Il giuslavorista Pietro Ichino
non è ancora pago di aver scatenato la campagna sui “fannulloni” e di aver
spinto[1]
verso la creazione di uno dei più inutili enti mai visti nel panorama della
pubblica amministrazione italiana, la
Civit (Commissione per la valutazione, la trasparenza e
l'integrità delle amministrazioni pubbliche).
Così inutile che uno dei
componenti iniziali, chiamato proprio su indicazione e spinta del
giuslavorista, Pietro Micheli, si dimise[2] nel
gennaio 2011 pochissimo dopo, avendo constato l’assoluta incapacità della Civit
a svolgere le funzioni previste. Così inutile, che infatti non solo non ha mai
prodotto alcuna direttiva utile per i sistemi di valutazione del personale, ma
è stata abolita e in parte sostituita in alcune sue funzioni dall’Anac.
Sicchè, richiesto da La
repubblica di parlare sul tema delle assenze che nel lavoro pubblico risultano
maggiori di quelle del privato, nell’articolo-intervista “Pietro Ichino: "Gli abusi sono tutta colpa dei dirigenti che nonvigilano"” torna a proporre analisi e diagnosi fortemente fuori
bersaglio.
Il giuslavorista è tenacemente ed
orgogliosamente abbarbicato alla teoria secondo la quale le regole del lavoro
privato debbano valere anche nel lavoro pubblico, considerando che la pubblica
amministrazione dovrebbe funzionare “come un’azienda”.
Non c’è il minimo dubbio che il
trattamento dei lavoratori dovrebbe, il più che sia possibile, essere il meno
differenziato possibile, anche per non ledere basilari diritti di eguaglianza.
Sta di fatto, comunque, che per
primo l’esimio giuslavorista sa che a seconda dei settori, delle qualifiche e
delle mansioni le condizioni contrattuali, organizzative e logistiche dei
lavoratori sono molto diverse, per quanto analoghe. Né si può immaginare che l’organizzazione
di una piccola impresa artigiana debba essere uguale a quella di una grande
industria.
Non si sa perché, invece, quando
si parla di pubblica amministrazione da ormai un quarto di secolo si insiste
nel voler applicare (per altro male) principi “aziendalistici”, commettendo una
serie di errori:
1)
non
comprendere che la pubblica amministrazione non opera nel mercato, ma eroga
servizi non in rapporto di concorrenza, agendo per lo più con poteri
autoritativi; pertanto non è il mercato ad ottimizzarne l’azione, ma le regole
operative pubblicistiche;
2)
non
comprendere che è erroneo parlare della pubblica amministrazione come fosse un
aggregato unico ed indistinto: i 3 milioni di lavoratori pubblici operano in
enti e funzioni estesissimi e totalmente eterogenei: si passa dai docenti delle
scuole, agli addetti ai servizi cimiteriali, dall’attività delle forze dell’ordine
alle autorità portuali, dai progettisti tecnici ai letturisti dei contatori,
dai barellieri agli agenti di polizia locale, dai medici agli impiegati
amministrativi; pertanto, l’organizzazione dei servizi e la stessa resa dei
servizi non può essere considerata come un tutto unico e tutto riconducibile a
metodologie aziendali. Basti pensare ai comuni: si tratta di enti che svolgono
una quantità estesissima di funzioni fondamentali[3],
oltre a tutta un’altra serie di funzioni e servizi non fondamentali,
trattandosi di enti a finalità pubbliche generali e aperte. Nessun’azienda
privata riuscirebbe a gestire un’estensione tale di servizi, senza fallire
entro breve;
3)
non
comprende che la quantità enorme di leggi speciali poste a disciplinare il
funzionamento delle pubbliche amministrazioni (proprio perché non operano nel
mercato) e lo stesso rapporto di lavoro (fortemente diversificato da quello
privato), rendono un ossimoro, un’antitesi irrisolvibile la presunzione di
poter estendere all’attività pubblica regole che i privati, dotati di un’autonomia
operativa di diritto privato incommensurabilmente maggiore, possono utilizzare.
Tornando all’intervista,
riportiamo la domanda e la risposta, che rivela come la diagnosi proposta da
Ichino sia ancora ferma alla fallimentare concezione del lavoro pubblico, da
cui è disceso il flop gigantesto della Civit: “In fondo però non stiamo parlando
di assenteismo, ma di comportamenti leciti, giustificati dall'ordinamento.
