Le vicende del comune
di Roma confermano drammaticamente le gravissime conseguenze di
anni di riforme
sbagliate, come quelle predisposte da Bassanini, che la legge Madia avrebbe
ulteriormente accentuato. In sottofondo, anche l’evidente inefficacia delle
norme sull’anticorruzione
Il caso dell’arresto di Raffaele
Marra per corruzione leva ogni velo su tutte le immense disfunzioni create da
oltre 25 anni di scriteriate riforme “epocali” della PA. In particolare, per
quanto riguarda l’attivazione di un dannosissimo spoil system e la totale abolizione
dei controlli preventivi di legittimità.
La “madre” di tutti questi
disastri, come è noto, è la “legge Bassanini”, il tremendo d.lgs 127/1997, che
ha appunto dato la stura, perfezionata da successive norme di qualche tempo
dopo, all’eliminazione dei controlli preventivi, all’ampliamento a dismisura
dello spoil system (anche con l’introduzione di figure metà politiche e metà
gestionali come il direttore generale nei comuni o gli staff “articolo 90”), la
riduzione drastica del ruolo e delle funzioni dei segretari comunali.
La riforma Madia, fortunatamente
bloccata dalla quanto mai provvidenziale sentenza 251/2016 della Consulta,
avrebbe finito per accentuare al parossismo la situazione, attribuendo alla
politica poteri di nomina fiduciaria e di licenziamento della dirigenza senza
nemmeno motivazione e, dunque, totalmente arbitrari e abolendo totalmente la
figura del segretario comunale.
Al netto della circostanza che
chi delinque lo fa violando ovviamente le leggi vigenti in quel momento, sicchè
l’effetto di deterrenza delle leggi è ovviamente inversamente proporzionale all’attitudine
a delinquere di ciascuno, il caso Marra trova il suo terreno di coltura
interamente in questo quadro di riforme, delle quali troppe, purtroppo, vigenti
da anni, altre in fieri ma fin qui bloccate.
La dirigenza che piace alla politica. Facciamo un piccolo passo
indietro, prima di continuare nella disamina della questione. Esattamente,
torniamo al 13 dicembre 2016, in occasione dell’inaugurazione di tre servizi
operativi nell'Ospedale del Mare a Napoli, quando a parlare è il presidente
della regione Campania, Vincenzo De Luca e afferma: “dobbiamo abituarci ad avere dirigenti che non hanno paura della firma,
che non hanno paura di firmare una transazione, che mettono anche nel conto di avere qualche avviso di garanzia,
ma quando si ha la coscienza tranquilla andiamo avanti, perché se no qua moriamo
di avvisi di garanzia e la gente non ha neanche i servizi”.
Sulla dirigenza che piace alla
politica, chi scrive si è già espresso moltissime volte in passato (ad esempio qui
e qui).
Tuttavia, il presidente della regione Campania ha reso molto meglio il
concetto. Il modello di dirigenza che è ormai entrato definitivamente negli
schemi degli amministratori politici è esattamente quello del parafulmine:
qualcuno che si assuma sostanzialmente solo il compito di firmare qualsiasi
cosa, o per totale condivisione ed appartenenza politica, o, comunque, per
sottomissione a pressioni, facendo da scudo alle responsabilità dei politici,
prescindendo da qualsiasi valutazione di legittimità e legalità. Tanto da
considerare dirigenti “veri” solo quelli che “mettono nel conto di avere
qualche avviso di garanzia”. Possibilmente, se si riesce, al posto dei
politici.
E’ esattamente l’intento
manifestato, sia pure per il diverso aspetto della responsabilità erariale,
dalla riforma Madia: il decreto legislativo attuativo dell’articolo 11 della
legge 124/2015 avrebbe contenuto, se non fermato dalla Consulta, come è noto,
la previsione della responsabilità erariale esclusiva della dirigenza, anche
per l’adozione di atti esecutivi di direttive politiche, ovviamente esse stesse
fonti dell’illecito erariale.
Simile modo di considerare il
ruolo e la funzione della dirigenza pubblica non può non essere fonte di
corruzione.
