Che la riforma delle province
fosse qualcosa di grottesco ed inefficiente lo
aveva capito anche Checco Zalone.
Non c’era nemmeno bisogno delle
certificazioni del fallimento totale di una delle più scriteriate e
raffazzonate riforme degli ultimi 50 anni, che, pure, hanno fornito Corte
dei conti e l’Ufficio
Valutazione Impatto del Senato. Persino il Sose, che ha supportato la legge
190/2014 allo scopo di far tornare i conti degli insostenibili prelievi forzosi
da 3 miliardi di euro imposti a suo tempo, ha
fatto marcia indietro.
L’ultima conferma della catastrofe
istituzionale cagionata dalla caccia al voto mediante il messaggio populista
del “dagli alle province” lanciato nel 2007 dal pamphlet “La Casta ” è dato dalla regione
Sicilia, che nei giorni scorsi ha votato il ritorno all’elezione diretta
mediante suffragio universale.
E’ bene ricordare che la Sicilia è stata la prima
regione in Italia ad avviare una riforma disastrosa (come ampiamente previsto)
delle province, in perfetto stile alla Checco Zalone: disposta dal presidente
della regione Crocetta ad Anno Zero e a L’Arena, in TV, in modo sommario ed
acritico, come raffazzonato e senza basi è stato, alla fine, il risultato
finale. Che ha prodotto solo disfunzioni,
anni di commissariamenti (con contorno di liti per nomine, proroghe e prebende
ai commissari), cappio al collo finanziario, riduzione dei servizi. A
discapito, ovviamente, non degli enti province, ma dei cittadini ai quali i
servizi delle province erano rivolti.
Il film “Quo Vado” di Zalone
contiene una battuta nella quale il protagonista, alla domanda di una cittadina
che chiede, stupita dal fatto che pur passandosi dalla provincia alla città
metropolitana gli uffici continuano a svolgere le mansioni di prima, risponde
che “non è cambiato un ….”, insomma, nulla.
La tragicomica vicenda della
Sicilia, “apripista” nella micidiale gara a chi arrivava per primo a disfare
senza costrutto l’ordinamento degli enti locali, ne è, in parte la conferma. In
fondo, in Sicilia si è preso atto che la riforma non è servita a nulla e, al
contrario, ha creato solo danni.
Non si tratta, però, di un
ritorno indietro totale. Per la semplice ragione che, contrariamente alla
facile battuta di Zalone e dei titoli della stampa generalista, non è per nulla
vero che nulla sia cambiato.
Nei quasi tre anni di vigenza
delle “riforme” delle province (in Sicilia, in Friuli Venezia Giulia, in
Sardegna e nel resto d’Italia), sono stati creati danni permanenti, quali:
1)
il
trasferimento assolutamente disordinato della titolarità delle “funzioni non
fondamentali” delle province, un po’ riacquisite dalle regioni, un po’ lasciate
alle province, un po’ assegnate ai comuni, con modalità completamente
differenti da regione a regione, così da creare una confusione epica nei
cittadini e nelle imprese, che se avranno la sfortuna di doversi rivolgere per
una medesima necessità ad enti di regioni diverse, impazziranno per conciliare
le competenze riscontrate nei vari territori;
2)
la
dispersione del personale addetto: quasi la metà dei 40.000 dipendenti delle
province (circa 16.000) è passata, anche qui in modo del tutto casuale e
caotico, ad altri enti: alcuni sono andati in regione, altri in comune, quasi
tutti senza seguire l’unico elemento di razionalità della legge Delrio:
connettere le funzioni al personale ed alle risorse finanziarie. Il risultato è
il disallineamento tra funzioni e personale, con percepibile riduzione
dell’efficienza operativa;
3)
l’imposizione
di tagli per circa 2,5 miliardi (a partire dal 2011), oltre ai 3 miliardi di
prelievo forzoso, su una spesa complessiva che al 2013 era di circa 11
miliardi. Con la conseguenza:
a. di un buco di 651 milioni per la gestione
delle funzioni fondamentali, rimaste in capo alle province;
b. di un buco di 1,5 miliardi sulle funzioni non
fondamentali acquisite dalle regioni, costrette dal d.l. 78/2015 a farsi
carico, nella sostanza, di un volume di spesa pari ad oltre un quarto delle
risorse ridotte alle province. Un carico che, però, le regioni non hanno
pienamente coperto, sì da lasciare molte funzioni provinciali prive di adeguate
risorse finanziarie.