Perché il datore di lavoro privato riesce ad arginarli e il pubblico no?
"In realtà non si tratta sempre di comportamenti leciti. Per
esempio, la legge 104 non consentirebbe che il lavoratore, ottenuto il
permesso, invece di assistere la vecchia zia ottantenne, si dedichi a un corso
di canottaggio. Pensiamo anche ai permessi elettorali: non è ammissibile che in
un servizio pubblico si dimezzino gli organici in occasione delle elezioni. Nel
settore privato il dirigente verifica che chi ne fruisce sia veramente un
militante del partito, vada a fare davvero il rappresentante di lista; nel
pubblico nessuno si cura di controllare"”.
Ecco il solito confronto tra
pubblico e privato, come troppo spesso avviene, per altro, basato su
affermazioni assolute, inidonee a verificare i dati reali analitici e posti ad
imporre un’idea inemendabile: nel privato tutti controllano, nel pubblico
nessuno!
Fatta l’affermazione
propagandistica e demagogica, ecco la successiva affermazione che rivela l’estrema
superficialità dell’analisi e la conoscenza abbastanza sommaria delle regole
del lavoro pubblico. L’intervistatrice chiede se si tratti solo di una
questione di incapacità dei dirigenti ed il prof. Ichino sentenzia: “Innanzitutto di irresponsabilità dei
dirigenti. I vertici politici, da Brunetta in poi, hanno varato diverse norme
anti-assenteismo, ma non hanno mai fatto l'unica cosa efficace: imporre ai direttori del personale
l'obiettivo di allineare il tasso di assenze rispetto a quello di aziende private comparabili, entro un termine
ragionevole, sotto pena di perdere l'incarico, come previsto dall'articolo 21
del Testo Unico (d.lgs 165/2001, nda)”.
In una sola semplice frase, una
serie di incongruenze. Il prof. Ichino, quando afferma che non si è imposto l’obiettivo
di ridurre il tasso delle assenze ai “direttori del personale” dimostra di non
sapere che nella pubblica amministrazione la gestione del personale non è
concentrata, come talvolta accade in alcuni enti pubblici o società a
partecipazione pubbliche e spesso nelle aziende, sulla figura del”capo del
personale”. Al contrario, la gestione concreta del rapporto di lavoro è
affidata singolarmente a ciascun dirigente preposto alla direzione degli
uffici.
Quello che viene definito “direttore
del personale” o “capo del personale”, per lo più nelle pubbliche
amministrazioni cura le attività “trasversali”: la complicatissima
pianificazione delle assunzioni, il computo del valore annuale delle risorse
decentrate, le procedure di contrattazione decentrata, l’attivazione dei
concorsi, il pagamento degli stipendi, la cura delle istruttorie dei
procedimenti disciplinari, la difficilissima elaborazione dei dati per il conto
annuale del personale, le pratiche di pensionamento. Ma, al controllo dell’attività
lavorativa e anche delle assenze, ci pensano i singoli dirigenti.
Dovrebbe essere notorio che per
verificare l’effettiva assenza dal lavoro, i dirigenti debbono chiedere ai
servizi ispettivi delle Usl l’uscita, che è onerosa. Esistono casi di pronunce
della Corte dei conti di condanna di un eccesso di richieste, mentre al
contempo, comunque, talmente pochi e inadeguati sono i componenti degli uffici
ispettivi delle Usl che a seconda dei territori da un terzo fino alla metà delle
segnalazioni vanno totalmente a vuoto.
Dunque, anche quei dirigenti
volenterosi che cercano di effettuare i controlli, spesso si ritrovano con un
pugno di mosche in mano, per inadeguatezza degli uffici addetti.
Se poi, per caso, qualcuno, anche
operando in società pubbliche, si azzarda ad essere innovativo ed affida in
appalto un servizio di investigazione privata, apriti cielo! Non solo si
debbono porre in essere le bizantine procedure di gara (che ovviamente un’azienda
privata nemmeno si sogna di attivare), ma la Corte dei conti valuta in maniera molto negativa
simili iniziative e non ha fatto mancare sentenze di condanna per danno
erariale[4].
