La sentenza TAR Puglia, Lecce , Sez. I, del 15 novembre 2021, n.1635 è importantissima e molto chiara. Evidenzia un elemento che sfugge spesso agli operatori: l’iscrizione alla camera di commercio non può essere considerato come requisito obbligatorio che qualifica gli operatori economici.
Non si deve dimenticare quanto prevede l’articolo 3, comma 1,
lettera p), del d.lgs 50/2016, ai sensi del quale “operatore economico” è “una persona fisica o giuridica, un ente
pubblico, un raggruppamento di tali persone o enti, compresa qualsiasi
associazione temporanea di imprese, un ente senza personalità giuridica, ivi
compreso il gruppo europeo di interesse economico (GEIE) costituito ai sensi
del decreto legislativo 23 luglio 1991, n. 240, che offre sul mercato la
realizzazione di lavori o opere, la fornitura di prodotti o la prestazione di
servizi”.
Non tutti tali soggetti possono essere tenuti all’iscrizione
alla camera di commercio, specie se la loro attività nel mercato risulti non
costante e tale da non poterli qualificare come imprenditori secondo la
normativa italiana, che, per altro, è recessiva rispetto a quella europea in
questo ambito.
L’equivoco trae certamente origine dall’infelice
disposizione contenuta nell’articolo 83, comma 3, del d.lgs 50/2016, a mente
del quale ai fini della sussistenza dei requisiti di idoneità professionale “i concorrenti alle gare, se cittadini
italiani o di altro Stato membro residenti in Italia, devono essere iscritti
nel registro della camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura o
nel registro delle commissioni provinciali per l'artigianato, o presso i
competenti ordini professionali”. Ma, tale iscrizione può essere pretesa
solo nei confronti dei soggetti che svolgano attività imprenditoriale o
professionale continuativa, qualificabili come imprenditori o, appunto,
professionisti.
Vi sono, invece, soggetti, come in particolare gli enti del
Terzo Settore, che ai sensi della normativa vigente non sono obbligati ad
iscriversi al registro delle imprese o al registro economico amministrativo
(Rea), ma tenuti, invece, ad iscriversi nei registri speciali previsti dalla
particolare normativa cui sono soggetti, dai quali possono evincersi i medesimi
elementi di prova del possesso dei requisiti di idoneità evincibili dal
registro delle imprese.
E’ per questo che anche l’Anac nella deliberazione 767/2018,
ha chiarito la portata della clausola del punto 7.1 del Bando tipo n. 1 (nella
parte in cui richiede “l’iscrizione a registri o albi diversi da quelli della
Camera di Commercio”), precisando che “la
previsione di cui al punto 7.1. lett. b) è da intendersi riferita sia ad
abilitazioni specifiche ulteriori (ad es. Albo Nazionale Gestori Ambientali),
sia all’iscrizione ad altri registri o albi (ad es. registri
regionali/provinciali del volontariato o al registro unico nazionale del Terzo
settore), qualora la stazione appaltante, valutato il relativo mercato di
riferimento prevede la partecipazione alla gara di quei soggetti ai quali la
legislazione vigente non imponga, per l’espletamento dell’attività oggetto di
gara, l’iscrizione alla Camera di Commercio”.
Poichè, ancora, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea
con la sentenza del 23 dicembre 2009 nella causa n. 305/2008 ha ribadito che la
normativa comunitaria deve essere interpretata nel senso che non può essere
impedita la partecipazione alle gare di pubblici appalti ai “soggetti che non perseguono preminente scopo
di lucro, non dispongono della struttura organizzativa di un’impresa e non
assicurano una presenza regolare sul mercato”, laddove i servizi oggetto di
gara possano essere realizzati da soggetti non perseguenti scopi di lucro e non
obbligati all’iscrizione nel registro delle imprese, non v’è alcuna ragione di
escluderli dalle gare.