Questi danni restano e saranno
permanenti. L’unico “ritorno al passato” pieno può essere appunto quello
disposto dalla Sicilia: il ritorno all’elezione diretta dei consiglieri
provinciali. Esattamente ciò che, tra tutto, è percepito come il minore dei
problemi da parte dei cittadini. Anche se c’è da dire che la riforma delle
province, nelle sue varie modalità, ha avuto un altro micidiale effetto: quello
di anticipare e far comprendere, in piccolo, cosa sarebbe stata la riforma del
Senato, se fosse passato il sì al referendum sulla riforma della Costituzione.
Ad aggiungere grottesco al
grottesco, pare che lo Stato intenda rivolgersi alla Corte costituzionale, per
evidenziare l’illegittimità costituzionale della legge siciliana, scaturente
dalla circostanza che essa si pone in contrasto con la normativa nazionale.
In disparte la circostanza che
nessuno battè ciglio quando, sull’onda dei proclami televisivi di Crocetta, la
regione Sicilia riformò le province mentre ancora non era in vigore la riforma
nazionale e, dunque, in quei mesi vi era stata una visibile difformità degli
ordinamenti, ci sarebbe da capire in cosa consisterebbe questo presunto vizio
di costituzionalità.
Nessuna disposizione della
Costituzione (né dello Statuto siciliano) impedisce espressamente che gli
organi delle province siano nominati a seguito di elezione diretta da parte del
corpo elettorale. Al contrario, gli articoli 5, comma 2, e 114 della
Costituzione, laddove dispongono la pari dignità istituzionale degli enti che
compongono la Repubblica ,
tra i quali appunto le province, lasciano concludere esattamente per il
contrario: che risulti, cioè, un vulnus ai poteri del corpo elettorale privarlo
della possibilità di eleggere i rappresentanti politici alla guida di enti
locali.
Forse, al Governo non conviene
molto rivolgersi alla Consulta, visto che a risultare incostituzionale
è proprio la riforma delle province. Incostituzionale soprattutto alla luce
degli esiti del referendum del 4 dicembre 2016 : il “no” di quasi 20 milioni
di elettori alla riforma, ha messo in evidenza l’insostenibilità giuridica
(gravissima) di una riforma espressamente attivata “In attesa della riforma del titolo V della parte seconda della
Costituzione e delle relative norme di attuazione”.
Come incostituzionale, secondo
quanto ha già sancito la
Consulta mediante la sentenza 205/2106, è l’articolo 1, comma
418, della legge 190/2014, se non interpretato nel senso che il prelievo
forzoso da 3 miliardi imposto alle province è caratterizzato da un vincolo di
destinazione che obbliga lo Stato ad investire le risorse sottratte alle
province nel finanziamento esattamente delle funzioni che dalle province sono
passate ad altri enti: sentenza totalmente ignorata e violata, che lascia
ancora parte troppo grande delle funzioni provinciali, come caoticamente
redistribuite, prive di adeguata copertura.
Forse, per una volta, lo Stato
dovrebbe prendere esempio dalla Sicilia, nell’accettare la realtà: la riforma
delle province è un fallimento sotto ogni aspetto ed occorre porvi rimedio,
ritornando non necessariamente al passato ma, quanto meno, a ragionare non
sotto l’impulso del populismo, bensì dei numeri, dei conti, delle necessità e
dell’interesse pubblico.
Che la disastrata Sicilia abbia qualcosa da insegnare al governo nazionale è il segno evidente che siamo alla frutta;
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