
decidere se una norma abolita continua ad applicarsi, finirebbe per invadere il
potere legislativo, violando il principio di separazione tra potere legislativo
e giudiziario.
[1] Se ne riporta il testo:
“42. All'articolo 18 della legge 20 maggio 1970,
n. 300, sono apportate le seguenti modificazioni:
a) la rubrica è sostituita dalla seguente:
«Tutela del lavoratore in caso di licenziamento illegittimo»;
b) i commi dal primo al sesto sono sostituiti
dai seguenti:
«Il giudice, con
la sentenza con la quale dichiara la nullità del licenziamento perché discriminatorio
ai sensi dell'articolo 3 della legge 11 maggio 1990, n. 108, ovvero intimato in
concomitanza col matrimonio ai sensi dell'articolo 35 del codice delle pari
opportunità tra uomo e donna, di cui al decreto legislativo 11 aprile 2006, n.
198, o in violazione dei divieti di licenziamento di cui all'articolo 54, commi
1, 6, 7 e 9, del testo unico delle disposizioni legislative in materia di
tutela e sostegno della maternità e della paternità, di cui al decreto
legislativo 26 marzo 2001, n. 151, e successive modificazioni, ovvero perché
riconducibile ad altri casi di nullità previsti dalla legge o determinato da un
motivo illecito determinante ai sensi dell'articolo 1345 del codice civile,
ordina al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, la reintegrazione
del lavoratore nel posto di lavoro, indipendentemente dal motivo formalmente
addotto e quale che sia il numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro.
La presente disposizione si applica anche ai dirigenti. A seguito dell'ordine di
reintegrazione, il rapporto di lavoro si intende risolto quando il lavoratore
non abbia ripreso servizio entro trenta giorni dall'invito del datore di
lavoro, salvo il caso in cui abbia richiesto l'indennità di cui al terzo comma
del presente articolo. Il regime di cui al presente articolo si applica anche
al licenziamento dichiarato inefficace perché intimato in forma orale.
Il giudice, con
la sentenza di cui al primo comma, condanna altresì il datore di lavoro al
risarcimento del danno subito dal lavoratore per il licenziamento di cui sia
stata accertata la nullità, stabilendo a tal fine un'indennità commisurata
all'ultima retribuzione globale di fatto maturata dal giorno del licenziamento
sino a quello dell'effettiva reintegrazione, dedotto quanto percepito, nel
periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative. In
ogni caso la misura del risarcimento non potrà essere inferiore a cinque
mensilità della retribuzione globale di fatto. Il datore di lavoro è condannato
inoltre, per il medesimo periodo, al versamento dei contributi previdenziali e
assistenziali.
Fermo restando
il diritto al risarcimento del danno come previsto al secondo comma, al
lavoratore è data la facoltà di chiedere al datore di lavoro, in sostituzione
della reintegrazione nel posto di lavoro, un'indennità pari a quindici
mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, la cui richiesta determina
la risoluzione del rapporto di lavoro, e che non è assoggettata a contribuzione
previdenziale. La richiesta dell'indennità deve essere effettuata entro trenta
giorni dalla comunicazione del deposito della sentenza, o dall'invito del
datore di lavoro a riprendere servizio, se anteriore alla predetta
comunicazione.
Il giudice,
nelle ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato
motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, per
insussistenza del fatto contestato ovvero perché il fatto rientra tra le
condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei
contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili, annulla il
licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione nel posto di
lavoro di cui al primo comma e al pagamento di un'indennità risarcitoria
commisurata all'ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del
licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione, dedotto quanto il
lavoratore ha percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di
altre attività lavorative, nonché quanto avrebbe potuto percepire dedicandosi
con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione. In ogni caso la misura
dell'indennità risarcitoria non può essere superiore a dodici mensilità della
retribuzione globale di fatto. Il datore di lavoro è condannato, altresì, al
versamento dei contributi previdenziali e assistenziali dal giorno del
licenziamento fino a quello della effettiva reintegrazione, maggiorati degli
interessi nella misura legale senza applicazione di sanzioni per omessa o
ritardata contribuzione, per un importo pari al differenziale contributivo
esistente tra la contribuzione che sarebbe stata maturata nel rapporto di
lavoro risolto dall'illegittimo licenziamento e quella accreditata al
lavoratore in conseguenza dello svolgimento di altre attività lavorative. In
quest'ultimo caso, qualora i contributi afferiscano ad altra gestione
previdenziale, essi sono imputati d'ufficio alla gestione corrispondente
all'attività lavorativa svolta dal dipendente licenziato, con addebito dei
relativi costi al datore di lavoro. A seguito dell'ordine di reintegrazione, il
rapporto di lavoro si intende risolto quando il lavoratore non abbia ripreso
servizio entro trenta giorni dall'invito del datore di lavoro, salvo il caso in
cui abbia richiesto l'indennità sostitutiva della reintegrazione nel posto di
lavoro ai sensi del terzo comma.
