martedì 25 ottobre 2022

Nel merito del merito

 L’istituzione del Ministero dell’Istruzione e del merito, con l’aggiunta appunto dell’inciso “merito”, sta scatenando polemiche e dibattiti, come sempre caratterizzati da polarizzazioni su preconcetti ed argomenti fuorvianti.

La questione concerne la definizione che di concetto di “merito” è possibile dare e, conseguentemente, comprendere come si attagli il merito alla scuola.

L’inserimento della parola “merito” nella denominazione ministeriale ha immediatamente sollecitato i fautori della visione di una società tanto inesistente quanto irrealizzabile, fondata esclusivamente sulla competizione e selezione, una sorta di modello dickensiano, nel quale il “merito” viene visto come il marchio di selezione finalizzato a distinguere i meritevoli dagli Oliver Twist e dai Miserabili, che, in quanto non meritevoli, sono da considerare non degni di evoluzione lavorativa, economica e sociale: una sorta di “riserva” per i “lavori che gli italiani non vogliono più fare”, così da – eliminati il reddito di cittadinanza e ogni ammortizzatore sociale – poter far contare la produzione su braccia finalmente disposte a raccogliere pomodori, servire ai tavoli, pulire e sorvegliare le spiagge.

Questa visione straniante della società liberale, del mercato e della concorrenza, si fonda su una lettura distorta dell’articolo 34, comma 3, della Costituzione. Chi, infatti, legge la parola “merito” come acquisizione definitiva dell’istruzione intesa come sistema selettivo dei migliori, evidenzia che non ci si dovrebbe stupire dell’espresso aggancio tra istruzione e meritocrazia proposto dal nuovo Governo, poiché di “merito” appunto parla espressamente la norma costituzionale.

E’, dunque, opportuno leggere il citato articolo 34, comma 3: “I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”.

Una lettura pacata e non condizionata da pregiudizialità, fa comprendere con chiarezza l’intento enunciato dalla Costituzione, molto ma molto differente da quello proposto da chi ritiene il “merito” un metodo di selezione.

La norma costituzionale, lungi dal guardare alla meritevolezza come esito di un processo di selezione dei migliori rispetto agli altri, volto a costruire nei confronti dei primi sbocchi e percorsi privilegiati e adeguati al merito ottenuto, afferma un principio molto diverso. Non si tratta di selezionare, ma di includere.

L’articolo 34, infatti, non è astrattamente riferito al solo “merito” come fine dell’istruzione, ma considera in un unicum inscindibile due situazioni soggettive

a) l’essere privi di mezzi (sottinteso, sociali, familiari ed economici)

b) l’essere capaci e meritevoli

per giungere ad uno scopo inclusivo: garantire anche ai soggetti privi di mezzi, ma meritevoli, di proseguire gli studi anche oltre la scuola dell’obbligo, mediante la leva di aiuti economici, finanziari e logistici (borse di studio, prestiti d’onore, agevolazioni per gli affitti, convitti e altri strumenti).

Per avere conferma che l’approccio dei costituenti fosse quello della massima estensione possibile del diritto allo studio, anche ai livelli più elevati e potenzialmente costosi, basta leggere i lavori preparatori della Costituzione.

Non si deve confondere la valorizzazione del merito con i processi selettivi. La scuola, in particolare, assolve al fine fondamentale di educare i giovani, accompagnandoli nella crescita psico-fisica, adottando modalità di insegnamento volte a favorire l’apprendimento di nozioni, metodi di lavoro e comportamenti che oltre ad accrescere il bagaglio culturale, permettano ai giovani di affacciarsi con consapevolezza alla società, scoprire propensioni, vedere il mondo oltre i confini della famiglia e delle relazioni amicali, acquisire strumenti per farsi un’idea di possibili progetti di vita futura, acquisire al consapevolezza del ruolo di cittadino.

Lo scopo della scuola non è fabbricare e meno ancora favorire i “meritevoli”. Come ogni docente sa, troppo bello e facile sarebbe insegnare solo a chi, per situazioni favorevoli di natura familiare e per propensioni naturali (maturazione più precoce di altri, capacità maggiori di concentrazione, volontà particolare, predisposizione soggettiva) eccelle e senza difficoltà non solo apprende, ma anche rende con disinvoltura nelle prove di verifica degli apprendimenti.