Il rapporto dirigenza-politica
viene impostato su un chiarissimo scambio: la politica attribuisce gli
incarichi dirigenziali a persone “di fiducia”, una fiducia evidentemente
consistente non tanto nella capacità tecnica, bensì nella propensione a firmare
qualsiasi cosa e fare da scudo; gli incarichi dirigenziali assegnati, oltre ad
essere retribuiti come la contrattazione collettiva prevede, sono arricchiti da
altri benefit: una commistione di potere gestionale e politico, derivante dal
diverso ruolo che il dirigente “braccio destro, che firma senza paura dell’avviso
di garanzia” assume nell’ambito della compagine politica protetta e coperta,
che ingenera una forza d’urto del dirigente politicizzato molto forte nell’organizzazione,
tale da rompere la barriera che dovrebbe separare (ai sensi degli articoli 97 e
98 della Costituzione, oltre che degli articoli 4 e 5 del d.lgs 165/2001) la
politica dalla gestione.
Con questo tipo di dirigenza, la
politica diventa gestione, per un’immedesimazione solo di fatto, ma non giuridica.
La dirigenza di questa natura,
tuttavia, consapevole che il proprio ruolo è anche quello di dover “mettere nel
conto” avvisi di garanzia o responsabilità erariali, viene necessariamente
sviata dal proprio compito: attuare gli indirizzi politici, ma applicando
tecniche gestionali rispettose di due principi che dovrebbero essere
ineludibili:
1) la
legalità;
2) il
perseguimento imparziale dell’interesse pubblico.
Al contrario, la dirigenza
dipinta da De Luca e dalla riforma Madia, ma già così interpretabile da letture
di comodo della normativa vigente, finisce per essere portata a violare le
leggi o rendersi indifferente al problema della legalità, mettendo appunto nel
conto gli avvisi di garanzia come cosa normale; il che produce, evidentemente
la possibilità molto alta che l’azione della dirigenza non sia per nulla
rivolta all’interesse pubblico, ma di parte. Quale? Quella politica,
ovviamente, che assegna grado e, soprattutto, “potere”, sulla base del rapporto
di fiducia. Ma anche un interesse di “parte” coincidente col proprio interesse
personale. Chi mette nel conto e dà per scontato avvisi di garanzia è portato a
considerare le norme come un peso inutile e a ritenere che il rischio da
affrontare oltre che andare a beneficio di chi lo ha incaricato come dirigente,
possa e debba anche remunerare, al di là dello stipendio, la propria personale
posizione.
Il meccanismo innescato da
questo modo di intendere la dirigenza è oggettivamente impostato alla violazione
diffusissima della legalità ed è la causa prima del pericolo di corruzione
nella PA, ma totalmente ignorata e non presa in considerazione proprio dalla
normativa anticorruzione.
Fiduciarietà. Chi scrive ha spesso commentato fatti di mala amministrazione
(purtroppo non di rado sboccati in inchieste penali), attribuendo non di rado
alla “fiduciarietà” degli incarichi una delle cause principali, con specifico
riferimento agli incarichi “a contratto” a dirigenti esterni.
E’, dunque, corretto e facile
obiettare che nel caso di Marra si è in presenza di un dirigente di ruolo e non
assunto per cooptazione, a dimostrazione che la mala amministrazione non sta
solo nelle “formule” (dirigente di ruolo, piuttosto che dirigente a tempo
determinato cooptato fiduciariamente), ma anche nel comportamento delle persone.
Pertanto, anche un dirigente di ruolo, cioè assunto per concorso e non
direttamente chiamato dalla politica, può ovviamente commettere reati come
quello di corruzione.
L’obiezione, però, sarebbe
corretta solo in parte. Non è contestabile laddove osserva che l’animo umano è
complesso e variabile a seconda della persona, sicchè ovviamente è impossibile
pensare che nessun dirigente “di ruolo”, in quanto tale, non abbia commesso o
non commetterà mai reati, alla stregua di un cavaliere senza macchia e senza
paura.
Al contrario, sul piano
fattuale, l’obiezione non coglie nel segno. Infatti, occorre conoscere a fondo
il percorso di carriera di Marra, per farsi un’idea un po’ più chiara.
E’ assolutamente vero che il
Marra è divenuto dirigente pubblico non attraverso il meccanismo della chiamata
diretta politica previsto dall’articolo 19, comma 6, del d.lgs 165/2001 e, per
gli enti locali, dal “cugino” articolo 110, comma 1, bensì per concorso
pubblico.
Ma, tracciamo il percorso di
carriera. Il Marra ha iniziato a lavorare come finanziere. Ecco quanto risulta
dal curriculum pubblicato sul portale del comune di Roma (http://www.comune.roma.it/resources/cms/documents/Marra_Raffaele_11.11.2016.pdf)
Amministrazione/Ente
|
Data
inizio
|
Data
fine
|
Incarico
ricoperto
|
Roma
Capitale già Comune di Roma
|
07
settembre 2016
|
In corso
|
Direttore
del Dipartimento Organizzazione e Risorse Umane e
della correlata U.O.