Il giudice,
nelle altre ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del
giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di
lavoro, dichiara risolto il rapporto di lavoro con effetto dalla data del
licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un'indennità
risarcitoria onnicomprensiva determinata tra un minimo di dodici e un massimo
di ventiquattro mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, in
relazione all'anzianità del lavoratore e tenuto conto del numero dei dipendenti
occupati, delle dimensioni dell'attività economica, del comportamento e delle
condizioni delle parti, con onere di specifica motivazione a tale riguardo.
Nell'ipotesi in
cui il licenziamento sia dichiarato inefficace per violazione del requisito di
motivazione di cui all'articolo 2, comma 2, della legge 15 luglio 1966, n. 604,
e successive modificazioni, della procedura di cui all'articolo 7 della
presente legge, o della procedura di cui all'articolo 7 della legge 15 luglio
1966, n. 604, e successive modificazioni, si applica il regime di cui al quinto
comma, ma con attribuzione al lavoratore di un'indennità risarcitoria
onnicomprensiva determinata, in relazione alla gravità della violazione formale
o procedurale commessa dal datore di lavoro, tra un minimo di sei e un massimo
di dodici mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, con onere di
specifica motivazione a tale riguardo, a meno che il giudice, sulla base della
domanda del lavoratore, accerti che vi è anche un difetto di giustificazione
del licenziamento, nel qual caso applica, in luogo di quelle previste dal
presente comma, le tutele di cui ai commi quarto, quinto o settimo.
Il giudice
applica la medesima disciplina di cui al quarto comma del presente articolo
nell'ipotesi in cui accerti il difetto di giustificazione del licenziamento
intimato, anche ai sensi degli articoli 4, comma 4, e 10, comma 3, della legge
12 marzo 1999, n. 68, per motivo oggettivo consistente nell'inidoneità fisica o
psichica del lavoratore, ovvero che il licenziamento è stato intimato in
violazione dell'articolo 2110, secondo comma, del codice civile. Può altresì
applicare la predetta disciplina nell'ipotesi in cui accerti la manifesta
insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo
oggettivo; nelle altre ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del
predetto giustificato motivo, il giudice applica la disciplina di cui al quinto
comma. In tale ultimo caso il giudice, ai fini della determinazione
dell'indennità tra il minimo e il massimo previsti, tiene conto, oltre ai
criteri di cui al quinto comma, delle iniziative assunte dal lavoratore per la
ricerca di una nuova occupazione e del comportamento delle parti nell'ambito
della procedura di cui all'articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e
successive modificazioni. Qualora, nel corso del giudizio, sulla base della
domanda formulata dal lavoratore, il licenziamento risulti determinato da
ragioni discriminatorie o disciplinari, trovano applicazione le relative tutele
previste dal presente articolo.
Le disposizioni
dei commi dal quarto al settimo si applicano al datore di lavoro, imprenditore
o non imprenditore, che in ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o
reparto autonomo nel quale ha avuto luogo il licenziamento occupa alle sue
dipendenze più di quindici lavoratori o più di cinque se si tratta di
imprenditore agricolo, nonché al datore di lavoro, imprenditore o non
imprenditore, che nell'ambito dello stesso comune occupa più di quindici
dipendenti e all'impresa agricola che nel medesimo ambito territoriale occupa
più di cinque dipendenti, anche se ciascuna unità produttiva, singolarmente
considerata, non raggiunge tali limiti, e in ogni caso al datore di lavoro,
imprenditore e non imprenditore, che occupa più di sessanta dipendenti.
Ai fini del
computo del numero dei dipendenti di cui all'ottavo comma si tiene conto dei
lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato parziale per la quota di
orario effettivamente svolto, tenendo conto, a tale proposito, che il computo
delle unità lavorative fa riferimento all'orario previsto dalla contrattazione
collettiva del settore. Non si computano il coniuge e i parenti del datore di
lavoro entro il secondo grado in linea diretta e in linea collaterale. Il
computo dei limiti occupazionali di cui all'ottavo comma non incide su norme o
istituti che prevedono agevolazioni finanziarie o creditizie.
Nell'ipotesi di
revoca del licenziamento, purché effettuata entro il termine di quindici giorni
dalla comunicazione al datore di lavoro dell'impugnazione del medesimo, il
rapporto di lavoro si intende ripristinato senza soluzione di continuità, con
diritto del lavoratore alla retribuzione maturata nel periodo precedente alla
revoca, e non trovano applicazione i regimi sanzionatori previsti dal presente
articolo»;
c) all'ultimo comma, le parole: «al quarto
comma» sono sostituite dalle seguenti: «all'undicesimo comma»”.
[2] Se ne riporta il testo: “La legge 20 maggio 1970, n.300, e successive
modificazioni ed integrazioni, si applica alle pubbliche amministrazioni a
prescindere dal numero dei dipendenti”.
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