Particolarmente rilevante è il riferimento alla necessità, da parte del giudice, di fornire delle norme una lettura costituzionalmente orientata, elemento, questo, che gli ha evidentemente consentito di non porre la questione di legittimità costituzionale dell'articolo 13 del d.l. 113/2018, convertito in legge 132/2018:
E' bene precisare che non poteva non spettare al giudice tale specifica interpretazione della norma. Il comune di Bologna ha operato correttamente, applicando la legge e la circolare del Ministero dell'Interno 18 ottobre 2018, n. 15, la quale ultima in particolare ha configurato la previsione di cui al nuovo comma 1-bis dell'articolo 4 del d.lgs 142/2015 a mente del quale il permesso di soggiorno per richiesta asilo "non costituisce titolo" per la residenza sarebbe da considerare un divieto.
Gli uffici comunali bolognesi non si sono allineati ad iniziative di "disapplicazione" per "disobbedienza civile" disordinatamente attuate da alcuni sindaci, ed ha consentito di dare corso ad un corretto percorso attuativo ed interpretativo, coinvolgente l'intervento necessario di un giudice, che potrà anche essere valutato in secondo grado, laddove il Viminale decidesse di presentare ricorso (il comune di Bologna pare che invece non intenda proseguire oltre nella vertenza).
La lettura offerta dall'ordinanza, nonostante come ovvio faccia stato solo tra le parti, potrà essere ora elemento interpretativo rilevante, sul quale basarsi da parte degli altri comuni, per valutare la possibilità di consentire l'acquisizione, sulla base di un'istruttoria tecnica corroborata da una pronuncia giurisdizionale che non può essere certo ignorata.
L'ordinanza, mentre è da condividere nello spirito e nella riconduzione della norma ai principi costituzionali e dei trattati, pare tuttavia debole nella parte in cui riconnette alla residenza l'esercizio dei diritti dei richiedenti asilo:
In effetti, il decreto sicurezza sostituisce il comma 3 dell’articolo 5 del d.lgs 142/2015, col seguente: “l’accesso ai servizi previsti dal presente decreto e a quelli comunque erogati sul territorio ai sensi delle norme vigenti è assicurato nel luogo di domicilio individuato ai sensi dei commi 1 e 2”. La relazione illustrativa del decreto specifica che non si “pregiudica l’accesso ai servizi riconosciuti dalla legislazione vigente ai richiedenti asilo (iscrizione al servizio sanitario, accesso al lavoro, iscrizione scolastica dei figli, misure di accoglienza) che si fondano sulla titolarità del permesso di soggiorno”.
Per quanto concerne, in particolare, l’accesso al lavoro, anche nella legislazione attualmente vigente non occorre la residenza per svolgere attività lavorativa; la residenza è necessaria solo per lo status di disoccupato. Tuttavia, poiché effetto del decreto è di impedire ai richiedenti asilo, finché non sia approvata definitivamente la richiesta, di ottenere la residenza, questa non potrà ovviamente considerarsi, esclusivamente per loro, requisito ai fini dell’inserimento nelle liste dei disoccupati. D’altra parte, i servizi previsti per i richiedenti asilo dal d.lgs 142/2015 comprendono anche il lavoro: i servizi per il lavoro quindi potrebbero essere compresi tra quelli da assicurare nel luogo del domicilio fondati sul permesso di soggiorno.
I richiedenti asilo mantengono, anche nella vigenza del "decreto sicurezza" intatto il diritto di chiedere questi servizi, che avranno a presupposto non più la residenza, bensì il soggiorno.
Nè appare persuasivo il riferimento alla vigenza dell'articolo 6, comma 7, del d.lgs 286/1998, non espressamente abolito. E' chiaro che il nuovo comma 1-bis dell'articolo 4 del d.lgs 142/2015 conduce - nell'ottica del Legislatore del 2018 - ad un'incompatibilità tra la disposizione di legge e quella regolamentare, di fronte alla quale questa non può che soccombere.
E', dunque, appunto l'interpretazione costituzionalmente orientata del complesso ordinamentale la chiave convincente della lettura fornita dall'ordinanza di Bologna.
Che, oltre tutto, fornisce una visione molto interessante della realtà dei fatti. Disquisendo sulla circostanza che la residenza possa essere o meno connessa ad un "titolo" (è chiaro che il soggiorno non è un titolo, ma una condizione di fatto; tuttavia, senza il permesso di soggiorno tale ultimo soggiorno è senza titolo e, quindi, non consente l'acquisizione della residenza...), l'ordinanza evidenzia come il soggiorno dello straniero richiedente asilo può durare anche molti anni:
Questa constatazione di fatto pone obbligatoriamente una domanda: qual è, concretamente, l'utilità di una norma che mira a privare il permesso di soggiorno per richiesta asilo quale presupposto per l'acquisizione della residenza, se in ogni caso il soggiorno stesso comunque consente, come pure dispone il decreto sicurezza, l'accesso a tutti i servizi del territorio? Non è comunque semplicemente sul piano pratico avere contezza precisa di dove risiedano i richiedenti asilo, anche banalmente a fini statistici e così consentire in aggiunta un miglior computo di regolari ed irregolari, evitando il balletto delle cifre?
Prudenza ed opportunità, oltre che rispetto dei principi costituzionali, consiglierebbero un ripensamento della questione connessa all'acquisizione dell'anagrafe, anche solo per scongiurare il diffondersi di un contenzioso, magari spinto da comuni che intendano arroccarsi sulla lettura rigida del decreto e della circolare, del quale francamente non si sente la necessità.
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