͞Organizzazione͟ (rif. Ord. Sindacale n. 63 del 7 settembre 2016 e n. 95 del 9 novembre 2016) |
Roma
Capitale già Comune di Roma
|
28
giugno 2016
|
06
settembre 2016
|
Vice
Capo Gabinetto (rif. Ord. Sindacale n. 12 del 07
luglio 2016);
Vice Capo Gabinetto con funzioni vicarie (rif. Ord. Sindacale n. 8 del 28 giugno 2016) |
Roma
Capitale già Comune di Roma
|
Febbraio 2014
*Periodo di aspettativa per Dottorato di ricerca |
24 giugno 2016
*Periodo di aspettativa per Dottorato di ricerca |
Direttore
della Direzione Reperimento –
Trattamento Giuridico Contrattuale Disciplina U.O. Relazioni Sindacali – Contratto decentrato e Sistemi Premianti |
Roma
Capitale già Comune di Roma
|
Novembre
2013
|
Febbraio
2014
|
Direttore
dell’Ufficio di “Copo denominato
͞Definizione del modello e degli Strumenti di cooperazione con le associazioni dei consumatori͟ |
Roma
Capitale già Comune di Roma
|
09
maggio 2013
|
31
ottobre 2013
|
Direttore
del Dipartimento Partecipazioni e Controllo Gruppo
Roma Capitale – Sviluppo Economico Locale
|
Regione
Lazio
|
28
giugno 2011
|
09
aprile 2013
|
Direttore
della Direzione Regionale Organizzazione,
Personale, Demanio e Patrimonio
|
Comune
di Roma
|
08
aprile 2011
|
27
giugno 2011
|
Direttore
della Direzione ͞Coordinamento
funzioni di emergenza di ordine e sicurezza urbana e della Correlata U.O. ͞Coordinamento funzioni
di emergenza͟ del Gabinetto del Sindaco (rif. Ord. Sindacale n. 96 del 14
aprile 2011)
|
Rai
Radio Televisione Italiana
|
03
maggio 2010
|
06
aprile 2011
|
Consulente
esperto in materia economica e finanziaria del
Direttore Generale della RAI Radio Televisione
Italiana
|
Comune
di Roma
|
28
giugno 2008
|
02
maggio 2010
|
Direttore
ad Interim del Dipartimento Patrimonio e della Casa (rif.
Ord. Sindacale n. 214 del 26 ottobre 2009; Direttore
dell’Ufficio Extradipartimentale Politiche Abitative e delle UU.OO Correlate ͞AssegnazioNi͟ e ͞Gestione
|
eventi
emergenziali͟ ;rif. Ord. Sindacali n. 125 del 25
giugno 2008 e n. 205 del 23 ottobre 2009)
|
|||
UNIRE
– Unione Italiana Incremento Razze Equine
|
06
giugno 2006
|
20
giugni 2008
|
Direttore
Nazionale Area Galoppo
|
C.R.A.
– Consiglio per la Ricerca e Sperimentazione in
Agricoltura
|
20
aprile 2006
|
05
giugno 2006
|
Direttore
Servizio Affari Generali
|
Guardia
di Finanza
|
Gennaio
2001
|
Aprile
2006
|
Comandante
di aeromobile e del relativo equipaggio
|
Guardia
di Finanza
|
10
luglio 1997
|
31
luglio 1999
|
Comandante
tenenza Fiumicino Aeroporto
|
La carriera dirigenziale si apre
nell’aprile 2006 con l’incarico di Direttore Servizio Affari Generali presso il
Cra Consiglio per la ricerca e la sperimentazione in agricoltura dal 20/04/2006.
Da quel momento, è una continua
modifica di incarichi, vocazioni e competenze: dalla cura delle razze equine,
alle politiche abitative, dagli interventi emergenziali, alla consulenza in Rai
in materia economica e finanziaria, dall’ emergenza di ordine e sicurezza
pubblica e di sicurezza urbana", al gabinetto del sindaco, dall’organizzazione
del personale alle partecipate, dalla tutela dei consumatori al trattamento
giuridico del personale, dalla funzione vicaria di capo di gabinetto a capo del
personale.
Proprio il modello ipotizzato
dalla riforma Madia: il dirigente che può passare indifferentemente da enti
piccolissimi, come il Cra, ad un Ministero, ad un comune, ad una regione, alla
Rai, di nuovo al comune.
