Non sappiamo se il nouvo-vecchio
Governo intenderà tornare alla carica con la riforma della dirigenza pubblica.
Come è noto, a seguito della
clamorosa sentenza 251/2016 della Corte costituzionale, la delega disposta dall’articolo
11 della legge 124/2015 è scaduta: per riprovarci, occorrerebbe che un
Parlamento molto indebolito e già lanciato verso una lunghissima campagna
elettorale e, oltre tutto, impegnato nella difficile impresa della riforma
della legge elettorale, dovrebbe approvare una nuova legge delega. Certo, non
impossibile, ma abbastanza improbabile, specie se il disegno dell’ex premier di
andare a votare entro giugno verrà soddisfatto.
Probabilmente, quando il premier
Gentiloni nel suo programma si è riferito alla necessità di dare continuità
alla riforma della PA, si riferiva agli interventi necessari per emendare i
decreti legislativi sui “furbetti del cartellino”, dirigenza sanitaria e
partecipate dal vizio di legittimità della mancata intesa con le regioni e al
ben più oneroso tentativo di attuare la delega dell’articolo 17 della legge 124/2015,
cioè riformare a fondo i d.lgs 165/2001 e 150/2009, revisionando in modo
radicale i contenuti della riforma-Brunetta e, conseguentemente, provare a
lanciare la volata per il rinnovo dei contratti collettivi.
Finita, comunque, la
concitazione del dopo sentenza 251/2016 e, soprattutto, del dopo referendum,
una considerazione retrospettiva si impone. Uno degli intenti dichiarati della
riforma era favorire la mobilità dei dirigenti pubblici, allo scopo di
consentire la valorizzazione del loro merito e la possibilità di aspirare ad
incarichi migliorativi, innescando un virtuoso moto concorrenziale.
Si tratta di fini ed obiettivi
con i quali è impossibile non concordare. Infatti, la riforma Madia, nelle sue
linee generali e nei “titoli” di sintesi dei contenuti ha anche ricevuto
apprezzamenti diffusi. Il diavolo, come si sta, sta, però, nei dettagli e il
merito della riforma trasfuso nel testo del decreto legislativo attuativo
fermato dalla Corte costituzionale, ha prodotto un risultato profondamente
diverso rispetto agli intenti enunciati.
Dando, comunque, per buona l’opportunità,
se non la necessità, di accrescere il livello di competenza dei dirigenti
pubblici attraverso la maggiore concorrenzialità tra loro, occorre allora
sottolineare che a questo scopo non v’era alcuna necessità del palco costruito
dalla riforma Madia.
Infatti, nell’ordinamento
vigente esiste già, da quasi 13 anni, una norma che ha il preciso scopo di
innescare il meccanismo di mobilità virtuosa: è l’articolo 23, comma 2, del
d.lgs 165/2001: “È assicurata la mobilità
dei dirigenti, nei limiti dei posti disponibili, in base all’articolo 30 del
presente decreto. I contratti o accordi collettivi nazionali disciplinano,
secondo il criterio della continuità dei rapporti e privilegiando la libera scelta
del dirigente, gli effetti connessi ai trasferimenti e alla mobilità in
generale in ordine al mantenimento del rapporto assicurativo con l'ente di
previdenza, al trattamento di fine rapporto e allo stato giuridico legato
all'anzianità di servizio e al fondo di previdenza complementare. La Presidenza
del Consiglio dei ministri - Dipartimento della funzione pubblica cura una
banca dati informatica contenente i dati relativi ai ruoli delle
amministrazioni dello Stato”.
Come sempre, si sconta ormai da
troppo tempo un vizio operativo molto grave: i governi sempre più spesso
fraintendono l’esercizio del potere esecutivo e lo confondono con quello
legislativo. Per questa ragione, sono spinti dalla malattia della “riformite”
(come l’ha definita il giornalista Corrado Giustiniani), che induce a ritenere
necessario effettuare le riforme con nuove leggi, piuttosto che attuare le
norme vigenti.
L’articolo 23, comma 2, del
d.lgs 165/2001, chiaramente rivolto a favorire la mobilità che, pure, è stata
qualificata come obiettivo primario della riforma Madia, è rimasto per anni del
tutto inattuato.
