Moltissimi giornalisti, tra i
quali spicca ovviamente Sergio Rizzo, avevano fatto una campagna ossessiva per
l’abolizione delle province. Gli esiti del referendum rendono questa “meta” adesso
molto complicata e la stampa generalista se ne adonta moltissimo, persistendo
in una campagna degna sicuramente di miglior sorte.
Sia subito chiaro: non perché vi
sia nulla che vieti di riformare l’ordinamento istituzionale e l’organizzazione
della pubblica amministrazione, anche eliminando enti come le province.
Tuttavia, per perseguire questo
scopo, occorrerebbe sgomberare il campo dai due clamorosi errori commessi da
Governo e Parlamento in questi anni, nella compulsiva volontà di assecondare le
inchieste sommarie e disinformate dei giornali e nella convinzione di dare vita
ad una misura populistica dal consenso facile:
1.
poiché le province sono un ente espressamente
considerato dalla Costituzione come un elemento fondante della Nazione e della
Repubblica, per eliminarle occorre riformare la Costituzione, prima e non dopo
di una legge ordinaria, come la Delrio;
2.
se l’intento è, oltre alla razionalizzazione
amministrativa, anche quello di risparmiare risorse, esso è assolutamente
velleitario ed erroneo: le province, come qualsiasi altro ente, spendono le
risorse affidate alla loro gestione allo scopo di erogare servizi. L’unico
sistema per risparmiare non è eliminare l’ente che li gestisce, quei servizi,
bensì eliminare i servizi stessi a discapito dei cittadini che ne hanno
bisogno, poiché se non si azzerano necessariamente qualche altro ente dovrà
garantirli, senza, quindi, che si produca alcun risparmio significativo.
L’economista Roberto Perotti,
tra i tantissimi sostenitori dell’abolizione delle province, ha quotato di
recente il risparmio vero conseguibile: 340 milioni circa. Si tratta di una
cifra certamente importante, ma assolutamente non risolutiva della situazione
della finanza pubblica, in quanto rappresenta appena lo 0,04% del totale della
spesa pubblica. Il nulla.
L’Unione Province Italiane,
debolissima associazione delle province che con altrettanta (se non maggiore)
debolezza ha cercato di difendere queste istituzioni da un attacco in realtà considerato
inevitabile anche dall’associazione stessa (in particolare con l’attuale
presidenza), ha spiegato nei giorni scorsi che la spesa corrente delle province
si è ridotta di 2,7 miliardi, pari al 37% degli iniziali circa 8 miliardi,
assestandosi in circa 5,3 miliardi di euro.
Non è stato, tuttavia,
evidenziato che si tratta di una riduzione della sola spesa corrente del
comparto delle province, non della spesa pubblica italiana nel suo complesso,
che, infatti, non scende affatto, ma aumenta.
Il perché è molto semplice: la
spesa corrente sparita dai bilanci delle province si è trasferita nei bilanci
dei comuni, delle amministrazioni statali e soprattutto delle regioni. Infatti,
tutte queste amministrazioni hanno assorbito i circa 20.000 dipendenti
provinciali trasferiti a forza, per effetto della legge 190/2014, addossandosi
la spesa connessa di circa 650 milioni; comuni e, soprattutto, regioni, poi,
hanno anche acquisito mole delle funzioni non fondamentali provinciali sostituendosi
alle province nell’erogare sostanzialmente il medesimo volume di spesa
corrente.
Dopo il referendum, come detto,
la stampa generalista non molla la presa e torna ad attaccare un bersaglio
facile per il populismo imperante. Su La Repubblica on line dello scorso 7
dicembre, ad esempio, campeggiava l’articolo di Carmelo Lo Papa dal titolo “Riecco le Province. Cento carrozzoni da 5
miliardi di euro l'anno, tutti sull'orlo del dissesto. E ora da rifinanziare
per strade e scuole”. Un condensato di populismo e indicazioni erronee,
quando non del tutto false. L’esordio è questo: “Riecco le Province. Sorelle mature e altrettanto attempate del Cnel e
riesumate anche loro dalla vittoria del No al referendum di domenica. E ora chi le governa e chi le rappresenta
torna alla luce, esce dalle "catacombe" di questi anni e soprattutto degli ultimi mesi, rivendica ruoli e finanziamenti. Tanti. Anche perché i vecchi enti
tornati in vita, pur senza i consigli e gli organi elettivi, nel frattempo sono andati tutti in dissesto o quasi”.