Se il tutto funzionasse in
maniera trasparente, non ci sarebbe nulla da ridire. Laddove la mobilità dei
dirigenti (ne parliamo qui)
scaturisse da un sistema pubblico che consenta ai dirigenti di partecipare agli
incarichi liberatisi e “messi in palio”, sulla base di un sistema di ranking vincolante per i politici, si
avrebbe quel “mercato” della dirigenza mirante alla valorizzazione del merito e
delle capacità che la riforma Madia ha lasciato intendere essere il proprio
obiettivo, ma solo come slogan.
Nella realtà, la riforma Madia
altro non era se non la copertura normativa a prassi in tutto simili a quelle
utilizzate dai vari soggetti che hanno cooptato il Marra, una volta divenuto
dirigente di ruolo: da Alemanno come Ministro e sindaco, a Masi come direttore
generale della Rai, alla Polverini come presidente della regione, alla Raggi
quando lo ha voluto nel suo gabinetto di sindaco. Prassi nelle quali la “scelta”
del dirigente, anche di ruolo, è totalmente legata al “rapporto fiduciario”,
esattamente il presupposto al pericolo della dirigenza che piace alla politica
esaminato nel paragrafo precedente di questo studio.
Dunque, nel caso di specie
occorre essere molto attenti. Il Marra non era affatto “uno dei 23.000
dipendenti” del comune di Roma, come ha imprudentemente affermato Virginia
Raggi nella conferenza stampa seguita all’arresto del dirigente. Il Marra è
evidentemente stato chiamato ripetutamente dai politici in virtù di chiari ed
evidenti legami politici, più che per il “merito”, mediante il meccanismo della
“fiducia”, che con la valutazione, la professionalità ed il merito va in
conflitto totale ed assoluto.
Il sindaco Virginia Raggi, nella
medesima conferenza stampa, ha affermato di aver sbagliato a riporre “fiducia”
in Marra.
L’errore è molto più grave di
quello che si pensi. Dimostra quanto sia devastante pensare che un sindaco
possa organizzare la preposizione dei dirigenti alla direzione delle strutture
su base fiduciaria, come se si trattasse di procuratori o delegati della
persona fisica del sindaco in carica, e non di funzionari che da un sindaco
debbono ricevere solo indicazioni operative precise sulla base di un piano
politico, garantendogli corretta applicazione di esse sul piano tecnico,
soggetta a rigorosa valutazione degli esiti.
La personalizzazione della
politica e l’idea che un sindaco possa o debba creare uno staff a misura della
sua persona e non della carica, è uno degli effetti devastanti della riforma
Bassanini. Che sta deflagrando maggiormente a quasi 20 anni dalla sciagurata
introduzione di tale riforma per la semplice ragione che quando entrò in
vigore, nel 1997, ancora le scorie di Tangentopoli erano radioattive e la
politica, pur non condividendo, aveva provato a distogliersi dalla gestione,
accettando di cattivo grado la separazione con una dirigenza tecnica. Tuttavia,
la riforma Bassanini ha consentito la creazione di figure pseudo dirigenziali/pseudopolitiche,
come i direttori generali o gli staff oggi regolati dall’articolo 90 del d.lgs
267/2000, facendo intravedere alla politica la possibilità di continuare ad
ingerirsi nella gestione mediante politici aggiuntivi, non qualificati come
organi politici, ma dirigenziali, come nel caso appunto dei direttori generali
o dei capi di gabinetto.
Il passare del tempo e la
derubricazione di Tangentopoli a solo brutto ricordo ha fatto il resto: la
politica si è convinta che la gestione diretta è comunque possibile, attraverso
non tanto l’amministrazione di risorse e con l’adozione di provvedimenti,
quanto piuttosto, anche, mediante la gestione degli “uomini”. Incaricare come
capo di gabinetto, direttore generale, dirigente, qualcuno “di fiducia”, che
garantisca il modello descritto prima, è essenziale per una politica che miri
alla propria autoconservazione.
Da qui la caccia al maggior
allargamento possibile del criterio della “fiducia” come unico elemento alla
base dell’assegnazione degli incarichi dirigenziali, che sarebbe stato portato
al parossismo dalla riforma Madia, talmente refrattaria ad una dirigenza
attenta non solo all’attuazione del programma politico, ma anche alla corretta
applicazione della legalità, da prevedere l’abolizione dei segretari comunali e
provinciali.