Nessun dirigente di nessun’azienda
privata deve fare i conti con le regole pubblicistiche degli appalti o con la
responsabilità erariale nel gestire il rapporto di lavoro con i dipendenti. Non
si vede come, dunque, possa nemmeno lontanamente determinarsi un obiettivo di
allineamento dei tassi di assenza tra amministrazioni pubbliche e aziende
private “comparabili”, posto che la “comparabilità” è totalmente esclusa
esattamente dalle peculiarità molto evidenti dell’agire della PA.
Delle due, dunque, l’una:
1.
o si va
verso una reale privatizzazione non solo delle regole di gestione del rapporto
di lavoro, ma anche dell’agire, della PA, che venga esonerata dall’immenso
gravame delle regole pubblicistiche da rispettare e del macigno della
responsabilità erariale;
2.
oppure,
si prende atto che il paragone tra pA e “privato” proprio non regge e continua
ad essere buono solo per titolo roboanti ed interviste sui media, un po’ per
celia, un po’ per non morire, ma con utilità prossima allo zero.
[1] P. Ichino, “Per rompere il
circolo vizioso” in Lavoce.info: http://www.lavoce.info/archives/24081/per-rompere-il-circolo-vizioso/.
[2] Ecco il testo della
lettera del prof. Micheli, pubblicata sui media a suo tempo:
Egregio Ministro Renato Brunetta,
Le scrivo per comunicarLe le mie dimissioni da
componente della Commissione indipendente per la Valutazione , la Trasparenza e
l’Integrità delle amministrazioni pubbliche (CiVIT).
Avevo lasciato il mio lavoro in Gran Bretagna come
professore universitario e consulente per dare il mio contributo a quella che
nel 2009 fa si profilava come un’ambiziosa e storica riforma della Pubblica
Amministrazione (PA).
Ebbene, dopo un anno, non credo vi siano più i presupposti
per continuare.
Sebbene la riforma che porta il Suo nome abbia
inizialmente conseguito dei risultati positivi, qualche difetto del suo
impianto originario e soprattutto i gravi difetti nel modo in cui essa sta
essendo attuata rischiano di farla naufragare in una palude di adempimenti
burocratici, appesantendo le amministrazioni invece che renderle più
efficienti. La mia valutazione attuale, purtroppo, è che i limiti stiano
prevalendo sul cambiamento e che i vizi di un sistema da riformare non siano stati
affrontati in modo corretto e con l’intensità di energie politiche e di risorse
economiche che la sfida richiede.
Performance e valutazione sono le parole chiavi della
riforma; ma in nessuna
organizzazione la valutazione individuale può dare
buoni frutti se non c’è una buona gestione organizzativa. Invece, il consenso
ottenuto con la campagna “anti-fannulloni” e la presenza nella legge di riforma
di alcuni elementi esageratamente prescrittivi (ad es., la ripartizione dei
valutati in fasce definite ex ante) hanno focalizzato l’attenzione di tutti
sulla performance individuale. Il pressing sui “fannulloni” ha dato i suoi
frutti all’inizio (riduzione dell’assenteismo), ma ha finito anche per
deprimere la reputazione e il senso di appartenenza di tanti dipendenti
pubblici. E dato che queste sono le leve motivazionali più potenti, sarà dura
riuscire a (ri)motivare il personale pubblico a far meglio con l’uso di
tornelli, telecamere, bastoni e carote (per altro sparite dopo la recente legge
di stabilità).
Per rendere la
PA più efficiente e competitiva bisogna risolvere prima
problemi a livello organizzativo e di sistema: è qui che la Sua riforma avrebbe potuto
fare la differenza, puntando sulla creazione di valore pubblico e sulla
valutazione degli impatti dell’azione amministrativa, in un ambiente troppo
spesso autoreferenziale. Perché è questo, in ultima istanza, l’interesse
principale dei cittadini e delle imprese: la qualità dei servizi che gli
vengono resi. Il meccanismo del premio e della sanzione è strumentale a questo
obiettivo, mentre è finito per essere (specie la sanzione) il vero fulcro
dell’azione. Poi, se la Sua
riforma voleva essere di stampo manageriale, allora perchè nominare una
Commissione prevalentemente composta da giuristi? E in ogni caso, come può una
Commissione con 30 persone in organico, senza poteri ispettivi o sanzionatori,
spingere a migliorare non solo chi è già incline a farlo, ma anche chi non ne
ha alcuna intenzione? Inoltre, se la riforma fosse davvero una priorità, come
spiegarsi l’auto-esclusione sia della Presidenza del Consiglio che del
Ministero dell’Economia e delle Finanze?