E la responsabilità primaria per
la mancata attuazione di una norma che da anni avrebbe potuto introdurre quegli
elementi di concorrenzialità richiesti da tutti, sta esattamente nel soggetto
chiamato in prima battuta alla responsabilità di attuarlo: si tratta della
Presidenza del Consiglio dei ministri – Dipartimento della funzione pubblica,
oggi Ministero delle riforme e della semplificazione, sito a Palazzo Vidoni e
retto da Marianna Madia.
Palazzo Vidoni, per favorire la
mobilità, avrebbe dovuto produrre la “banca
dati informatica contenente i dati relativi ai ruoli delle amministrazioni
dello Stato” prevista dall’articolo 23, comma 2, citato, strumento
necessario per innescare il processo della mobilità.
Infatti, soltanto disponendo di
un applicativo contenente i posti dirigenziali disponibili, quelli occupati e
quelli liberi messi a disposizione della mobilità, sarebbe possibile consentire
la mobilità “virtuosa”.
Che non è affatto quella
immaginata dal testo del decreto attuativo della riforma Madia. In quel testo
si era costruito un processo di mobilità forzosa, connessa alla modifica di
fatto del rapporto di lavoro dei dirigenti di ruolo in un contratto di lavoro
intermittente a libera recedibilità senza causa. Il tutto legato alla durata
necessariamente a tempo determinato degli incarichi, cui sarebbe necessariamente
conseguita la collocazione del dirigente “scaduto” (anche a prescindere da una
valutazione negativa) in disponibilità e l’obbligo di partecipare a “interpelli”,
cioè procedure pubbliche di individuazione dei dirigenti da incaricare.
Si sarebbe trattato di una
mobilità forzosa, perché per il dirigente “scaduto” sarebbe stato l’appiglio
per non vedersi risolto il rapporto di lavoro. La conferma della natura
sostanzialmente coatta della mobilità prevista dalla riforma Madia stava nella
previsione secondo la quale se entro 24 mesi dalla collocazione in
disponibilità (non derivante da valutazione negativa) il dirigente non fosse
stato incaricato da qualche amministrazione, vi avrebbe provveduto “d’ufficio”
proprio Palazzo Vidoni, per altro senza il limite dei 50 chilometri previsto
dall’articolo 30 del d.lgs 165/2001 e, comunque, solo a condizione che vi fosse
qualche posto disponibile compatibile con l’esperienza professionale dell’interessato.
I redattori del testo del
decreto legislativo fortunatamente non entrato in vigore avevano insistito
ripetutamente che quel meccanismo creava un “mercato” dei dirigenti, grazie
appunto alla mobilità.
Ma, come dovrebbe essere chiaro
e noto anche per chi abbia fatto studi solo basici di economia, un mercato è
davvero tale solo quando è spontaneo. Se vi sono forzature, come quelle
immaginate dal decreto, non si ha un mercato, ma meccanismi di coazione, che
finiscono per creare disfunzioni molto chiare.
L’articolo 23, comma 2, del
d.lgs 165/2001, al contrario, è totalmente ispirato proprio ai principi di un
meccanismo di mercato vero:
a)
la disponibilità di un incarico dirigenziale da mettere
“in palio”, derivante non da meccanismi forzosi, bensì da ordinarie vicende del
rapporto datore-lavoratore: cessazione del rapporto di lavoro, appunto
mobilità, risoluzione per responsabilità dirigenziale;
b)
l’esistenza di un sistema informativo che in tempo
reale dia informazione ai dirigenti dei posti disponibili;
c)
disciplina contrattuale della procedura;
d)
salvaguardia, soprattutto, il principio della libera
scelta del dirigente.
Insomma, un vero mercato, nel quale
spontaneamente il datore di lavoro evidenzia l’esigenza di mettere a
disposizione un incarico resosi privo di titolare e, altrettanto
spontaneamente, i dirigenti rispondono, chiedendo la mobilità e mettendo l’amministrazione
nelle condizioni di valutare i curriculum e l’esperienza così da gestire il
procedimento quale mobilità “volontaria” ai sensi dell’articolo 30 del d.lgs
165/2001, non a caso espressamente richiamato dalla norma in esame.