Dunque, Virginia Raggi nel dare “fiducia”
a Marra ha sbagliato due volte: sia perché ha riposto il sentimento personale
della fiducia nella persona probabilmente non indicata (e se si trattasse di
semplici rapporti tra persone, sarebbe un problema irrilevante); sia,
soprattutto, perché ha utilizzato il criterio fiduciario come sistema di scelta
della “sua” dirigenza. Ci si riferisce, in particolare, all’assegnazione al
Marra dell’incarico di vice capo di gabinetto, incarico di natura totalmente
fiduciaria. Poi, per la contrarietà di M5S a tale assegnazione, la Raggi ha
distolto il Marra dall’ufficio di gabinetto, ed il Marra è approdato, da quel
che si capisce a seguito di una procedura interna di interpello, al ruolo di
capo del personale; ma, in questo ruolo, da quanto appare dalle notizie di
stampa, il Marra avrebbe comunque continuato ad esercitare prerogative e
funzioni ben al di sopra ed al di là di quelle proprie di un dirigente come gli
altri.
La stampa sta enfatizzando il
ruolo del “capo del personale”, lasciando credere chissà quali poteri e forze
siano in capo a tale figura. Non è così: il capo del personale svolge solo una
funzione di staff alle strutture amministrative. La gestione del rapporto di
lavoro con i dipendenti spetta individualmente a ciascuno delle centinaia dei
dirigenti del comune. Dunque, il capo del personale non è affatto “al vertice
dei 23.000 dipendenti del comune”, come riferisce una stampa generalista sciaguratamente
disinformata e disinformante. E’ preposto ad un’unità che ha compiti, si
ribadisce, trasversali: curare i procedimenti disciplinari, i concorsi, le
paghe, la contrattazione collettiva, coordinare, certo, le funzioni datoriali,
ma non è per nulla un vertice gerarchico degli altri dipendenti.
Il ruolo del Marra, anche come
capo del personale, è rimasto evidentemente forte non in quanto derivante dalla
carica, bensì quale componente pseudopolitico del “raggio magico” e, come tale,
presuntivamente meritevole di quella “fiducia” della Raggi rivelatasi poi non
ben riposta.
Spoil system. Per tutto quanto fin qui scritto, si deve allora
concludere che sbagli drammaticamente il direttore de Il Fatto Quotidiano,
Marco Travaglio, quando nell’editoriale del 17 dicembre intitolato “Resta solo il napalm” scrive: “non solo la Raggi e i5Stelle,ma tutti i politici
onesti degli altri partiti dovrebbero trarre dagli ultimi fatti di Milano e
Roma una lezione terribile, ma ineludibile: le classi dirigenti sono ormai
talmente inquinate dal malaffare endemico che non bastano neppure le
precauzioni più stringenti: tipo quelle adottate dalla sindaca romana, che
pretende dai nominandi il certificato penale e quello di nessuna indagine a
carico. Come insegnano i casi Sala, Marra e Muraro, il tentativo di riciclare
pezzi del vecchio establishment al servizio della "nuova politica" è
troppo rischioso. L'unica soluzione è
allevare nuove classi dirigenti per un radicale spoils system che faccia tabula
rasa del passato. E una sfida ciclopica, che richiederà anni. Ma ogni
giorno che passerà in frasi fatte e inutili ripicche sarà un giorno sprecato”.
La palingenesi (nuova rinascita)
della dirigenza invocata dal direttore de Il Fatto, se attuata con lo spoil
system evocato, porterebbe al risultato esattamente opposto.
Travaglio non si è reso conto
che ha abbracciato, a sua insaputa, esattamente lo stesso pensiero retrostante
alla riforma Madia: estendere ancor di più lo spoil system deleterio introdotto
dalle riforme Bassanini, e favorire una dirigenza che, purtroppo, come modello
avrebbe quello delineato da De Luca. Dirigenti che firmano di tutto, non
preoccupandosi della violazione delle norme, pur di coprire la politica e
destinati a mettere nel conto come cosa normale “l’avviso di garanzia”.