Quanto all’indipendenza della CiVIT, come può esserci
indipendenza quando il Governo si riserva ogni potere di determinare nomine,
compensi e ambiti di operatività della Commissione stessa, e per di più opera
quotidianamente trattando la
CiVIT come parte del proprio staff? E lo stesso interrogativo
vale per gli Organi Indipendenti di Valutazione recentemente costituiti presso
molte amministrazioni.
Con sincero rammarico,
Pietro Micheli prof. di analisi delle politiche
pubbliche alla Università di Cranfield e membro della Civit-Commissione per la Trasparenza
l’Integrità e la
Valutazione delle Amministrazioni pubbliche
[3] Solo per citare quelle
menzionate dall’articolo 14, comma 27, del d.l. 78/2010, convertito in legge
122/2010:
a) organizzazione generale dell’amministrazione,
gestione finanziaria e contabile e controllo;
b) organizzazione dei servizi pubblici di interesse
generale di ambito comunale, ivi compresi i servizi di trasporto pubblico
comunale;
c) catasto, ad eccezione delle funzioni mantenute allo
Stato dalla normativa vigente;
d) la pianificazione urbanistica ed edilizia in ambito
comunale nonché la partecipazione alla pianificazione territoriale di livello
sovra comunale;
e) attività, in ambito comunale, di pianificazione di
protezione civile e di coordinamento dei primi soccorsi;
f) l’organizzazione e la gestione dei servizi di
raccolta, avvio e smaltimento e recupero dei rifiuti urbani e la riscossione
dei relativi tributi;
g) progettazione e gestione del sistema locale dei
servizi sociali ed erogazione delle relative prestazioni ai cittadini secondo
quanto previsto dall’articolo 118, quarto comma, della Costituzione;
h) edilizia scolastica per la parte non attribuita
alla competenza delle province, organizzazione e gestione dei servizi
scolastici;
i) polizia municipale e polizia amministrativa locale;
l) tenuta dei registri di stato civile e di
popolazione e compiti in materia di servizi anagrafici nonché in materia di
servizi elettorali, nell’esercizio delle funzioni di competenza statale.
l-bis) i servizi in materia statistica.
[4] Corte dei conti, Sezione
giurisdizionale per il Trentino Alto Adige – Trento, sentenza 4 novembre 2009 ,
n. 54 (http://www.corteconti.it/export/sites/portalecdc/_documenti/sentenze/2009/sentenza_54_2009_trentino_alto_adige_trento.pdf).
Detto in altri termini, le rapine sono colpa della polizia che non vigila.
RispondiEliminaCome affermazione detta in un momento di sconforto va anche bene, è uno sfogo, come dire piove governo ladro, ma da qualcuno che vuole essere preso sul serio la tesi di Ichino, con il massimo rispetto per la persona, appare ridicola. La poca capacità di comprensione della pubblica amministrazione, il non capire le differenze sostanziali tra il settore privato e quello pubblico, porta Ichimo a sostenere tesi populiste e prive di fondamento. Talvolta nelle sue esternazioni somiglia ai pensionati che seduti nelle panchine dei giardini pubblici, hanno tutte le ricette per salvare il mondo. Le tesi di Ichino però hanno un pregio e per questo sono ascoltate. Fanno guadagnare qualche lettore in più ai giornali e soddisfano il Giustiziere mascherato che è in ciascuno di noi, come in parte fa il leghista Salvini per altri problemi. Per questo il modo di pensare di Ichino può tornare utile, in qualche momento, sia all'estrema destra che all'estrema sinistra, al centro, al basso e all'alto, perchè aiuta e da un supporto ideologico ai politici scorretti, indipendentemente dalle stesse intenzioni di ichino, per sbarazzarsi di dipendenti, dirigenti o meno, fedeli allo Stato e non al politico.