Sullo straordinario spettante nel caso di trasferta, l’Aran ha
espresso pareri che appaiono in chiaro conflitto col d.lgs 66/2003.
L’Agenzia pare condotta in un (grave) errore nel considerare il
concetto di “attività lavorativa”, che la porta poi a
conclusioni oggettivamente non condivisibili.
Andiamo con ordine. L’articolo 41, comma 1, lettera d), del Ccnl
14.9.2000 dispone: “il compenso per lavoro straordinario, nel
caso che l’attività lavorativa nella sede della
trasferta si protragga per un tempo superiore al normale
orario di lavoro previsto per la giornata. Si considera, a tal fine,
solo il tempo effettivamente lavorato, tranne
che nel caso degli autisti per i quali si considera attività
lavorativa anche il tempo occorrente per il
viaggio e quello impiegato per la sorveglianza e custodia del mezzo”.
Il punto di partenza contrattuale è chiaro:
- per gli autisti tutta l’attività lavorativa che vada oltre il normale orario di lavoro della giornata, comprensivo di viaggio e sorveglianza e custodia è lavoro straordinario;
- per gli altri lavoratori, può essere lavoro straordinario solo l’attività lavorativa svolta nella sede di trasferta eccedente l’orario ordinario di lavoro, non computando il viaggio.
La domanda che ci si pone, allora, è: quale tempo di viaggio non
deve essere computato? Sia l’andata, sia il ritorno o solo il
ritorno, nel caso di trasferta a cavallo tra la fine dell’orario
normale di lavoro e un’attività lavorativa ulteriore.
L’Aran fornisce una risposta nell’orientamento RAL010: “se
il lavoratore parte alle ore 12; raggiunge la sede di trasferta alle
ore 14; partecipa ad una riunione dalle 14 alle 17; rientra in sede
alle ore 19; in una giornata che prevede un normale orario di lavoro
(dalle ore 8 alle ore 14), ha diritto ad una sola ora di
lavoro straordinario. Nell'esempio citato, il conteggio è
il seguente:
A) prestazione lavorativa effettuata prima di partire = 4 ore
(dalle 8 alle 12);
B) orario d’obbligo giornaliero = 6 ore
C) ore di viaggio effettuate durante il normale orario di lavoro,
ricompreso nel periodo di trasferta, che non possono essere
considerate, ai fini dello straordinario, come effettivamente
lavorate = 2 ore (dalle 12 alle 14);
D) prestazione lavorativa effettuata nella sede di trasferta = 3
ore (dalle 14 alle 17);
E) ore di viaggio effettuate al di fuori del normale orario di
lavoro, utili ai fini dell’indennità di trasferta ma che non
possono essere considerate, ai fini dello straordinario, come
effettivamente lavorate = 2 ore (dalle 17 alle 19);
F) effettiva attività lavorativa della giornata = 7 ore pari ad A
+ D
G) la differenza F - B = 1 ora è l’eccedenza dell’effettiva
attività lavorativa rispetto all’orario d’obbligo giornaliero
per la quale può essere corrisposto lo straordinario”.
Nella lettera C) della risposta fornita dall’Aran abbiamo
evidenziato in grassetto l’errore interpretativo nel quale è
incorsa l’Agenzia. Essa ritiene che le ore di viaggio effettuate
durante il normale orario di lavoro non possono considerarsi come
“effettivamente lavorate” ma solo “ai fini dello
straordinario”.
Cioè, l’Aran ritiene che lo straordinario maturi solo se in ogni
caso il dipendente svolga un’effettiva attività di lavoro di
almeno 6 in quel giorno; e per “effettiva attività” di lavoro
l’Agenzia evidentemente intende l’espletamento delle mansioni
svolte.
Sulla base di questa opinione, l’esempio finisce per considerare
come straordinario solo un’ora, nonostante l’effettiva attività
lavorativa svolta nella riunione pomeridiana sia di 2 ore ulteriori e
successive alla conclusione dell’ordinario orario 8-14.
Questa conclusione non può essere condivisa, perché non è
rispettosa delle disposizioni del d.lgs 66/2003.
Leggiamone le illuminanti definizioni contenute nell’articolo 1,
comma 2:
“Agli effetti delle disposizioni di cui al presente decreto si
intende per:
a) "orario di lavoro": qualsiasi periodo in cui il
lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e
nell'esercizio della sua attività o delle sue funzioni;
[...]
c) "lavoro straordinario": e' il lavoro prestato oltre
l'orario normale di lavoro cosi' come definito all'articolo 3”.