Il giornalista commette un’omissione
gravissima, per chi ha il compito di dare informazioni complete: se le province
sono andate in dissesto o quasi, ciò è dovuto alla legge 190/2014. La stampa
generalista ha sempre raccontato che tale norma ha previsto “tagli” alle spese
delle province. Non è affatto così. La legge 190/2014 ha, al contrario,
previsto un prelievo forzoso: ha, cioè, imposto alle province a decorrere dal
2015 di versare allo Stato le somme di 1 miliardo nel 2015, 2 miliardi nel 2016
e 3 miliardi nel 2017 (che si aggiungono a 1,5 miliardi di precedenti
interventi a partire dal Governo Monti), corrispondenti al volume di entrata
dei tributi provinciali. In pratica, le province hanno fatto da gabelliere di
Stato, continuando ad esigere le imposte, ma non potendole più spendere per i
servizi delle proprie comunità, essendo costrette a versarle al bilancio
statale: ciò ha fatto saltare totalmente i conti, perché come spiegato da
Report mesi addietro, il Sose, società cui era stato affidato il compito di
computare i risparmi possibili derivanti dalla riforma, aveva affermato che al
massimo i bilanci delle province potevano sostenere 1 miliardo di riduzione
della spesa corrente, da girare allo Stato.
Così non è andata, perché un
legislatore sommario e frettoloso – come dimostrato nel frattempo da moltissimi
altri esempi, vedasi legge Madia – ha insistito con tagli insostenibili.
Ora le province non rivendicano
per nulla finanziamenti “tanti” e subito. La stampa generalista non ha ben
compreso che le province hanno, come qualsiasi altro ente, dovuto gestire
determinati compiti e rivolgere la spesa ai servizi connessi. In particolare,
sono rimasti in capo alle province i servizi per la manutenzione di 100 mila
chilometri di strade, una rete fondamentale per l’economia e la vita dei
cittadini; nonché 5.000 edifici scolastici. Le leggi statali hanno strozzato i
bilanci provinciali, nell’illusione di una riforma costituzionale che poi non è
giunta, oltre ogni misura e se adesso le province chiedono finanziamenti non è
per se stesse, ma per poter assicurare l’erogazione dei servizi necessari.
E’ evidente che questo messaggio
alla stampa non è chiaro: erogare servizi, significa spendere risorse
pubbliche. Se si immagina di risparmiare i “finanziamenti chiesti” dalle
province, per insistere sull’abolizione di questo ente, si potrebbe forse
ottenere il tanto agognato esito della sparizione delle province, è vero; ma se
si vuole garantire il diritto allo studio di milioni di studenti delle
superiori e il diritto alla mobilità dei cittadini, allora quella spesa
necessaria, se non gestita dalle province, dovrà comunque essere gestita ed erogata
da altri. E il risparmio sarà sempre e comunque prossimo allo zero.
Ma, la stampa generalista
insiste. Pur chiedendosi cosa succede alla sciagurata riforma Delrio, cerca di
mandare messaggi tranquillizzanti e far passare l’idea che non sia accaduto
nulla.
Questa è la linea de Il
Messaggero, giornale molto governativo in questi anni e molto partecipe alla
campagna populistica anti province. Sempre il 7 dicembre è stato pubblicato l’articolo
“Le Province resuscitate dal No chiedono
aiuto a Mattarella: non riusciamo a fare i bilanci”, nel quale si affronta
appunto il tema della riforma delle province dopo il no a furor di popolo alla
riforma della Costituzione.
L’articolo riporta tre tesi:
1. quella
del costiuzionalista Ugo De Siervo: “Chiaro
il ragionamento del giurista Ugo De Siervo, già presidente della Corte
Costituzionale, che ammette senza giri di parole che «per le Province, e allo
stesso modo per le Città Metropolitane, tutto rimarrà secondo l'impostazione data
dalla legge 56». Anche se, aggiunge, «a questo punto qualcuno potrebbe chiedere
una verifica della sua legittimità costituzionale». De Siervo spiega che «in
termini effettivi la mancata revisione della costituzione non cambia nulla
rispetto alla legislazione esistente», non senza segnalare però che «quella
legge operava delle innovazioni che sarebbero state rese definitive e radicali
con modifiche della Carta». Tuttavia, rileva, «rimane nei fatti una situazione
che qualcuno potrebbe definire deplorevole e deficitaria, e per questo potrebbe
chiedere una verifica sulla legittimità costituzionale di quel provvedimento».