La scuola ha il compito di far crescere e, dunque, deve occuparsi soprattutto di chi ancora le propensioni non le ha del tutto maturate, mettendo con pazienza a disposizione gli “attrezzi” adeguati al grado di maturazione.

In questo senso, la scuola deve essere inclusiva e non selettiva. Non si tratta affatto di una competizione, dalla quale escano “vincitori” solo appunto i “meritevoli”, intesi come i “migliori” a discapito di “peggiori” o “non meritevoli”, magari da ghettizzare in classi differenziate o in percorsi di studio di serie B.

La scuola ha il compito di garantire a tutti un’educazione, un’istruzione, una maturazione culturale e sociale. A tutti: dunque, senza selezione alcuna. Anzi, intervenendo per colmare come possibile le diseguaglianze sociali e di partenza, per permettere che all’arrivo possano giungere tutti. Non essendo una gara, non conta il record del tempo, il piazzamento sul filo di lana: è fondamentale che all’ultimo metro arrivino tutti.

E’ la differenza tra una scuola calcio di un’associazione sportiva dilettantistica ed una “cantera” di un club professionistico. La prima consente ai ragazzi di esprimere la propria personalità anche nello sport, ponendosi solo come eventualità il compito di segnalare possibili talenti, avendo, invece, come obiettivo principale insegnare la tecnica sportiva ed i valori connessi; la seconda, invece, agisce esclusivamente per individuare potenziali campioni, ammette solo pochi e selezionati talenti, riduce progressivamente, con gli anni, il numero dei giocatori che prende in cura, trascurando gli altri: la “cantera” deve aiutare il club professionistico a fare fatturato e dividendi.

L’articolo 34, comma 3, della Costituzione è posto su un piano del tutto differente: enuncia il principio della meritevolezza come condizione soggettiva perché il diritto all’istruzione sia garantito anche a chi, privo di mezzi, rischi di non poter affrontare i costi del proseguimento degli studi, pur avendo dimostrato di meritare il prosieguo.

L’intento, quindi, è sempre lo stesso: estendere ed includere quanto più possibile, consentire al numero più elevato possibile di studenti di approfondire le conoscenze, le abilità, le capacità.

Ovviamente, gli aiuti anche economici che lo Stato può assicurare sono da assegnare entro un insieme finito e non infinito di risorse e, per altro verso, è corretto siano indirizzati a chi, dimostrando volontà, lavoro e risultati, si distingua e, quindi, sia valutato come meritevole di questi aiuti. I quali, però, sono aggiuntivi all’insieme della rete di inclusione, sostegno e crescita personale che comunque la scuola deve assicurare a tutti.

Il merito di cui parla la Costituzione, dunque, non è uno strumento per selezionare “chi potrà andare avanti negli studi”, bensì per permettere di andare avanti negli studi anche chi sia a rischio di non poter proseguire gli studi per ragioni oggettive e non soggettive.

Simmetricamente, le istituzioni hanno anche il dovere di tentare di recuperare gli studenti ancora in obbligo formativo a rischio dispersione agendo in questo caso persino a prescindere dalla meritevolezza, perché la Nazione non deve e può permettersi il lusso di disperdere potenzialità, né creare le condizioni per futuri disagi sociali, che possono trascendere poi in situazioni di dipendenza, indigenza, criminalità.

Pensare al merito come esito selettivo, sicché la scuola sia vista come una competizione, significa confondere il compito di educare con quello, appunto, di selezionare.

La scuola non è una gara sportiva, non è un talent show, non è una competizione concorrenziale, nelle quali un insieme di candidati, in numero maggiore ai posti disponibili, gareggia per ottenere la classifica di valutazione più elevata, ovviamente a discapito degli altri “concorrenti”.

A scuola, lo studente non gareggia col compagno di classe o di banco nel prendere il voto più alto: sebbene un po’ di sana competizione sia comprensibile, il numero delle “promozioni” non è limitato. La scuola ha il compito di portare tutti al livello successivo. Ogni bocciatura, per quanto dovuta e necessaria se il discente non dimostri di aver messo a frutto il lavoro impostato dai docenti, non è un fatto che riguardi la sola sfera personale dello studente: è un risultato negativo anche della scuola stessa, che non è comunque riuscita nell’intento di far evolvere quella persona.

