Su La Repubblica del 21 agosto 2017
campeggia un’inchiesta di Marco Ruffolo, dal titolo “Se il Comune non investe”.
Tema: se gli investimenti
pubblici languono è colpa dei comuni. Svolgimento: i comuni non sanno sfruttare
la liberazione dal patto di stabilità, boicottano il codice dei contratti e non
sanno programmare.
Conclusione: trovato il capro
espiatorio. Le politiche dei “#millegiorni” sono eccellenti ed efficacissime,
ma sogno “gli altri” che non sanno approfittarne, in particolare i sindaci,
boicottatori, brutti, sporchi e cattivi.
Così sintetizzata l’inchiesta,
qualcuno può storcere il naso ed osservare che il commento sia un po’ di parte
e prevenuto. Analizziamo, allora, in sintesi, i contenuti dell’articolo.
L’autore osserva, partendo dalla
premessa che sia gli impegni, sia i pagamenti per gli investimenti del 2017
rischiano seriamente di essere inferiori a quelli del 2016, confermando la
terribile caduta generatasi a partire dal 2008: “Fino a un paio di anni fa gli enti locali avevano l'obbligo di creare
un certo avanzo tra entrate e spese per via del cosiddetto "patto di
stabilità interno", una delle regole che derivano dagli impegni presi con
Bruxelles. Non potendo comprimere più di tanto le spese vive di tutti i giorni,
ne aumentare troppo le tasse, i sindaci finivano necessariamente per
sacrificare proprio gli investimenti. Non solo, ma spesso succedeva che anche
di fronte a impegni di spesa già presi in passato per opere pubbliche e
infrastrutture, i Comuni non potessero poi spendere quelle cifre, pur avendo
molta liquidità in cassa. Ed ecco spiegata la caduta vertiginosa degli
investimenti comunali: circa il 50% in meno tra il 2008 e il 2014. Poi però
le regole sono cambiate: dal 2016 Comuni e Regioni hanno soltanto l'obbligo del
pareggio tra entrate e impegni di spesa, e questo lascia spazio sia a nuovi
investimenti sia al pagamento di quelli già decisi ma bloccati”.
“Soltanto l’obbligo del pareggio”
di bilancio, osserva il Ruffolo. Ora, trattandosi di un’inchiesta, ci sarebbe
da aspettarsi da essa non l’esposizione di una “sentenza” già emessa, ma
l’analisi dei tanti fattori che compongono il problema.
Risulta, dunque, piuttosto
stucchevole che nessuno abbia informato l’autore che a partire dal 2015 si è
avviato un deciso cambiamento della contabilità pubblica, entrato a regime
proprio nel 2016, in
attuazione del d.lgs 118/2011, il quale disciplina la cosiddetta “competenza
potenziata”.
Si tratta di un sistema contabile
che definire “perverso” appare fin troppo generoso: un ibrido tra contabilità
finanziaria autorizzatoria e contabilità aziendalistica gestionale, che ha
complicato fino al parossismo esattamente i procedimenti di impegno di spesa e
di successivo pagamento.
Forniamo, qui, due soli
brevissimi dati. Prima dell’entrata a regime di questa riforma contabile, la
contabilità degli enti locali era regolata, oltre che dalle kafkiane norme
disposte con le varie leggi finanziarie o di stabilità o di bilancio (tutte volte
a strozzare le spese dei comuni, circa 70 miliardi nel complesso, mentre quella
statale, circa 500 miliardi nel complesso, veniva sempre lasciata indenne…),
era disciplinata da un centinaio di articoli del d.lgs 267/2000, brevi, secchi
e semplici. Grazie alla riforma della contabilità, quegli articoli sono
divenuti lunghissimi e farraginosi, ma, soprattutto, la formazione in merito
alla contabilità si è estesa a dismisura, grazie alla “soft law” (sperimentata
in questo campo ancor prima che in quello degli appalti e con i medesimi
effetti di complicazione burocratica all’eccesso), nel caso di specie
concretizzata con i “principi contabili” connessi al d.lgs 118/2011. Chi ha
voglia, vada a leggerli qui:
centinaia di pagine, con migliaia di regole, un’iper regolamentazione che rende
difficilissimo programmare ed approvare i bilanci (ci vogliono ben 30 allegati)
e, soprattutto, impegnare la spesa. Che si impegna un certo anno, ma va
imputata anche per gli anni successivi (quando divengono “eigibili”, perché
diviene certo e liquido il credito dell’appaltatore a seguito della sua
prestazione), ove confluisce in un fondo, che va annualmente rideterminato e
dal quale va annualmente prelevata con nuove procedure contabili, del tutto
carenti dell’ipotesi (perfettamente comprensibile e normale) di una non
perfetta corrispondenza tra programmazione dell’imputazione della spesa e ritmo
dei pagamenti da effettuare realmente.