Il punto è che ad esempio il termine Province, con il varo degli enti di Area
Vasta, «è stato sostanzialmente e non formalmente eliminato»”;
2. quella
di Giancarlo Bressa, tra i protagonisti, in Parlamento, del sostegno più forte
alla devastante riforma: “Diverso
l'approccio del sottosegretario uscente agli Affari regionali Gianclaudio
Bressa, tra i padri della legge 56: «La questione è semplice, quel
provvedimento - in vigore ormai da due anni e mezzo - è stato approvato a
Costituzione vigente, che poi non è stata modificata, quindi nulla cambia». Al
comma 51 del primo articolo si ricordava con chiarezza «che si era "in
attesa della riforma del titolo V della parte seconda della Costituzione e
delle relative norme di attuazione", ma tutto ciò - osserva - riguardava
aspetti di coordinamento tra i vari enti e la necessità di operare qualche
aggiustamento». Quindi, «gli enti di area vasta, secondo la denominazione della
legge 56, continueranno a chiamarsi Province, al di là di ogni possibile
questione di tipo nominalistico. Del resto le loro funzioni quelle erano e
quelle rimangono»”;
3. quello
dell'ex presidente dell'Associazione italiana costituzionalisti, Antonio
D'Atena: “«Posso dire, come ho fatto a
suo tempo nelle commissioni parlamentari, che la legge Delrio abbia degli
aspetti di provvisorietà, visto che ha trasformato le Province in enti di
secondo grado, ma la Consulta ha validato quell'impostazione, regolando così la
presenza di Comuni, Province, Città metropolitane, Regioni e Stato». Categorico
infine sull'arrivo di possibili ricorsi: «Credo che possano riguardare soltanto
questioni incidentali di legittimità costituzionale»”.
E’ necessario affermare che
nessuna delle tre tesi suggerite dagli interlocutori de Il Messaggero appare
convincente e corretta.
Non è vero che, archiviato il no
alla riforma della Costituzione, non cambi nulla.
In particolare, risulta del
tutto erroneo e inaccettabile il ragionamento proposto dal Bressa. La legge
Delrio, la 56/2014, appare irrimediabilmente viziata da un gravissimo difetto
di legittimità costituzionale, reperibile in quanto riportato nell’articolo 1,
commi 4 e 51, laddove si dispone espressamente che il nuovo ordinamento delle
città metropolitane e delle province è disposto “In attesa della riforma del titolo V della parte seconda della
Costituzione e delle relative norme di attuazione”.
Si tratta di una previsione
semplicemente inaccettabile e devastante in un ordinamento giuridico basato su
una Costituzione rigida, posta al vertice della gerarchia delle fonti. Se si
ammettesse che una legge ordinaria possa intervenire su qualsiasi aspetto dell’ordinamento
giuridico immaginando una successiva riforma della Costituzione ed
anticipandone alcuni effetti “in attesa” che detta riforma venga poi, effettivamente,
in vigore, allora si consentirebbe domani a qualsiasi Governo e Parlamento di
oltraggiare la Costituzione con semplici leggi ordinarie, inserendo la stessa
clausola di stile contenuta nella legge Delrio.
La bocciatura della riforma
quale esito del referendum del 4 dicembre, suona anche necessariamente come
bocciatura sonora della legge Delrio, in quanto essa è stata espressamente
adottata in attesa di una riforma della Costituzione, in quanto legge ordinaria
che, di fatto, ha agito nell’esercizio di un potere costituente e non di
legislazione ordinaria.
Esiste un dovere politico, oltre
che giuridico, di intervenire sulla legge Delrio almeno per eliminare
esattamente quella clausola di stile, semplicemente inaccettabile per l’ordinamento,
al netto, poi dei problemi complessivi di costituzionalità del disegno della
riforma.
Che andrebbe cancellata e
profondamente rivista (tornare totalmente indietro non sarà possibile) per
almeno due motivi. Uno di fatto, l’altro sempre di legittimità costituzionale.
Esaminiamo il motivo di fatto.