Andiamo, allora, all’articolo 3 del d.lgs 66/2003: “L'orario
normale di lavoro e' fissato in 40 ore settimanali”, che per il
comparto Funzioni locali è di 36 ore.
Conseguentemente è lavoro straordinario tutto quello prestato oltre
le 36 ore di lavoro ordinarie.
Quindi, contrariamente a quanto afferma l’Aran, se l’attività
lavorativa svolta nell’esempio da essa considerato è di 2 ore e
queste ore si aggiungono alle 36 settimanali svolte, esse non possono
che essere tutte
straordinario e non solo una.
Esaminiamo le motivazioni opposte,
come possibile prova contraria. Soffermiamoci, a questo scopo, sul
concetto di “lavoro effettivo”.
Ora, nel testo dell’articolo 1,
comma 2, lettera a), del d.lgs 66/2003 di “lavoro effettivo” non
se ne parla assolutamente. Il riferimento al “tempo effettivamente
lavorato”, concetto analogo a quello di “lavoro effettivo” lo
si reperisce nell’articolo 41, comma 1, lettera d), del
Ccnl 14.9.2000. Attenzione alle date: il Ccnl noto anche come “code
contrattuali” è del 2000; il d.lgs 66 è del 2003, di tre anni
successivo.
Non è questione di poco. Si ha un
disallineamento tra le indicazioni del Ccnl e quelle della normativa
vigente.
Quale prevarrebbe, allora, tra le
due? Attenzione: il d.lgs 66/2003 recepisce normativa comunitaria, le
direttive 93/104/CE e 2000/34/C. Si tratta di disciplina di natura
legislativa, che prevale sulla contrattazione collettiva, abilitata
ad intervenire sulle materie trattate solo nei limiti in cui la norma
primaria lo consenta. Ed essa non contiene nessuna disposizione che
permetta ai Ccnl di definire l’orario ordinario di lavoro in modo
diverso da quanto disposto dalle direttive europee e dal decreto
legislativo di recepimento: i Ccnl possono solo intervenire sulla
durata massima della prestazione lavorativa e sulle modalità di
esecuzione del lavoro straordinario.
Torniamo, allora, all’articolo 1,
comma 2, lettera a), del d.lgs 66/2003: può forse essere letto nel
senso che laddove qualifica l’orario normale di lavoro come “
qualsiasi periodo in cui
il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e
nell'esercizio della sua attività
o delle sue funzioni”
per
“esercizio delle attività” intenda proporre proprio il “lavoro
effettivo”?
La
risposta appare necessariamente negativa. Esemplifichiamo proprio con
riferimento ad una trasferta/missione. Se il dipendente è mandato
dal datore in trasferta, non compie, ovviamente, il viaggio per
propria valutazione autonoma, né la trasferta può considerarsi
scollegata dalle obbligazioni che il lavoratore ha contratto col
datore. Il lavoratore dà esecuzione ad un ordine che gli impartisce
il datore, cioè di recarsi in una sede diversa da quella ordinaria
di lavoro, per svolgere lì una certa attività.
E’
lecito affermare che laddove il lavoratore compia il viaggio
necessario a raggiungere il luogo sede della trasferta non sia “a
disposizione del datore di lavoro”? Ovviamente no. Ma, nel tempo di
viaggio, il lavoratore non sta compiendo effettivo lavoro. E
tuttavia: se il viaggio è funzionale alla trasferta, come può non
essere computato nel normale orario di lavoro?
Infatti,
secondo l’Aran, il viaggio effettuato nel corso dell’orario
ordinario di lavoro (nell’esempio citato prima, quindi, tra le 8 e
le 14) non
implica riduzione oraria. Il Parere RAL 010 infatti recita: “le
ore di viaggio
[…] sono computate nel normale orario di
lavoro, nel senso che
non devono essere recuperate (un dipendente inviato in trasferta in
una giornata in cui è tenuto a lavorare dalle 8 alle 14, che parta
alle 8 e rientri alle 14, impiegando due ore di viaggio tra andata e
ritorno, non deve recuperare due ore di lavoro)”.
Ma, se sono computate nel normale
orario di lavoro, concorrono alle 36 dovute settimanalmente; di
conseguenza, se l’attività lavorativa svolta nella sede
destinazione della trasferta è di 2 ore, queste 2 ore si aggiungono
alle 36 dovute e, pertanto, ai sensi del d.lgs66/2003 sono
integralmente straordinario. Non può sottrarsi un’ora, perché in
questo modo il datore illecitamente non riconoscerebbe parte del
normale orario di lavoro, che sarebbe di fatto ridotto a 35, unico
modo per considerare lo straordinario svolto di 1 ora e non di 2.