La selezione ha il compito di scegliere i pochi tra i tanti, lasciando questi ultimi dove si trovano e dando spazio solo ai selezionati: è questo quel che avviene nei concorsi o nei sistemi di reclutamento nelle imprese, come è giusto che sia.

Ma, a scuola occorre operare perché tutti abbiano la possibilità di esprimere il “proprio” meglio. Che non è il meglio assoluto, quello che consenta di competere ed eccellere, ma un meglio relativo, cioè la conferma dell’efficacia del percorso di crescita affrontato, anche se poi i risultati risultino inferiori a quelli di altri. Non a caso gli esami finali hanno un range valutativo esteso, proprio perché i livelli di conseguimento degli obiettivi formativi possono essere diversi.

Si deve dare atto che esiste un merito assoluto, un merito relativo ed un eventuale demerito. Il primo è l’eccellenza attestata da risultati degli studi particolarmente di rilievo, tali da consentire, per chi verta nelle situazioni di potenziale disagio economico-sociale, le provvidenze (borse di studio ed agevolazioni) previste dall’articolo 34, comma 3, della Costituzione, e per chiunque altro “meriti” eventuali altri incentivi o premi previsti dal sistema pubblico e privato come riconoscimento dei risultati conseguiti. Il secondo, il merito “relativo” è la valutazione della capacità di ciascuno di apprendere, maturare e migliorare rispetto ad un livello di partenza: merito non è solo, quindi, prendere la valutazione più alta in assoluto, ma mettere comunque a frutto gli studi, con risultati anche non di eccellenza, che comunque sono indice di un impegno. Il demerito è, ovviamente, la refrattarietà a qualsiasi impegno nell’apprendere e maturare; situazione che, comunque, non si risolve con il disinteresse da parte delle istituzioni, perché debbono comunque scattare gli strumenti (non più di sola competenza della scuola: subentrano le regioni, i comuni e i servizi sociali e del lavoro) per cercare il recupero: riorientamento, modifica di indirizzo di studi, attivazione di supporti, interventi anche, dove possibile, nei confronti della famiglia, estensione della cura della persona pensando alla cura e valorizzazione di competenze in contesti informali e non formali.

Del resto, la scuola, pur fornendo moltissimi elementi per scoprire eccellenze potenziali, non può rappresentare di per sé la sede per la “selezione” dei “meritevoli” in assoluto. Alcune propensioni e capacità il giovane può maturarle ed esprimerle molto meglio fuori dal sistema scolastico, nel lavoro o negli studi superiori, nei quali può meglio indirizzare i propri interessi, mentre a scuola deve necessariamente distribuirli anche tra conoscenze ed abilità da acquisire non rientranti tutte nella sfera delle proprie specifiche propensioni.

La meritevolezza, quindi, non è e non deve essere selezione competitiva. La scuola deve fornire ai propri studenti, semmai, mezzi e metodi per affrontare le future competizioni e selezioni.

Da questo punto di vista, probabilmente avrebbe avuto maggiore senso e coerenza modificare la denominazione del Ministero dell’Università e Ricerca: è negli studi universitari, ove si forgiano anche future professioni di elevato profilo, nonché ovviamente nella ricerca, che la meritevolezza è anche selettiva (sebbene, comunque, non competitiva), poiché questo livello di studi richiede l’elevazione dell’asticella.

Ma, in ogni caso, l’articolo 34, comma 3, della Costituzione estende il proprio campo di applicazione e la propria funzione inclusiva anche agli studi successivi a quelli del curriculum scolastico, perché i meritevoli non siano privati della possibilità di continuare nella crescita propria, che contribuisce comunque alla crescita sociale complessiva, nemmeno negli ambiti di studio più elevati.

Non si ha motivo per dubitare che gli esponenti del Governo abbiano ben chiari, anzi ancor meglio chiari, tutti questi elementi e che il richiamo al merito sia rivolto, non tanto agli studenti, quanto più al Ministero stesso, alla propria organizzazione, ai propri mezzi, ai propri docenti, perché si predispongano metodologie e si utilizzino risorse meglio capaci di formare larghissime fasce cittadini coscienti, informati, dotati di conoscenze di buon livello.






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