sabato 10 dicembre 2016

Sorpresa (?): i dirigenti si possono licenziare!


I media all’unisono hanno continuato a raccontare la favola che la riforma Madia avrebbe introdotto la “licenziabilità”, che invece esiste da sempre


La Corte di cassazione toglie un altro velo alla propaganda di questi mesi, intrisa di troppi slogan populisti e fuorvianti, spesso declamati prima da una stampa non specializzata davvero impreparata sui temi, poi fatti propri dalle istituzioni, a caccia di “riforme”, per un verso utili a soddisfare il populismo, per altro verso da sfruttare nel tentativo di rafforzare il potere.

E’ il caso emblematico della riforma della dirigenza avviata con la legge 124/2016, ma schiantatasi sulla sentenza della Consulta 251/2016, perché le “riforme”, proprio in quanto prive di sostanza giuridica e di utilità comune, sono scritte in modo talmente sommario e mirato all’utilità di pochi, da essere formulate in termini sommari, così da trascurare la rilevanza anche dei dettagli procedurali.
Dunque, la gran parte dei media ha ossessionato con l’esaltazione della (pessima) riforma Madia perché, tra l’altro, avrebbe “introdotto” la tanto agognata (non si sa perché) “licenziabilità” dei dirigenti pubblici.
Ovviamente, non era vero niente. Come non era vero (chiedere al comune di San Remo) che i “furbetti del cartellino” non fossero licenziabili prima della riforma Madia (d.lgs 116/2016), è assolutamente falso, gravemente falso, sostenere che la legge 124/2015 e i suoi decreti attuativi avrebbero previsto la licenziabilità dei dirigenti.
Come tutti i lavoratori subordinati, i dirigenti pubblici possono essere licenziati e da sempre. Appunto ce lo ricorda la Cassazione, Sezione civile lavoro, con la sentenza 22/11/2016, n. 23744, che ha rigettato il ricorso proposto da un dirigente avverso la pronuncia della corte di appello, di rigetto del ricorso proposto contro il licenziamento disposto dal comune di appartenenza.
Tranciante è il ragionamento della Corte: “Nella specie, come risulta dalla sentenza impugnata, i comportamenti contestati — di cui nel presente ricorso non viene messa in discussione la sussistenza — consistono in leggerezze nella gestione delle gare di appalto, cattiva gestione del personale con irrigazione di sanzioni disciplinari in contrasto con l'art. 55 del d.lgs. n. 165 del 2001, rifiuto nel passaggio delle consegne, scorrettezza nei rapporti con l'assessore di riferimento, ritardi e incompletezze nella redazione delle schede-obiettivo per il 2011, mancato raggiungimento dei risultati per il 2009 e il 2010. Non possono, pertanto, nutrirsi dubbi sulla sussistenza degli estremi per la configurazione di una responsabilità dirigenziale meritevole di licenziamento per giusta causa, anche a prescindere dalla comunicazione o meno delle direttive generali, visto che quelle contestate sono condotte di per sé sono contrarie all'art. 5, comma 1, del CCNL cit. secondo cui: "Il dirigente conforma la sua condotta al dovere costituzionale di servire la Repubblica con impegno e responsabilità e di rispettare i principi di buon andamento, imparzialità e trasparenza dell'attività amministrativa nonché quelli di leale collaborazione, di diligenza e fedeltà di cui agli artt. 2104 e 2105 del codice civile, anteponendo il rispetto della legge e l'interesse pubblico agli interessi privati propri ed altrui". Peraltro, si tratta di comportamenti contrari anche ai successivi commi dello stesso art. 5 che elencano gli obblighi dei dirigenti, fermo restando che, come affermato da questa Corte: a) in presenza di più addebiti la valutazione della condotta deve essere globale; b) la responsabilità dirigenziale è configurabile anche nei casi in cui vi sia un indissolubile intreccio tra tale tipo di responsabilità e quella disciplinare”.
La Cassazione, dunque, chiarisce estremamente bene due concetti:
1.      la responsabilità dirigenziale discende da una valutazione complessiva della condotta e dei risultati, sicchè può (forse invetibabilmente, deve) esservi un intreccio da responsabilità disciplinari e dirigenziali in senso proprio;
2.      la responsabilità dirigenziale può fondare il licenziamento “per giusta causa”.