Esattamente al contrario di
quanto afferma Travaglio (sul tema, si veda anche qui),
la soluzione urgente (che non sarà mai adottata) è quella di estirpare
definitivamente lo spoil system e basare il delicato compito dell’assegnazione
degli incarichi dirigenziali a poche ma chiarissime regole (alcune delle quali
descritte dal Consiglio di stato nel parere sulla riforma Madia, ovviamente
totalmente ignorate dagli estensori del testo finale):
1) estraneità
totale ed assoluta del dirigente pubblico allo schieramento politico dell’organo
(ministro, presidente di regione, sindaco, direttore di usl e qualsiasi altro)
che lo incarica; occorre garantire la distanza più ampia possibile tra politica
e dirigenza, per attuare l’articolo 98 della Costituzione che impone ai
funzionari di essere al servizio esclusivo della Nazione. Non perché la
dirigenza debba essere considerata un “potere indipendente”, come lo è la
magistratura, visto che la dirigenza deve essere “servente”, funzionale all’attuazione
dell’indirizzo politico; ma per evitare che la dirigenza da “servente” si
trasformi in “servile”, un insieme di “teste di legno” col solo compito di
coprire illegalità accollandosi responsabilità anche penali, sì da essere
indotte a compensare il rischio con entrate ulteriori rispetto a quelle dello
stipendio normale, indulgendo alla corruzione;
2) assegnare
gli incarichi dirigenziali nel banalissimo rispetto di disposizioni già
esistenti:
a. l’articolo
19, commi 1 e 2, del d.lgs 165/2001, che impongono di attribuire gli incarichi
mai per “fiducia”, ma sulla base della valutazione delle competenze e dei
risultati ottenuti;
b. l’articolo
23, commi 1 e 2, del d.lgs 165/2001, che già oggi, senza alcuna necessità di
riforme come quella impostata dal ministro Madia, consente la mobilità
(volontaria), imponendo la pubblicazione degli incarichi vacanti su un sistema
informativo pubblico nazionale, per consentire a chi voglia di competere verso
carriere più elevate e impegnative;
3) istituire
un sistema di valutazione serio, omogeneo e semplice, capace di creare un ranking della dirigenza, basato su
indicatori estremamente chiari, così da vincolare la scelta della politica, nel
momento di assegnare gli incarichi;
4) limitare
lo spazio di “fiduciarietà” solo a quelle figure che davvero possano risultare
indispensabili per la funzione politica, nell’ambito di uno staff: il
consigliere politico (ma solo per i ministeri), il porta voce, il capo ufficio
stampa, il capo della segreteria particolare ed il capo di gabinetto, a patto
che risulti chiarissimo ed inderogabile che queste due ultime figure non
possano in alcun modo ingerirsi né nella gestione concreta, né, nemmeno, nel
controllo di legalità, operando solo a beneficio del politico, ma non della
struttura (sull’inutilità, comunque, totale ed assoluta del capo di gabinetto
nei comuni, leggi qui
e qui).
Controlli: preventivi, di legittimità ed esterni. Nell’elenco
riportato sopra manca un quinto punto: la reintroduzione dei controlli,
preventivi, di legittimità ed esterni (anche su questo punto, chi scrive spesso
si è speso, si veda, ad esempio, qui).
Restiamo fermi al “caso Marra”.
E’ noto che Raffaele Marra, dopo aver ricevuto l’incarico dalla Raggi quale “capo
del personale” ha messo mano nel provvedimento che ha incaricato suo fratello
Renato, già vicecomandante dei vigili, al vertice della neonata direzione
Turismo del Comune con annesso aumento di stipendio (di 20.000 euro).
Della questione è stata
interessata l’Anac, a seguito anche di esposti dei sindacati.
Ora, cosa dispongono le norme in
merito a simile situazione? Guardiamo la previsione contenuta nell’articolo 6,
comma 2, del Dpr 62/2013, il “codice di comportamento” dei dipendenti pubblici,
una delle tantissime norme dell’inefficacissimo apparato anticorruzione creato
inutilmente dalla legge 190/2012: “Il
dipendente si astiene dal prendere
decisioni o svolgere attività inerenti alle sue mansioni in situazioni di conflitto, anche
potenziale, di interessi con interessi personali, del coniuge, di
conviventi, di parenti, di affini
entro il secondo grado. Il conflitto può riguardare interessi di qualsiasi
natura, anche non patrimoniali, come quelli derivanti dall’intento di voler
assecondare pressioni politiche, sindacali o dei superiori gerarchici”.
Interessante, no? L’astensione è
obbligatoria non solo allo scopo di evitare che chi sia in conflitto di
interessi adotti una decisione potenzialmente in conflitto per propri parenti,
ma anche perché eviti totalmente di svolgere qualsiasi attività connessa a tale
decisione.
