di
Angelo Maria Savazzi
Siamo costantemente pervasi dal concetto di meritocrazia che dovrebbe essere un valore verso il quale tendere e che però viene utilizzato quasi sempre solo nei confronti del lavoro pubblico e spesso con riferimento a quelle patologie del rapporto di lavoro che non sono, tuttavia, una caratteristica peculiare del solo rapporto di lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche.
Quante volte assistiamo ad una gestione sconsiderata di aziende
private portate al fallimento (magari anche a seguito del sostegno pubblico che,
in alcuni casi, costituisce la ragione stessa della loro esistenza) e quante
volte assistiamo ad una gestione arbitraria degli strumenti motivazionali e degli
incentivi nelle aziende private, completamente sganciata dalla meritocrazia e, invece,
ancorata al rapporto di fidelizzazione che si crea tra valutatore e valutato e che
emargina coloro che sono veramente meritevoli?
Fermo restando che un’osmosi completa tra pubblico e privato è
solo un vagheggiare delle idee perché non potrà mai esserci così come non è presente
nei sistemi che spesso inappropriatamente vengono presi come esempio di tale
presunta osmosi. Le logiche che governano i due sistemi sono completamente
diverse, il privato è governato dal mercato mentre il settore pubblico è
governato dal meccanismo del consenso che è alla base del sistema democratico,
e sono diverse le finalità (il profitto per i proprietari del capitale in un
caso, l’utilità sociale delle politiche pubbliche nell’altro). Nel settore
pubblico occorre dare conto dell’utilizzo delle risorse alla comunità
amministrata, nel settore privato il “proprietario” con i suoi soldi fa quel
che vuole. Nel settore pubblico vi sono regole e vincoli che sono posti a
tutela dell’interesse pubblico e generale, che non sono minimamente
ipotizzabili nel settore privato. Stefano Rodotà lo scrisse nel volume “Il
terribile diritto”: “la democrazia si ferma sulla soglia delle aziende
private”, e questo è l’elemento che rende impossibile pensare ad una
privatizzazione piena della pubblica amministrazione.
Nei diversi comparti del settore pubblico abbiamo un modo diverso
di intendere la meritocrazia come se ci fossero ambiti nei quali la meritocrazia
funziona a prescindere (le Università) e ambiti nei quali invece la
meritocrazia bisogna dimostrare di saperla applicare magari sulla base delle
indicazioni che forniscono coloro che vengono da quegli ambiti dove la
meritocrazia è, invece, un paradigma corporativo e non selettivo delle migliori
competenze e attitudini.
Parlo delle Università verso le quali, lo dico per evitare di
essere frainteso, nutro il massimo rispetto, che mi hanno formato e mi hanno
consentito di entrare in contatto con docenti di alto profilo a cui devo, oltre
alla formazione, gli insegnamenti che mi hanno portato, oggi, ad essere più
consapevole dell’organizzazione e del lavoro pubblico.
Dopo averne sentito parlare ho assistito ai colloqui per l’accesso
ai dottorati di ricerca in una Università ed ho avuto modo di vedere cose che
io, da persona che si occupa di valutazione nel settore pubblico da tanto tempo
e che ha condotto decine di colloqui valutativi, non avevo mai visto.
Presentare un progetto di ricerca necessita di un minimo di tempo
tecnico per l’esposizione. Possiamo poi stabilire se questa esposizione debba
durare 5 oppure 10 oppure 20 minuti; ammetto che non possono esservi delle
regole predefinite ma una regola è certa: un minimo di tempo per esporre il
progetto sul quale si chiede di essere valutati deve essere previsto.
Ai colloqui cui ho assistito, durati mediamente 10 minuti,
l'interrogante non ha consentito di completare una sola frase (non esagero!) e
non ha consentito di esporre il progetto multidisciplinare (come previsto dal
bando) ed in questo modo, tra l’altro, non ha potuto verificare le capacità
espositive e dialettiche dei candidati. I candidati si sono trovati di fronte
una persona ostile che non ha voluto ascoltare, che esprimeva continuamente
disappunto e insofferenza, mostrando spesso di non aver letto una sola pagina
dei progetti di ricerca e andando sistematicamente fuori tema. Insomma, da un
lato esaminatori ostili e indifferenti e dall’altro l’impossibilità dei
candidati di raccontare alla commissione il proprio progetto di ricerca. Il
fatto di essere docenti strutturati e al massimo livello della carriera
universitaria e, quindi, con un ruolo di prestigio non costituisce un esimente
ma se mai un’aggravante che non mina solo la loro autorevolezza ma quella di
tutta la istituzione che rappresentano.