Il problema è che l’articolo 1,
comma 2, lettera a), del d.lgs 66/2003 non può in alcun modo essere
letto nel senso che l’esercizio delle attività ivi richiamate
corrisponda al concetto di “lavoro effettivo”. Il viaggio,
essendo comandato e funzionale alla trasferta, non può non
considerarsi vero e proprio “esercizio delle attività” del
lavoratore, anche se si tratta di un’attività di fatto estranea
allo svolgimento delle sue normali mansioni; ma, il datore di lavoro
dispone di un potere di jus variandi, funzionale a flessibilizzare la
prestazione e ben è possibile considerare tempo e modo di
svolgimento di un viaggio finalizzato alla trasferta come ordine di
svolgere la funzione attraverso anche il viaggio connesso.
In ogni caso, sul punto ha tolto
qualsiasi dubbio la Cassazione, Sezione Lavoro, con
sentenza20.5.2017, n. 13466:
“La normativa del 2003
riprende dal diritto europeo la definizione di orario di lavoro ed
introduce una disciplina che va al di là dei limiti tematici del
diritto dell’Unione. La definizione è così formulata: “Agli
effetti delle disposizioni del presente decreto si intende per a)
orario di lavoro qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al
lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio della
sua attività o delle sue funzioni”. La formula,
come è stato evidenziato da Cass. n. 1839/2012 e n. 1703/2012, è
volutamente ampia e tale da includere nella nozione non solo
l’attività lavorativa in senso stretto, ma anche le operazioni
strettamente funzionali alla prestazione. A questo fine è necessario
che il lavoratore sia “a disposizione” del datore di lavoro, cioè
soggetto al suo potere direttivo e disciplinare”.
Non c’è nessun dubbio che nel
caso della trasferta ordinata al dipendente, questo compia
un’operazione funzionale alla prestazione da rendere in altro
luogo, restando “a disposizione” del datore che ne ha comandato
l’espletamento dell’attività in luogo diverso dalla sede
normale. Se, infatti, il lavoratore non si recasse nel luogo
comandato con l’ordine di trasferta, incorrererebbe nel potere
disciplinare del datore.
Quindi, come si osserva nel primo
motivo di doglianza oggetto dell’ordinanza
della Cassazione Sezione
lavoro 9.10.2018,
n. 24828 ed ivi
integralmente accolto, occorre definitivamente prendere atto che
l’articolo 1, comma 2, lettera d), del d.lgs 66/2003 ha soppiantato
l’articolo 1 del R.D. 692/1923 il quale stabiliva: “La
durata massima normale della giornata di lavoro degli operai ed
impiegati nelle aziende industriali o commerciali di qualunque
natura, anche se abbiano carattere di Istituti di insegnamento
professionale o di beneficenza, come pure negli uffici, nei lavori
pubblici, negli ospedali ovunque è prestato un lavoro salariato o
stipendiato alle dipendenze o sotto il controllo diretto altrui, non
potrà eccedere le otto ore al giorno o le 48 ore settimanali di
lavoro effettivo”.
La nozione restrittiva di “lavoro
effettivo” enunciata dal R.D. 692/1923 è stata superata e non può
considerarsi più applicabile, né in sede operativa, né tanto meno
in sede interpretativa. L’Aran farebbe bene ad aggiornare e
correggere al più presto il proprio orientamento, contrario alla
disciplina europea, come correttamente interpretata dalla Cassazione.
La scelta di non considerare "lavoro" (ai fini dello straordinario o del recupero ore) le ore viaggio è a mio parere assurdo: durante il viaggio non sono libero: nel tempo libero posso andare al bar, lavare l'auto, accudire un figlio, ecc. Quindi se un datore di lavoro mi inviasse per 5 giorni di fila in trasferta a 400 km di distanza facendomi fare il pendolare con partenza alle 4 del mattino e rientro a mezzanotte io teoricamente non avrei fatto alcuno straordinario.
RispondiEliminaE, paradossalmente, se durante il viaggio il dipendente si fermasse per una commissione non correlata al lavoro (che so, una sosta all'IKEA per comprare dei mobili per se) incorrerebbe nella falsificazione di presenza in servizio, pur essendo tali ore non computate nell'orario di lavoro?