Ora: occorre che vi sia un pronunciamento
dell’Anac, che per altro non è un organo di controllo, effettuato mesi dopo l’adozione
del provvedimento, per essere certi che Raffaele Marra ha svolto, nell’ambito
del procedimento ivi connesso, un’attività in conflitto di interesse? La cosa
non è chiarissima di per sé? E, se non fosse stata chiara, non sarebbe stato
opportuno disporre di uno strumento/organo di controllo, terzo, che verificasse
preventivamente il provvedimento, così da scongiurare il pericolo che lo si
adottasse in presenza del clamoroso conflitto di interessi?
La devastante decisione delle
riforme Bassanini di abolire i controlli è, ancora una volta, all’origine di situazioni paradossali come questa:
1. una
disposizione anticorruzione (completata sicuramente, nel comune di Roma, da un
piano triennale anticorruzione, da un codice etico comunale e da disposizioni
di servizio anche finalizzate ad evidenziare le responsabilità connesse) vieta
di partecipare a procedimenti in conflitto di interesse con propri parenti;
2. un
dirigente del comune di Roma, in evidente condizione di preminenza rispetto a
tutti gli altri 23.000 dipendenti per il rapporto politico-fiduciario col
sindaco, vìola la disposizione e partecipa attivamente al provvedimento che
beneficia il proprio fratello;
3. non
esiste, a causa delle riforme Bassanini ed, evidentemente, anche perché non si
sono utilizzate le limitate possibilità che, pure, la normativa anticorruzione
consentirebbe per reintrodurre controlli preventivi, un sistema di controllo
preventivo sugli atti;
4. il
fratello di Marra, quindi, accede comunque al beneficio;
5. non
sapendo come fare, ci si rivolge ad un soggetto, l’Anac, che non ha poteri di
controllo, a violazione, comunque, già realizzata.
Ci chiediamo: è questo un
razionale sistema di gestire le procedure amministrative?
Spessissimo si paragona, a
sproposito, la PA ad un’azienda. Accettiamo per un attimo il paragone con un’industria
manifatturiera. Esiste nel mondo una manifattura che prima di introdurre
i propri prodotti nei canali di vendita non faccia i controlli?
Domanda retorica. Ovviamente,
tutte le aziende controllano, preventivamente, i propri prodotti.
Non si riesce, allora, a capire perché
circa 20 anni fa si è deciso di eliminare i controlli sui prodotti delle PA, i
loro provvedimenti.
Non si obietti:
1) che
i controlli in precedenza non funzionavano, tanto è vero che Tangentopoli c’è
stata anche in vigenza dei controlli preventivi;
2) che,
comunque, sono stati eliminati i controlli preventivi esterni di legittimità,
troppo burocratici ed incidenti in modo negativo sui tempi, ma sono stati
introdotti e regolati:
a. i
controlli interni;
b. i
controlli “collaborativi della Corte dei conti”.
La prima obiezione non è in
grado di provare che Tangentopoli avrebbe potuto avere anche connotazioni più
gravi, se i controlli fossero mancati anche negli anni ’80 inizi ’90.
La seconda obiezione si presta
troppo facilmente ad una serie di critiche:
1. i
controlli interni sono svolti da soggetti incaricati dal controllato (si veda
il caso assurdo e clamoroso del responsabile della prevenzione e corruzione,
nominato dagli organi di governo, su cui dovrebbe vigilare!); ci vuol poco a
comprendere il perché della loro totale inefficacia;
2. il
sistema dei “controlli collaborativi” o della regolazione ad autorità come Aran
o Anac, non serve assolutamente a nulla, perché si tratta di interventi
interpretativi, spessissimo fonte di grida manzoniane e confusione esasperanti;
oppure di azioni di verifica tardive, riguardanti atti già adottati, a danno
realizzato.
Non c’è nulla da fare: poiché l’amministrazione
pubblica agisce in monopolio e non in concorrenza, non vi potrà essere mai un
controllo indiretto sulla qualità della sua azione da parte di “clienti”. I
cittadini possono, è vero, votare e giudicare l’operato. Ma, sul punto è bene
non equivocare:
1. sono
tantissime, decine di migliaia le amministrazioni di natura non elettiva, sulle
quali, dunque, i cittadini non hanno modo alcuno di pronunciarsi (Inps, Inail,
Usl, autorità portuali, aeroporti, consorzi, parchi, direzioni dei ministeri,
università, camere di commercio, e chi più ne ha più ne metta);
2. spesso,
la corruzione non è nota: il cittadino, quando vota, moltissime volte non può
essere al corrente di casi di mala amministrazione;
3. il
voto del cittadino è soprattutto ideologico: non tiene mai realmente conto dei “risultati”
amministrativi, valutabili con cognizione di causa solo sulla base di
approfondimenti tecnici non comuni, ma vota in base all’onda, a convinzioni
profonde se non a senso di appartenenza, oppure senso di preconcetta
disapprovazione, quando non in relazione ad un semplicistico atteggiamento di
vero e proprio “tifo”.
