Leggendo
i giornali, si hanno alcune certezze. Tra queste, l’immancabile articolo volto
a dimostrare che i centri per l’impiego non servono a nulla, costano troppo,
vanno aboliti, ma ricco di dati e numeri che dimostrano esattamente l’opposto:
in Italia i servizi pubblici per il lavoro sono incomparabilmente (rispetto
alle Nazioni civili) sotto dimensionati e lasciati a se stessi. Così, negando
ai cittadini in cerca di lavoro servizi fondamentali, ai quali in altre Nazioni
(civili) si dedicano importantissime risorse.
Ultimo
in ordine di tempo tra questo genere frequentatissimo di articoli è quello
pubblicato su Il Messaggero del 6 maggio 2018, a firma di Umberto Mancini e dal
titolo eloquente: “Il flop degli uffici
di collocamento: danno lavoro al 3% dei disoccupati”.
Il
teorema è molto chiaro. La dimostrazione molto, ma molto meno. La lettura dei
dati forniti, al contrario, dà la chiara sensazione che, come sempre, si tratta
di un’analisi preconcetta e tendenziosa, in contrasto appunto con i dati
evidenziati.
Analizziamo
l’articolo per punti. All’esordio di afferma: “i 556 Centri per l'impiego sparsi su tutto il territorio nazionale costano tanto, ma riescono a trovare un
posto solo al 3% di chi si rivolge agli uffici di collocamento. Una percentuale
quasi insignificante, la più bassa in
Europa (Francia e Germania sono sopra il 20%)”.
Benissimo.
Prima affermazione: i centri per l’impiego costano “tanto”. Ma, quanto? L’articolo
lo spiega anche nell’occhiello del titolo: 660 milioni l’anno. Certo, una cifra
molto ragguardevole.
Ma,
in Francia e in Germania, correttamente posti come pietra di paragone per
misurare l’efficienza dei centri per l’impiego, il sistema pubblico del lavoro
quanto costa? Molto meno, è portato a immaginare chi legga l’esordio dell’articolo
de Il Messaggero.
Vediamolo,
allora, ricorrendo ai dati di Eurostat.
Nel
2015 in Italia sono stati spesi poco più di 700 milioni; in Germania 11,6
miliardi; in Francia 5,4 miliardi.
Dunque,
in Germania si spende per i servizi pubblici per il lavoro 16,7 volte più che
in Italia; in Francia 7,7 volte di più.
E,
guarda caso, in Francia ed in Germania, pensate, la percentuale di
intermediazione è maggiore che in Italia. Incredibile, vero?
Sempre
soffermandosi sulla spesa, quest’altra estrazione dati da Eurostat dà l’idea di
quale sia il volume della spesa per i servizi pubblici per il lavoro in Italia
rispetto agli altri partner europei.
Come
si nota, siamo lontani anni luce della Danimarca che vorremmo copiare (con gli
stracci addosso) per la flexsecurity,
ma anche Germania e Fracia ci lasciano drammaticamente indietro.
La
conclusione che trae l’autore dell’articolo è drastica: i centri per l’impiego
in Italia sono “improduttivi”. Ma, non si è nemmeno sognato di confrontare le
risorse che si spendono in Italia con quelle di Germania e Francia.
Né
l’autore fa una piega, quando apprende da Maurizio Del Conte, presidente dell’Anpal
(l’agenzia nazionale per le politiche del lavoro), l’incredibile ulteriore
divario di personale operante in Italia rispetto a Francia e Germania. Nel
corpo dell’articolo, l’autore ci informa che nei centri per l’impiego lavorano
8 mila dipendenti in servizio: un dato, però, sbagliato, perché per effetto
della devastante riforma Delrio delle province, si sono ridotti a poco più di
6.000. In ogni caso, così si esprime Del Conte: “Sul fronte dei Cpi si dovrebbe fare molto di più - nota con amarezza
Del Conte - basti pensare infatti che Francia e Germania hanno rispettivamente 45 mila e 140 mila addetti
a queste funzioni”.
Dunque:
in Francia vi sono 8 volte gli addetti italiani, mentre per la Germania il
rapporto dei dipendenti rispetto all’Italia è di 17 a 1.
La
consapevolezza, derivante dall’intervista al Del Conte, del divario spaventoso
di risorse, almeno dal lato dei dipendenti, tra il sistema pubblico italiano e
quello franco-tedesco, tuttavia, non è servita perché l’autore dell’articolo
ponesse la sua inchiesta sui giusti binari. Occorreva denigrare, e denigrazione
è stata, lasciando il confronto sulla produttività, senza minimamente
verificare quali siano le ragioni che in Italia, lasciando i servizi pubblici a
stecchetto, ledono, alla fine, i diritti dei lavoratori.