La legge Delrio andrebbe profondamente rivista per una ragione molto semplice:
oltre ad aver illegittimamente inteso anticipare gli effetti di una riforma
costituzionale, è risultata, in combinazione con la legge 190/2014, un disastro
operativo di proporzioni gigantesche. Infatti, ha determinato quasi tre anni di
mancate manutenzioni alle strade, divenute dei colabrodi, e alle scuole che ben
lontane dall’essere “belle” e “buone”, a loro volta risentono fin troppo di
mancati finanziamenti per interventi di manutenzione, rispetto della normativa
anti incendi ed anti sismica. Ma non sono solo queste le disfunzioni causate,
come si nota, non all’ente provincia, bensì ai cittadini e ai loro diritti: si
potrebbe parlare della riduzione formidabile delle ore di formazione
professionale, o anche della conculcazione gravissima del diritto allo studio
dei disabili, privati del servizio di accompagnamento a scuola e dell’assistenza
allo studio, nel caso dei disabili sensoriali.
Oltre a questo cumulo di macerie
organizzative e disastri dei servizi, una parte intera della legge Delrio non
ha assolutamente funzionato: l’incentivazione all’associazionismo comunale, che
avrebbe addirittura dovuto creare unioni tali da sostituirsi alle province come
enti intermedi tra comuni e regione. Solo in Friuli Venezia Giulia l’esperimento
è ancora in corso, ma destinato già al fallimento, analogo a quello che si è
già registrato in Sicilia, dove la trasformazione delle province di “liberi
consorzi” è una barzelletta esilarante. Nel resto d’Italia, forma associative
sostitutive delle province non si sono viste nemmeno col microscopio a
scansione nucleare, né mai si vedranno.
Sul piano strettamente
giuridico, salta all’occhio che resta nella Costituzione l’indicazione delle
province quali elementi essenziali della Repubblica, che con pari dignità
istituzionale degli altri (comuni, città metropolitane, regioni e Stato) la
costituiscono.
Il combinato disposto tra gli
articoli 5 e 114 della Costituzione e, soprattutto, la loro pari dignità
istituzionale, in relazione ancora all’articolo 1 che dispone la sovranità
popolare, rende ovviamente costituzionalmente insostenibile una legge che ha
privato i cittadini del diritto di voto dei rappresentanti politici
provinciali. Nulla impedisce che essi continuino, come previsto dalla Delrio, a
svolgere il loro mandato gratuitamente. Ma, l’elezione di secondo grado è una
mortificazione della pari dignità istituzionale delle province e della
sovranità popolare.
C’è ancora da osservare l’erroneità
della visione proposta dal D’Atena, che ha richiamato implicitamente nell’intervista
al Messaggero la sentenza della Corte costituzionale 50/2015, di rigetto di
ricorsi proposti da alcune regioni contro la riforma Delrio. Una sentenza, in
verità molto debolmente argomentata, figlia di un “clima” particolarmente
contrario alle province e anche in qualche misura inevitabilmente condizionata
dai contenuti dei ricorsi, oggettivamente non del tutto persuasivi.
Ma, il D’Atena, come qualsiasi
altro costituzionalista e, soprattutto Governo e Parlamento, non dovrebbe
dimenticare una ben più importante ed impattante sentenza della Consulta che,
invece, fin qui è passata sotto silenzio, come non fosse mai stata pronunciata,
nonostante essa sia deflagrante per far saltare in aria l’impianto della
riforma Delrio nel suo micidiale combinato disposto con la legge 190/2014.
Si tratta della sentenza 205/2016,
che nel respingere i ricorsi proposti contro l’articolo 1, comma 418, della
legge 190/2014, sancisce: “Più
precisamente, dunque, disponendo il comma 418 che le risorse affluiscano «ad
apposito capitolo di entrata del bilancio dello Stato», si deve ritenere – e in questi termini la disposizione va correttamente
interpretata – che tale allocazione
sia destinata, per quel che riguarda le risorse degli enti di area vasta
connesse al riordino delle funzioni non fondamentali, a una successiva riassegnazione agli enti subentranti nell’esercizio
delle stesse funzioni non fondamentali (art. 1, comma 97, lettera b, della
legge n. 56 del 2014). La previsione del versamento al bilancio statale di
risorse frutto della riduzione della spesa da parte degli enti di area vasta va
dunque inquadrata nel percorso della complessiva riforma in itinere. E, così intesa, essa si risolve in uno
specifico passaggio della vicenda straordinaria di trasferimento delle risorse
da detti enti ai nuovi soggetti ad essi subentranti nelle funzioni riallocate,
vicenda la cui gestione deve necessariamente essere affidata allo Stato
(sentenze n. 159 del 2016 e n. 50 del 2015). I commi 418, 419 e 451, dunque, non violano l’art. 119, primo, secondo
e terzo comma, Cost. nei termini lamentati dalla ricorrente, perché le disposizioni
in essi contenute vanno intese nel senso che il versamento delle risorse ad
apposito capitolo del bilancio statale (così come l’eventuale recupero delle
somme a valere sui tributi di cui al comma 419) è specificamente destinato al
finanziamento delle funzioni provinciali non fondamentali e che tale misura
si inserisce sistematicamente nel contesto del processo di riordino di tali
funzioni e del passaggio delle relative risorse agli enti subentranti”.