Di fronte a simili complicazioni
operative e gestionali e a tale iper regolamentazione, significa davvero
“cadere dal pero” stupirsi per la circostanza che nonostante sia stato
eliminato il patto di stabilità, gli investimenti ancora non partono: il
sistema contabile è proprio pensato per rendere impossibile aumentare gli
investimenti, così come il ritmo degli impegni e dei pagamenti.
Poi, l’inchiesta prosegue,
facendo qualche esempio di finanziamenti, specie di provenienza europea, male
utilizzati. Ecco cosa si legge: “Stato e
Regione Sicilia stanziano 200 milioni di euro per riparare i 26 mila chilometri
di strade provinciali siciliane, in gran parte dissestate e inagibili. Ma dalle Province non arrivano i
progetti esecutivi e quindi non possono partire i lavori. Così interi
paesi sono condannati a restare isolati”.
Anche qui, l’inchiesta cade dal
pero: dalle province (siciliane, nel caso di specie) non arrivano progetti
esecutivi. Verrebbe da scrivere: “ma va?”. Anche in questo caso, l’approfondita
inchiesta è rimasta priva di un dato, del tutto trascurabile: nessuno ha
informato La Repubblica
che la regione Sicilia è stata la prima a “riformare” le province, gettandole
nel caos più assoluto (come del resto in tutta Italia), tra commissariamenti,
dissesti finanziari, esodi di personale e pensionamenti anticipati, riduzione
di qualsiasi servizio e funzione per i cittadini. Stupirsi che proprio le
province, capro espiatorio dell’ “inchiestismo” giornalistico che si indigna
molto se il Sole sorge ad est e chiede l’abolizione della rotazione terrestre,
non siano state in grado di progettare, produce solo un sorriso molto amaro.
Poi, la stoccata finale, lo
scoop, la grande rivelazione: se gli investimenti non ripartono è perché i
comuni “boicottano” il codice dei contratti. Leggiamo: “In genere, gli enti locali si discolpano indicando nel nuovo codice
degli appalti il responsabile di tanta indecisione. Soprattutto lì dove prevede
che gli appalti siano assegnati solo sulla base di progetti già in tutto e per
tutto esecutivi, per evitare la miriade di varianti in corso d'opera”. Una
discolpa, che secondo l’inchiesta è come quella del bimbo colto nel rubare la
marmellata. Ma, l’autore è vigile e circospetto e attinge alle fonti che
comprovano la colpevole ignavia dei comuni: “Ma il presidente dell'Anac, Raffaele Cantone, non ci sta: «Quel codice
viene accusato di essere troppo complicato, ma non è vero, basta considerare
l'enorme semplificazione consentita per i lavori sotto soglia. Semmai è vero
esattamente il contrario e cioè che molte amministrazioni stanno boicottando il
codice con una preoccupante riduzione degli appalti (meno 16% nel 2016 ndr) che
solo ora si sta attenuando». «Ha ragione Cantone — dice Claudio Virno,
economista de lavoce.info e uno dei più ascoltati esperti in investimenti
pubblici. «Certo, ci può essere stata qualche difficoltà di adattamento alle
nuove regole, ma le amministrazioni avevano tutto il tempo per prepararsi, non
è colpa del codice se gli investimenti languono»”.