L’articolo
doveva dimostrare che i centri per l’impiego non servono: dunque, i dati si
omettono e si distorcono, al solo scopo di “fare notizia”.
Il
tutto, per altro, e per stessa ammissione del giornalista nell’articolo, in
assenza di dati davvero attendibili sulle intermediazioni. Leggiamo, infatti,
nell’articolo che “Statistiche ufficiali
comunque non ce ne sono perché non esiste un filo diretto tra il ministero del
Lavoro e gli ex uffici del collocamento”. Il 3% di intermediazione è, da
sempre, solo una “stima”, di fonte Isfol. Che, da sempre, precisa anche che le
agenzie di somministrazione intermediano circa il 6-7%: il doppio dei servizi
pubblici, ma comunque una cifra ancora certamente non elevatissima. Ancor meno
performante se si considera che mentre i servizi pubblici esercitano una
funzione universale, le agenzie private ovviamente circoscrivono il mercato
alle sole aziende clienti (tendenzialmente quelle medio-grandi) e la durata
media delle somministrazioni di lavoro è di 13 giorni: giusto le sostituzioni
ferie.
Torniamo
alle fonti della rilevazione del 3%. Come sottolineato dallo stesso articolo,
non esistono statistiche ufficiali. Infatti, i sistemi informativi non sono in
grado di tracciare se un lavoratore ha reperito lavoro grazie all’intermediazione
di un centro per l’impiego. Dunque, le rilevazioni sono desunte da “interviste”.
Leggiamo,
allora, la fonte alla quale ha attinto l’articolo de Il Messaggero: si tratta
di uno “studio”
di Federcontribuenti, preso sostanzialmente per buono e base delle storture
informative dell’articolo. Ecco l’assunto: “solo
il 3% degli occupati dichiara di
aver trovato occupazione tramite un centro”.
Quanto
dichiarato dai lavoratori è estremamente importante. Ma, affidarsi a questo
strumento per determinare concretamente l’efficacia delle politiche del lavoro
è un po’ poco: un lavoratore potrebbe aver ricevuto da un centro per l’impiego
quell’orientamento, quell’informazione, quella conoscenza grazie alla quale poi
trova lavoro e, sulla base della propria elaborazione attiva, ritenere che l’attività
del centro per l’impiego sia stata inutile e, dunque, dichiarare di aver
reperito autonomamente il lavoro, anche se in realtà un indirizzo ed una spinta
del servizio pubblico vi siano state.
Nella
realtà, lo studio di Federcontribuenti ha un fine ben preciso, del quale l’articolo
de Il Messaggero si fa latore acritico. Il fine è dirottare i soldi (pochi,
pochissimi, in confronto con Francia e Germania) investiti nei servizi pubblici
per il lavoro, alle imprese. Leggiamo: “Eliminando
questi centri per l’impiego e tutto il castello burocratico e gerarchico potremmo
accantonare ogni anno un miliardo di euro da investire nelle imprese che danno
occupazione”.
Sembra
evidente che in Francia e Germania, ove le cifre investite nelle politiche
attive per il lavoro sono quelle descritte sopra, o non sanno far di conto,
oppure hanno voglia di gettare i soldi dalla finestra, così, per capriccio.
Come
sempre, in Italia, di fronte alla diagnosi di problemi operativi dei servizi
pubblici, la reazione è non cercare di comprendere le ragioni del gap operativo
(che nel caso dei servizi per il lavoro è in gran parte da ricondurre ad un
enorme sottofinanziamento), ma urlare al vento che occorre abolire, cancellare,
eliminare. Lo si è fatto con le province, con risultati devastanti.
La
Federcontribuenti si lagna della spesa per i servizi per il lavoro, ma non
considera minimamente che dovere dello Stato sarebbe di incrementarla, per
assicurare ai cittadini il diritto ad avere l’evidenza di opportunità di
lavoro, pubblicamente conoscibili.
La
Federcontriebuenti si colloca, evidentemente, dalla parte di chi ritiene
ancora, nel 2018, che la “mano invisibile” del mercato possa da sola generare
comportamenti virtuosi della domanda e dell’offerta. La storia insegna che non
è così, ma si insiste.
Lo
studio su cui si è basato Il Messaggero, non a caso esordisce ricordando il
caso di un’azienda di Padova, alla quale “è
bastato mettere l’annuncio sui social per ricevere centinaia di curriculum”.
Anche in questo caso, la visione è totalmente distorta e sbagliata.