E allora vado a rivedere la sterminata letteratura sui processi di
valutazione e sulla gestione dei colloqui valutativi e mi accorgo che c’è
qualcosa che non quadra. Questo tipo di ostilità o superficialità
nell’ascoltare gli esaminandi è tipico di colui che è <<condizionato
dalla “paura", intesa come
percezione di una "minaccia" di fronte alla quale si sceglie la
"fuga difensiva" o "il contrasto">>; è in quel contesto la paura sembra
correlata al rischio che la valutazione del merito possa impedire la
realizzazione di scenari costruiti su altre basi.
Ancora la letteratura
sull’argomento ci viene in soccorso per spiegarci quali sono gli atteggiamenti
che il valutatore dovrebbe evitare, indipendentemente dagli esiti della
valutazione medesima che, inutile nasconderlo, sono sicuramente permeati da una
percezione soggettiva che non è possibile eliminare, altrimenti, se tutto fosse
oggettivamente misurabile, non sarebbe necessario un colloquio valutativo. E
tra questi errori di impostazione ve ne sono alcuni che ho trovato presenti in
questi colloqui cui ho potuto assistere: 1) pregiudizio che è il
convincimento preconcetto verso determinate persone in virtù di fattori esogeni
al processo valutativo (la provenienza da una certa Università, il tema
proposto per la ricerca, il settore disciplinare); 2) effetto indulgenza/severità
che è l’atteggiamento che si riassume con l’essere buoni o cattivi a seconda di
chi si ha di fronte; 3) proiezione che è l’idea che solo chi
assomiglia al valutatore sarà all’altezza di ricoprire un ruolo e di condurre
le ricerche previste, per cui sostanzialmente solo il “discepolo” del maestro
può avere queste caratteristiche in quanto già “preselezionato”.
Chi per professione è chiamato a
valutare dovrebbe prima di tutto scrollarsi di dosso tutti gli schemi che
alterano l’equilibrio tra le parti ed inficiano le pari opportunità, e se
vogliamo parlare di meritocrazia è davvero curioso che proprio i luoghi, nei
quali dovrebbe albergare per definizione e a prescindere, mostrino queste
situazioni a dir poco anomale, senza che le istituzioni riescano a trovare il
modo di reagire ad atteggiamenti che sembrano rappresentare un mero esercizio
arbitrario del potere, assegnato sulla base della posizione ricoperta. Va
peraltro detto che queste anomalie dovrebbe essere superate se funzionasse la
collegialità delle commissioni, che dovrebbe costituire l’antidoto a questi
fenomeni, anche se in questi contesti sappiamo che è difficile possano esservi
reazioni dall’interno tali da invertire la rotta perché tutto si basa su
equilibri intoccabili. Ma mi permetto di osservare che quando si parla di
meritocrazia dovremmo pretendere che nelle Università sia una condizione
ordinaria e un esempio per le altre amministrazioni pubbliche.
Quello che succede nelle
Università per l’accesso ai dottorati di ricerca dovrebbe essere oggetto di un
attento esame, perché così come rimaniamo esterrefatti quando viene individuato
un giudice corrotto o quando si esercita violenza su persone che sono in carico
alle forze di polizia, analogamente dobbiamo pretendere un vero esercizio di
legalità e di meritocrazia in quelle istituzioni da cui escono i giovani che
poi entreranno ad operare in vari ambiti della società. Chi insegna la legalità
e la meritocrazia deve esse il primo a metterla in pratica, prima ancora di
invocarla nei confronti di altre amministrazioni, altrimenti non si è credibili.
Mi permetto in conclusione di
citare una frase di Corrado Alvaro, “La disperazione più grande che possa
impadronirsi di una società è il dubbio che essere onesti sia inutile”, e
chi lavora per le amministrazioni pubbliche deve operare per impedire ciò, in
qualsiasi ambito e senza che possano esserci spazi nei quali “se non sei
qualcuno, o il parente di qualcuno o l’amico di qualcuno non sei nessuno e
avrai al massimo solo un po’ di compassione per le tue idee”; ancora una
volta l’attuazione dei principi costituzionali e le procedure concorsuali
gestite correttamente sono l’unica strada che conosciamo perché si realizzi la
rimozione degli ostacoli che “impediscono il pieno sviluppo della persona
umana” e limitano “di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini”.
Insomma l’unica strada per rendere le istituzioni credibili.
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