Inchiesta sfortunata. Anche in
questo caso:
1) nessuno ha informato l’autore che:
a. il codice dei contratti ha ricevuto 182
correzioni da strafalcioni appena 3 mesi dopo essere stato approvato;
b. non è stato previsto alcun diritto
transitorio;
c. manca ancora la metà della normativa
necessaria, tra regolamento e linee guida;
d. è stato praticamente riscritto a nemmeno un
anno dalla sua approvazione;
2) nessun sindaco, nessun presidente di regione,
ma in generale nessun politico si sognerebbe mai di “boicottare” il codice dei
contratti per dispetto all’Anac o al Governo: dovrebbe essere noto a tutti che
proprio con la realizzazione di opere pubbliche, oltre che a servire la
popolazione amministrata di quanto occorre e a tenere vivace l’economia, si
coltiva il consenso elettorale; immaginare, restando seri, che esista realmente
sulla faccia del pianeta un amministratore locale sdegnatamente intento a non
realizzare alcuna opera pubblica al solo scopo di boicottare una legge è
semplicemente pura fantasia, un modo per non prendere atto che il codice dei contratti,
esattamente come la nuova contabilità degli enti locali, è una pesantissima
palla al piede, un inno alla burocrazia e alle grida manzoniane.
Infine, l’inchiesta chiude con
queste osservazioni dell’economista Virno: “«Quasi tutti gli altri paesi europei fanno meglio di noi», dice
l'economista Virno. «La verità è che le nostre amministrazioni pubbliche, a
cominciare da quelle locali, non si attrezzano con progetti pronti, esecutivi,
realizzabili. Anzi, il più delle volte non hanno neppure un'idea di quello che
vogliono fare e così lanciano bandi di gara per chi trova le idee migliori di
nuovi progetti. Ossia fanno le gare per capire cosa fare, delegando una
programmazione che dovrebbe essere interna all'amministrazione». Uno dei bandi
della Regione Sardegna a valere sul Fesr, il fondo europeo di sviluppo
regionale, ha come oggetto: "Manifestazione di interesse finalizzata
all'acquisizione di proposte per la realizzazione di progetti di sviluppo
contratti di investimento". Nulla di più vago. «Finché non ci sarà un'adeguata capacità tecnica — conclude Virno —
finché non ci sarà una vera programmazione e valutazione dei progetti, tutti i
tentativi di accelerare le opere pubbliche in Italia falliranno, come sono
finora falliti»”.
Diagnosi sicuramente fondata.
Aspettiamo, però, quell’inchiesta capace di uno scoop strepitoso: capire come
mai manchi l’adeguata capacità tecnica nei comuni, visto che da 13 anni vi è un
virulento blocco delle assunzioni, che dal 2009 al 2017 la formazione per i
dipendenti pubblici è stata falcidiata, che i dipendenti sono progressivamente
invecchiati, che il personale si è ridotto drasticamente.
Ringrazio per l'accurata disamina dell'ennesimo articolo scritto a detrimento della pubblica amministrazione e pubblicato dal quotidiano La Repubblica. Ma poi, non si comprende quale soluzione proponga l'autore di tale "inchiesta". Aboliamo i comuni? Li commissariamo ? Li sottoponiamo a uno spoils-system generale, mandando da Roma funzionari e dirigenti più capaci e fedeli ? Finché si tratta di denunciare le inefficienze e gli sprechi della p.a., la penna dei professori non smette mai di correre (specie nelle redazioni di certi grandi giornali nazionali). Ma quando arriva il momento di fare delle proposte concrete per risolvere i problemi, chissà perché, ai professori finisce sempre l'inchiostro.
RispondiEliminaGrazie per la lucida analisi ed esposizione dei fatti. Penso che l'articolo in commento si inserisca in un più ampio disegno, in atto da tempo, di delegittimazione degli Enti Locali e dei suoi funzionari, in favore di un processo di riaccentramento dei poteri decisionali . Pensate agli innumerevoli monitoraggi cui siamo costretti . E i Sindaci non l'hanno ancora capito....
RispondiEliminaPenso che uno dei maggiori problemi italiani, sia costituito dalla mancanza di una classe giornalistica adeguata. Si elogiano a vicenda e si dividono i soldi pubblici.
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