Allora, per verificare in corso
d’opera che il “prodotto” della PA sia efficace, efficiente e, quindi, prima
ancora legittimo (visto che un atto illegittimo non può, per sua natura, essere
né efficace né efficiente), occorre istituire un sistema che rimedi all’assenza
di un controllo “di mercato”.
Ci vogliono controlli,
preventivi, esterni, di legittimità. Autorità terze, debbono scandagliare i
provvedimenti prima ancora che esplichino i loro effetti. Per sapere quali
provvedimenti esaminare, basta riferirsi a quelli considerati di per sé a rischio
di corruzione dall’articolo 1, comma 16, della legge 190/2012: provvedimenti
concessori, appalti, procedure concorsuali e di gestione del personale,
assegnazione di contributi.
Occorre organizzare al più
presto un sistema di controlli, magari coordinato e funzionalmente rispondente
a Corte dei conti o Anac.
In assenza di ciò, continueranno
a verificarsi casi come quello di Roma. Attenzione: i comuni in Italia sono
8.100 e oltre: qualcuno crede davvero che la situazione di Roma sia solo
romana? Purtroppo, la verità è che i fatti di Roma o analoghi sono la regola,
diffusissimi ovunque, proprio a causa delle scelte radicali e sbagliatissime di
aver eliminato i controlli e di aver introdotto lo spoil system. Per un “caso
Marra” che emerge, ve ne sono 1.000 altri rimasti in ombra.
Inutilità delle norme
anticorruzione. L’arresto di Raffaele Marra a Roma è l’ennesima
dimostrazione che la normativa anticorruzione introdotta dal Governo Monti con
la legge 190/2012 ha prodotto di sicuro un mare di burocrazia e di carte,
ingigantendo il ruolo dell’Anac, ma non ha particolare utilità nella
prevenzione dei reati.
L’Anac può far poco, pochissimo, come anche la vicenda del sindaco Sala
conferma, evidenziando la scarsa efficacia del famoso “metodo Expo”.
L’autorità presieduta da Cantone, in effetti, è solo amministrativa e non
esercita alcun potere giudiziario: non può fare indagini, non può intercettare.
Oltre non può andare. E si vede.
Marra è stato arrestato proprio per sospetta corruzione nella vendita
delle case Enasarco nel 2013. La normativa anticorruzione all’epoca era nata da
poco, certo: ma, come si nota non è servita ad evitare l’evento. Né ha aiutato
il sindaco Virginia Raggi a meglio valutare l’opportunità di assegnare al Marra
importanti incarichi dirigenziali nel comune di Roma la messe di dichiarazioni
e documenti che le norme attuative della legge anticorruzione (il d.lgs 33/2013
sulla trasparenza, il d.lgs 39/2013 sulle inconferibilità ed incompatibilità
degli incarichi, il Dpr 62/2013 contenente il “codice etico” della PA), impongono:
un mare di carte del tutto inidonee ad impedire che i reati vengano commessi ma
anche solo scoperti o immaginati.
Fermo rimanendo che la normativa anticorruzione è doverosa e per altro
richiesta da accordi internazionali, gli accadimenti dovrebbero confermare che
i tanti, troppi, adempimenti formali e burocratici richiesti dalla normativa
(piani triennali nazionali e per ciascuna singola PA, aggiornamenti annuali,
autodichiarazioni, pubblicazioni, codici etici, protocolli di legalità) servono
solo ad ingolfare l’attività amministrativa, ma non costituiscono una barriera
efficace all’illegalità.
ottima sintesi del problema e ottime proposte. Purtroppo vale il detto che non c'è più sordo di chi non vuol sentire... e i politici hanno notoriamente qualche problema con l'udito!
RispondiEliminaFrancesco G.
Così come per qualsiasi azione criminale, i colpevoli sono da ricercare anche in quei giornalisti fiancheggiatori, che per vantaggi indiretti, anche solo quello di essere invitati ben retribuiti alle comparsate Rai, scrivono il falso sapendo di mentire e capovolgono i fatti. Purtroppo essere fedeli alla Repubblica e non al politico di turno è diventato un disvalore agli occhi di certa politica.
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