Evidentemente,
ci si riferisce al caso dell’azienda Antonio Carraro, di Campodarsego, che sul
Gazzettino di Padova aveva innalzato al cielo altissime grida di dolore contro
i giovani “fannulloni” e choosy, che
non accettavano le proposte di lavoro.
Il
Gazzettino di Padova, però, per una volta non si è limitato a rilanciare la
solita notizia (molto spesso fake,
come nel caso di specie) dell’imprenditore “che darebbe chissà quanto lavoro ma
sono i fannulloni a non voler lavorare” ed è andato a fondo. Scoprendo che le
condizioni di lavoro in azienda sono molto difficili, con turni continui e
personale regolarmente sotto organico e, soprattutto, sotto pagati.
L’azienda
ha poi anche compreso (sulla vicenda, è opportuno leggere qui
la ricostruzione completa) quanto controproducente fosse stato il lancio sui
giornali della ricerca e l’utilizzo dei social: infatti, è stata sommersa da
centinaia di curriculum, molti dei quali ovviamente cestinati senza nemmeno
essere stati presi in considerazione.
Questo
è l’errore fondamentale dell’impostazione di Federcontribuenti e de Il Messaggero
e chiunque si approcci al problema dell’intermediazione domanda/offerta di
lavoro solo in termini populistici e demolitori.
Secondo
l’articolo del giornale l’intermediazione assicurata dai centri per l’impiego
dà vita ad un numero di assunzioni “così
modesto che viene da chiedersi perché andare avanti su questa strada.
Sopratutto in un epoca dove spesso è sufficiente mettere un annuncio sui social
per ricevere centinaia di curriculum. E
dove il passaparola resta ancora il canale principale per trovare un posto (70%
dei casi)”.
Ma,
non ci si rende conto che il vero problema è proprio questo: l’assenza, in
Italia, di un sistema che canalizzi in modo strutturato, aperto, pubblico e
conoscibile la domanda di lavoro (le aziende), affinchè vi possa essere un efficiente
incontro con l’offerta (i lavoratori).
La
prevalenza del passaparola è esattamente il segnale dell’inefficienza di un
mercato che resta opaco, chiuso, ostico: le imprese cercano solo in una cerchia
ristretta, senza rivelare appieno le condizioni di lavoro, senza indicare le
competenze, fidando di poterle “svelare” e “conoscerle” con la funzione
sciamanica del colloquio di lavoro, considerato il mezzo, divinatorio, che
consente sempre all’imprenditore di trovare davvero la persona giusta per il
fabbisogno giusto.
Il
servizio pubblico, che non deve ovviamente soppiantare l’incontro spontaneo,
deve assolvere esattamente al compito di correggere l’opacità e la chiusura del
mercato ed evitare che si ingenerino gli equivoci della ditta di Campodarsego.
Una domanda di lavoro pubblica, gestita da soggetti esperti, i centri per l’impiego
come anche le agenzie private, consente a chi dispone delle banche dati dei
lavoratori di preselezionare quelli che abbiano requisiti soggettivi (vicinanza
logistica, mezzi di trasporto, titolo di studio, esperienze) che li rendano
appetibili per l’azienda, sondandone preventivamente la disponibilità e poi
avviarli, in rose di candidati concordate, ai colloqui, così da evitare all’azienda
il cilecca delle inserzioni, le lamentazioni controproducenti sui giornali, o
il diluvio incontrollabile di curriculum, cioè tutto ciò che, appunto, lascia
il mercato inefficiente, antiquato, incapace di superare le cause del mismatching.
Federcontribuenti
esprime la propria ricetta: “Non dobbiamo
incrementare il personale nei centri di impiego, dobbiamo rendere produttivi
quelli esistenti tagliando a monte, nella fascia dei dirigenti, le risorse”
aggiungendo “il fattore politico,
burocratico e di intermediazione dai centri per l’impiego per creare un fondo
nazionale per il sostegno all’occupazione pari a 800 milioni l’anno. I CpI
possono trovare spazio anche in un ufficio comunale, ce ne sono sempre di
inutilizzabili, con un risparmio notevole per lo Stato. Dopodiché il personale
del CpI non dovrà fare altro che numerare i disoccupati, mappare le imprese sul
territorio e agire concretamente nel vuoto che si è creato tra l’offerta e la
domanda di lavoro”.
Sono
soluzioni totalmente sbagliate ed anzi controproducenti, frutto di analisi del
tutto fuori mira.