Se fin qui un sistema di
mobilità trasversale o “intercompartimentale” della dirigenza pubblica non ha
funzionato, dunque, non è per la mancanza di una norma che lo prevedesse, ma
per l’inadempimento da parte di Palazzo Vidoni ad un obbligo di legge, al quale
si voleva rimediare mediante una riforma pessima, i cui effetti finali lungi dal
creare un mercato posto a valorizzare la dirigenza, sarebbe stato una
precarizzazione estrema dei dirigenti e la loro sottoposizione totale all’arbitrio
della politica.
Si può certo discutere se sia
opportuno tornare sull’idea del ruolo unico. Il comma 2 dell’articolo 23 del
d.lgs 165/2001 si salda, attualmente, col comma 1 che lo precede, ai sensi del
quale “In ogni amministrazione dello
Stato, anche ad ordinamento autonomo, è istituito il ruolo dei dirigenti, che
si articola nella prima e nella seconda fascia, nel cui àmbito sono definite
apposite sezioni in modo da garantire la eventuale specificità tecnica. I
dirigenti della seconda fascia sono reclutati attraverso i meccanismi di
accesso di cui all'articolo 28. I dirigenti della seconda fascia transitano
nella prima qualora abbiano ricoperto incarichi di direzione di uffici
dirigenziali generali o equivalenti, in base ai particolari ordinamenti di cui
all'articolo 19, comma 11, per un periodo pari almeno a cinque anni senza
essere incorsi nelle misure previste dall'articolo 21 per le ipotesi di
responsabilità dirigenziale, nei limiti dei posti disponibili, ovvero nel
momento in cui si verifica la prima disponibilità di posto utile, tenuto conto,
quale criterio di precedenza ai fini del transito, della data di maturazione
del requisito dei cinque anni e, a parità di data di maturazione, della
maggiore anzianità nella qualifica dirigenziale”.
La norma è propriamente riferita
alle amministrazioni dello Stato, non a caso: non poteva coinvolgere anche la
dirigenza regionale, del sistema sanitario e degli enti locali, proprio per l’autonomia
organizzativa riconosciuta a detti enti, violata dall’assenza dell’intesa
obbligatoria almeno con le regioni, che è costata alla riforma Madia la
bocciatura solenne pronunciata con la sentenza della Consulta 251/2016.
Per creare davvero un mercato
aperto quello della dirigenza e finalizzato all’accrescimento delle possibilità
di carriera, l’idea del ruolo unico potrebbe essere utile ed efficace, ma a
condizione che:
1)
il ruolo sia realmente unico e non l’ircocervo uno e
trino immaginato dalla riforma Madia, causa di grandissima confusione, e
comunque suddiviso in modo molto chiaro in profili e carriere, per i quali
fossero descritti in modo altrettanto chiaro requisiti di iscrizione;
2)
nel ruolo i dirigenti siano iscritti con un ordine
rigorosamente derivante da un ranking,
connesso ai titoli di merito: concorsi vinti, titoli universitari e post
universitari, pubblicazioni scientifiche, esperienze pregresse, anche nel
settore privato, livello di conoscenza delle lingue, disponibilità alla
mobilità territoriale ed altri indicatori: in modo che le selezioni per
mobilità siano definite e condizionate dalla posizione del singolo dirigente
nella “graduatoria”, così da evitare decisioni arbitrarie della politica e
sollecitare i dirigenti ad incrementare le proprie chance di ottenere incarichi
più prestigiosi, acquisendo maggior punteggio nel ranking, ottenendo i maggiori titoli necessari allo scopo;
3)
sia attivato il sistema di valutazione omogeneo,
comunque indispensabile per una comparazione che tenga conto anche dei
risultati ottenuti; sistema di valutazione del quale si parla, ormai,
vanamente, da decenni e correttamente quanto inevitabilmente sollecitato dal
Consiglio di stato, nel suo parere formalmente espresso come positivo, per
quanto fosse totalmente avverso e negativo e, purtroppo, totalmente ignorato
dagli autori della riforma.
Rispettando queste condizioni,
si può immaginare una riforma della dirigenza che si riveli un semplice ritocco
sostanzialmente all’impianto dell’articolo 23 del d.lgs e poco più. Aspettando,
sempre, che il Governo comunque si ricordi che il suo è un potere esecutivo,
finalizzato, cioè, ad eseguire le norme e non a costruire torri di Babele
cadenti di leggi che si affastellano senza cemento l’una sopra l’altra ed
esposte alla troppo facile opera demolitoria (se non inibitoria) della Corte
costituzionale.
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