In modo incontrovertibile, la
Consulta ha emanato per questa parte una sentenza interpretativa di rigetto in
merito all’articolo 1, comma 418, della legge 190/2014, espressamente
considerato come una norma non incostituzionale solo se intesa nel senso che il
prelievo forzoso da esso imposto alle province avrebbe un particolare “vincolo
di destinazione”: cioè, trasferire le risorse necessarie allo svolgimento delle
funzioni non fondamentali dalle province, agli enti subentranti.
Questo implica almeno le
seguenti conseguenze:
1) sono
incostituzionali tutte le leggi dello Stato che destinano i miliardi imposti
come prelievo forzoso al bilancio dello Stato, senza che da lì defluiscano a
finanziare gli enti subentrati alle province (per decisione delle regioni)
nella gestione delle funzioni provinciali non fondamentali; in una parola, il
prelievo forzoso destinato a sostenere spese diverse da quelle per le funzioni
provinciali è costituzionalmente illegittimo;
2) le
regioni che sono subentrate in larga misura alle province nella gestione delle
funzioni non fondamentali, hanno pieno diritto di ricevere dallo Stato i 3
miliardi che questo sottrae alle province, per finanziare le funzioni
provinciali non fondamentali che le regioni si sono accollate;
3) laddove
le province fossero state confermate dalle regioni (in molti casi è avvenuto)
quali titolari delle funzioni non fondamentali, a loro volta esse avrebbero il
diritto di ricevere dallo Stato la quota parte del prelievo forzoso imposto,
per finanziare i servizi (ivi compreso anche il personale).
A seguito del referendum del 4
dicembre 2016, le regioni potrebbero giustificatamente essere tentate dal
restituire alle province tutte le funzioni non fondamentali. Infatti, il
meccanismo perverso e devastante determinato dalla combinazione terribile delle
fallimentari leggi 56/2014 e 190/2014, ha costretto le regioni a farsi
direttamente carico di coprire per intero il prelievo forzoso imposto dallo
Stato alle province, visto che lo Stato si è guardato bene dal considerare tali
risorse come soggette al vincolo di destinazione, pur voluto dalla Corte
costituzionale. Le regioni, quindi, potrebbero a giusta ragione affermare che,
contrariamente a quanto asserito da prime superficiali analisi, la mancata
approvazione della riforma costituzionale dà modo di riattribuire alle province
funzioni e, di conseguenza, finanziamenti. Di fatto, erodendo quasi ad azzerare
gli effetti della legge 190/2014. Ma, se si azzerano quegli effetti, vuol dire
che le funzioni qualificate imprudentemente come “non fondamentali” in attesa
di un futuro assetto costituzionale mai entrato in vigore, tornerebbero alle
province, vanificando quasi del tutto la scellerata riforma Delrio, che ha
avuto la presunzione di poter modificare un assetto istituzionale definito
dalla Costituzione con una semplice legge ordinaria.
Pare ve ne sia abbastanza per
concludere per l’irrimediabile incostituzionalità dell’impianto complessivo
della riforma delle province. Il che è necessario affermarlo, allo scopo non di
escludere a priori una possibile riforma delle province, bensì di confermare
che non va bene qualsiasi riforma, in qualsiasi modo pensata e scritta; al
contrario, le riforme possono rivelarsi utili ed efficaci, se oltre al titolo
ed agli slogan populistici, si riesce a scriverle bene, ad incastrare tutti gli
elementi, a fare una corretta valutazione di impatto e delle conseguenze e,
soprattutto, qualora si tratti di una riforma attuativa di altra riforma della
Costituzione, ad attendere che prima
entri in vigore la riforma costituzionale, per poi, ma solo poi, adottare le leggi ordinarie necessarie.
Sul recupero del prelievo forzoso,abbiamo presentato una mozione:
RispondiEliminahttp://www.consregsardegna.it/XVLegislatura/Mozioni/Moz275.pdf
http://piacerepiapiapia.blogspot.it/2016/12/mozione-carta-angelo-psdaz-sul-recupero.html