Come
dimostrano proprio gli esempi di Germania e Francia, il presidio molto
complesso del mercato del lavoro esige forze in campo molto, ma molto, maggiori
di quelle presenti in Italia: dunque, il personale dei centri per l’impiego
deve necessariamente essere aumentato. E non è detto che ciò debba avvenire con
assunzioni nuove, potendosi ricorrere
alla razionalizzazione del personale in servizio, che nella PA, come è noto, è
molto mal distribuito. E’ del tutto velleitario pensare di ricavare risorse dal
taglio ai dirigenti, che sono 4 gatti: non si otterrebbe che un pugno di
mosche.
Soprattutto,
è deleterio pensare di distogliere quel pochissimo che si spende per le politiche
attive per il lavoro, dandolo alle aziende. Federcontribuenti dimostra di
credere davvero che gli incentivi alle aziende siano il sistema per rilanciare
il lavoro. Ma, proprio la gragnuola di incentivi per le assunzioni disposta dalla
legge di stabilità del 2015, per un costo di circa 20 miliardi, ha dimostrato
quanto controproducente sia questa spesa pubblica.
Come
è noto, si previdero sgravi triennali per poco più di 8000 euro per le assunzioni.
Un costo, quindi, pubblico, di 24.000 euro, cioè lo stipendio medio di un
dipendente: è come se lo Stato avesse assunto per un anno dipendenti,
distaccandoli alle aziende. Nulla di meno liberale e quanto di più statalista
di possa immaginare. Per altro, gli sgravi non sono stati condizionati a nulla:
nemmeno alla dimostrazione che le assunzioni beneficiate garantissero una
crescita occupazionale dell’azienda.
Di
fatto, la politica degli sgravi finisce solo per caricare sul pubblico parte
dei costi delle aziende, spesso incentivando assunzioni che esse avrebbero
attivato comunque.
Azzerando
i centri per l’impiego così da dirottare la spesa verso questi incentivi, si
renderebbe il mercato del lavoro ancora più zoppo ed inefficiente: sparirebbe
ogni anche minima attività di aiuto alla ricerca attiva di lavoro delle
persone, appiattendo tutto sulla ricerca autonoma delle aziende. Il che
potrebbe anche non essere un male. Ma, se il mercato del lavoro per il 70% è
dominato dalla ricerca autonoma, eppure l’incontro tra domanda ed offerta è
così difficoltoso, questo vorrà pur dire qualcosa, o no? E vuol dire che il
sistema “spontaneo” delle aziende non funziona o, quanto meno, è affetto dai
tipici problemi di scardinamento di ogni mercato mal regolamentato e non
guidato dalla presenza di un interlocutore pubblico.
Gli
sgravi vanno benissimo, se però siano condizionati. Lo Stato dovrebbe
potenziare eccome i servizi per il lavoro pubblici e contestualmente innovare
le politiche del lavoro, inducendo le aziende a manifestare la domanda, invece
di creare inutile scompiglio come quella di Campodarsego. Allora, non sarebbe sbagliato
pensare di condizionare gli sgravi, oppure incrementi degli sgravi, a
comportamenti proattivi delle aziende, destinandoli a quelle che abbiano
attivato, a fianco della libera ricerca spontanea, canali di ricerca ufficiali,
pubblici o privati, capaci di rendere conoscibile la domanda e di scatenare le
virtuose azioni di ricerca, filtro dei curriculum, preselezione ed avvio. Una
domanda che finalmente esce dall’oscurità, inoltre, serve per orientare la
formazione, per comprendere e prevedere l’andamento del lavoro nei mercati,
programmare le politiche sia attive che passive, sia aziendali.
Pensare
solo di abolire, chiudere e distruggere mirando al “bottino” dei soldi, non
porta da nessuna parte. Le indicazioni di Federcontribuenti risulterebbero meno
fuori mira se, almeno, chiedesse allo Stato di eliminare la spesa dei centri
per l’impiego, per ridurre le tasse o il debito pubblico, non per mantenere in
piedi egualmente una spesa pubblica che, se rivolta agli incentivi, risulterebbe
ancor più improduttiva.
Infine
un’annotazione: tanto le indicazioni di Federcontribuenti, quanto quelle dell’articolo
de Il Messaggero (che le riprende in gran parte) sono spesso profondamente
errate. Abbiamo visto sopra che Federcontribuenti esprime il desiderio che i
centri per l’impiego siano ospitati in uffici dei comuni, così da ottenere un
risparmio per lo Stato. Chi ha scritto simile indicazione evidentemente ignora
che da sempre le sedi dei centri per l’impiego sono messe a disposizione
proprio dai comuni. E se le sedi medesime sono, spesso, al limite della
fatiscenza, con totale mancanza di rispetto per i lavoratori e le aziende che
ne fruiscono, la responsabilità va cercata proprio in quegli enti.