Sul tema, appare una pietra miliare la sentenza del Tar
Veneto Sez. I, 26/3/2009 n. 881. Il giudici hanno ritenuto che laddove un bando
di gara apra agli enti del terzo settore l’assenza di iscrizione al registro
delle imprese, di partita IVA e di posizioni INPS e INAIL attive “non è sufficiente per escludere il carattere
imprenditoriale di una ONLUS nell’ambito dell’attività di prestazione di
servizi. A tal proposito, la giurisprudenza comunitaria ha affermato che in
ambito europeo la nozione di impresa “comprende qualsiasi entità che esercita un’attività
economica, a prescindere dallo status giuridico di detta entità e dalle sue
modalità di finanziamento”, mentre l’attività economica consiste
nell’offerta di beni o servizi su un determinato mercato contro retribuzione e
con assunzione dei rischi finanziari connessi, anche se non viene perseguito
uno scopo di lucro (Corte Giustizia CE, V, 18.6.1998 n. 35; Trib. di I grado CE
4.3.2003 n. 319). La nozione di impresa fornita a livello comunitario ha, pertanto, parametri molto ampi, che
prescindono da una particolare fattispecie organizzativa, essendo
sufficiente l’esercizio di un’attività economica che sia ricollegabile al dato
obiettivo inerente all’attitudine a conseguire la remunerazione dei fattori
produttivi, rimanendo giuridicamente irrilevante lo scopo di lucro (che
riguarda il movente soggettivo che induce l’imprenditore ad esercitare la sua
attività): il carattere imprenditoriale dell’attività va, invece, escluso nel
caso in cui essa sia svolta in modo del tutto gratuito, atteso che non può
essere considerata imprenditoriale l’erogazione gratuita dei beni o servizi
prodotti (Cass. Civ. III, 19.6.2008 n. 16612). Il Consiglio di Stato, dal canto
suo, ha affermato la sussistenza di una nozione di “impresa” più ampia di
quella sottesa all’art. 2082 c.c.: nozione che, “alla luce del principio
comunitario dell’effetto utile, non può che sussumere nell’ambito delle
attività di impresa, ai fini dell’applicazione della disciplina della
concorrenza, a prescindere dalla qualifica formale del soggetto che la svolge,
qualsiasi attività di natura economica tale da poter ridurre, anche solamente
in potenza, la concorrenza nel mercato. Ai predetti fini possono essere
considerate imprese tutti i soggetti, comunque strutturati ed organizzati, che
compiano atti a contenuto economico idonei a restringere la concorrenza” (CdS,
VI, 27.6.2005 n. 3408)”.
Il Consiglio di stato ha poi confermato l’assunto del Tar
Veneto, con l’altrettanto importante sentenza della Sezione V, 26/8/2010, n.
5956/2010: “Anche di recente, con
sentenza della Corte di Giustizia CE sez. IV 23 dicembre 2009 . C 305/08, è
stato ribadito che le disposizioni della direttiva 2004/08 devono essere
interpretate “nel senso che consentono a soggetti che non perseguono preminente
scopo di lucro, non dispongono della struttura organizzativa di un'impresa e
non assicurano una presenza regolare sul mercato… di partecipare ad un appalto
pubblico di servizi” e che tale direttiva osta all'interpretazione di una
normativa nazionale che vieti a soggetti che “non perseguono preminente scopo
di lucro di partecipare ad una procedura di aggiudicazione di un appalto
pubblico”.
Pertanto, l'assenza di
fini di lucro non esclude che le associazioni di volontariato possano
esercitare un'attività economica, né rileva la carenza di iscrizione alla
Camera di Commercio o al registro delle imprese, che non costituiscono
requisito indefettibile di partecipazione alle gare di appalto (C.S. 4236/09)
né, nella fattispecie, ciò era espressamente stabilito dalle norme di gara.
Vanno, di conseguenza,
confermate le motivazioni di reiezione del giudice di primo grado”.
Lo stesso vale per il possesso della PIVA, di cui il Codice Appalti per fortuna non parla, ma qualche PA esige anche da lavoratori autonomi O-C-C-A-S-I-O-N-A-L-I (non tenuti per legge ad avere la PIVA !!!), ma guarda un po'!!!
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