D’altra parte, questo è quanto deriva non solo dalla contrattazione collettiva, ma direttamente dall’articolo 21, comma 1, de d.lgs 165/2001: “Il mancato raggiungimento degli obiettivi accertato attraverso le risultanze del sistema di valutazione di cui al Titolo II del decreto legislativo di attuazione della legge 4 marzo 2009, n. 15, in materia di ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e di efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni ovvero l'inosservanza delle direttive imputabili al dirigente comportano, previa contestazione e ferma restando l'eventuale responsabilità disciplinare secondo la disciplina contenuta nel contratto collettivo, l'impossibilità di rinnovo dello stesso incarico dirigenziale. In relazione alla gravità dei casi, l'amministrazione può inoltre, previa contestazione e nel rispetto del principio del contraddittorio, revocare l'incarico collocando il dirigente a disposizione dei ruoli di cui all'articolo 23 ovvero recedere dal rapporto di lavoro secondo le disposizioni del contratto collettivo”.
Come volevasi dimostrare (e come ha sempre sostenuto chi scrive), la normativa vigente consente di licenziare i dirigenti, si ribadisce, alla stregua di quanto accade per qualsiasi lavoratore dipendente.
La Cassazione chiarisce un fatto, per altro più che ovvio: per il licenziamento occorre una “giusta causa”. Insomma, si richiede all’ente datore di lavoro la “fatica” di evidenziare i risultati mancati, i comportamenti non corretti, le violazioni poste in essere, così da poter costruire l’assetto motivazionale che rende la “causa” del licenziamento “giusta”. Come si richiede per qualsiasi altro lavoratore al mondo.
Licenziare i dirigenti pubblici, pertanto, è possibile, possibilissimo, a condizione che, come detto sopra, si faccia la “fatica” di raccogliere gli elementi di fatto necessari.
La riforma Madia, dunque, non avrebbe introdotto per nulla la licenziabilità, perché già esistente, come dimostra la Cassazione. Ma, avrebbe prodotto un effetto ben diverso ed inaccettabile sempre alla luce della Costituzione vigente, anche se non c’è stato – fortunatamente – modo di andare dalla Consulta per dimostrarlo: prevedere il licenziamento “senza causa”.
Questo sarebbe stato il vero effetto dirompente ed inaccettabile della riforma Madia. La scadenza di ogni incarico dirigenziale, infatti, avrebbe comportato la collocazione del dirigente in disponibilità, nella condizione di dover partecipare in ogni parte di Italia a procedure di conferimento di nuovi incarichi lasciate al totale arbitrio della politica, e a rischio di veder risolto il rapporto di lavoro dopo 24 mesi, anche a prescindere da una valutazione negativa e dall’esistenza di un “dossier” di violazioni varie. Anzi, la riforma sarebbe giunta al paradosso assoluto: un dirigente, confermato per altri 2 anni dopo i 4 iniziali di incarico proprio per aver ottenuto una valutazione positiva, si sarebbe comunque trovato alle soglie del licenziamento, una volta scaduto l’incarico.
La riforma Madia era palesemente rivolta esattamente allo scopo di sollevare gli organi politici dal “peso” di dover valutare i dirigenti e motivare esplicitamente le ragioni del licenziamento, sì da evidenziare la “giusta causa” che, ovviamente, la Cassazione considera imprescindibile. Nonostante Palazzo Vidoni avesse insistentemente dichiarato che al lavoro pubblico si continui ad applicare la tutela dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, è evidente che per i dirigenti il meccanismo del licenziamento senza causa non avrebbe consentito questa tutela, data solo per illiceità del provvedimento di licenziamento: ma la riforma non avrebbe reso nemmeno necessario il provvedimento di licenziamento espresso, lasciando la conseguenza della risoluzione del rapporto di lavoro al mero trascorrere del tempo, trasformando dunque un rapporto di lavoro a tempo indeterminato in un vero e proprio lavoro a chiamata a tempo determinato (anche se con scadenza non prefissata, altro vulnus inaccettabile al sistema)

E’ bene tenere a mente queste vicende, perché la tentazione di ritornare su una riforma impostata come quella voluta dal Ministro Madia sarà sicuramente forte anche in futuro, considerando per altro che in Italia, in Friuli Venezia Giulia, c’è comunque una previsione di legge fortemente improntata nei contenuti alle indicazioni di una riforma sciagurata, che la ventura ha evitato entrasse in vigore.

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