1) togli le risorse al servizio pubblico
RispondiElimina2) attendi che il servizio smetta di funzionare
3) denuncia il mancato funzionamento del servizio
4) chiudi il servizio e dai le risorse ai privati
Analisi stringata, ma efficace. Concordo, il disegno di eliminazione dei servizi pubblici per l'impiego è in cantiere da anni!
EliminaE poi parliamo di fake news. Ma questa manipolazione delle info come dovremmo chiamarla. Grazie dott Oliveri. Fa bene a contrastare questi falsificatori.
RispondiEliminaBell'articolo!
RispondiEliminaGli addetti ai lavori lo sanno, in Italia non si spende nei Servizi. Non sono d'accordo con l'autore quando denuncia lo smembramento delle Province operato da Del Rio. L'efficacia dei servizi per il lavoro dipende anche da un problema di governance, il livello delle province era troppo frammentato per gestire una funzione così importante. Meglio la regionalizzazione, e dirò di più, la riforma costituzionale di Renzi aveva il merito di accentrare le politiche attive a livello statale. Sono completamente d'accordo invece sulla condizionalità estesa anche alle aziende, e non solo ai lavoratori. Chi prende contributi dallo Stato deve impegnarsi, o dichiarando i posti vacanti (imprese) o nella ricerca attiva del lavoro (disoccupati).
RispondiEliminaOccorre ricordare che gli operatori pubblici lavorano spesso in condizioni di precarietà e di difficoltà non solo finanziarie. Attualmente i CPI sono di competenza delle regioni; i dipendenti sono ancora incardinati agli organici delle province e ricevono le risorse finanziarie dal Ministero del Lavoro e P.S., dopo che gli stessi soldi vanno in "gita" tra le ragionerie di Stato, regioni e province per poi approdare, finalmente, agli operatori e agli uffici. Ma costoro che in televisione e sui giornali denigrano servizi ed operatori pubblici...conoscono la missione che hanno CPI? Sanno che la deregolamentazione delle norme ha cancellato i vecchi uffici di collocamento e assegna sempre di più ad altri soggetti (privati) le risorse pubbliche e la gestione di consistenti fette di politiche attive? Sanno che il lavoro non si trova con le chiacchiere o con norme asfittiche scritte a tavolino, utilizzando sistemi informativi, spesso, obsoleti con i quali si pretende di innovare senza avere la materia prima:il LAVORO? Grazie per questa opportunità , Raffaele Bennardo.
EliminaCon tutto il rispetto la Riforma Renzi era una vera iattura. Far passere azioni che possono benissimo esser risolte da norme ordinarie con pindariche pseudo riforme che andavano a complicare un testo semplice e ricco di implicazioni. Come afferma infatti anomico (20.49) in pochi sanno davvero come funzionano le dinamiche tecniche ed economiche delle politiche attive e molti ci fanno o ci sono nel comunicarle in modo scorretto
EliminaPer quanto riguarda poi la Delrio stendiamo un velo pietoso. Avviare una pseudo riorganizzazione territoriale anticipandola per legge ordinaria in attesa di una ipotetica incerta riforma costituzionale che poi è stata bocciata, a ben donde, dagli italiani.... tanto chi capisce nulla in Italia della gerarchia delle fonti normative..?
Qui non si tratta di tifoserie ma di merito visto anche che la maggior parte poi dei costituzionalisti a suo tempo ha argomentato e portato le ragioni di opposizione di quello che al contrario era una pessima riforma costituzionale.
Ovviamente i più guardano sempre le cose in modo superficiale seguendo questa o quella tifoseria ideologica alla cui base, spiace dirlo, ci sono davvero fake news come ha detto un commentatore.
Sono una orientatrice di un centro impiego del Centro Italia e confermo completamente questa analisi puntuale e perfetta. Grazie di essere andato più a fondo dott. Olivieri. Oggigiorno nessuno più cerca, confronta approfondisce e si pone domande, è tutto così rapido che ogni cosa passa inosservata e ci ritroviamo con la testa china sul cellulare a mandare i like su notizie fake senza accorgerci nemmeno di dove stiamo mettendo i piedi.
RispondiEliminaVolevo precisare che i Centri per l'impiego sono Uffici regionali solo sulla carta. Di fatti restano nella maggior parte dei casi delegati alle Province o meglio a quel che è rimasto delle Province, che non considerandoli propri uffici, li amministrano con sufficienza e senza investire tempo e risorse, a scapito dei lavoratori e degli utenti.
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