L’aspetto più eclatante ed innovativo della speding
review varata lo scorso 30 aprile è che il Governo ha commissariato se stesso,
novità assoluta nell’ordinamento giuridico.
Tecnici che hanno bisogno di
altri tecnici (al quadrato) per individuare le spese da tagliare: non è certo
un buon segno. Soprattutto perché il lavoro preliminare alla spending review,
sintetizzato dalle slide distribuite dal Ministro Giarda, è costellato di una
serie di indicazioni ed informazioni perfettamente note non da tempo, ma da
sempre.
Selezioniamo fior da fiore:
1.
l’analisi evidenzia che la spesa pro-capite è più alta nei
piccoli comuni, rispetto a quella dei comuni di maggiori dimensioni:
2.
lo stesso avviene per quanto riguarda le province: si spende
di più, per abitante, dove le amministrazioni provinciali sono più piccole:
4. la grandissima parte della spesa corrente si concentra nelle amministrazioni dello Stato, nella sanità e nei comuni:
Tutti elementi di cognizione per
nulla nuovi. L’analisi del Governo, simmetricamente, rivela che nonostante
questi fenomeni fossero noti da sempre, ad esempio la spesa per la sanità dal
1990 al 2009 è aumentata:
Come si nota leggendo la tabella
precedente a quella qui in alto, la spesa “rivedibile” della sanità è
concentrata in parte prevalente (69 miliardi) nei “consumi intermedi”, cioè
acquisti di beni e servizi (non si parla, dunque, delle prestazioni dirette ai
malati).
Allo stesso modo, il livello più
alto della spesa rivedibile è quello della sanità, appena superiore a quella
dello Stato.
In questi anni, tuttavia, le
tantissime leggi finanziarie e di aggiustamento dei conti hanno concentrato le
loro attenzioni totalmente da un’altra parte, prendendo di mira in particolare
gli enti locali, comuni e province, spostando alla periferia la gran parte dei
tagli e degli sforzi per la riorganizzazione. Gli enti locali, tra regole
sempre cangianti del patto di stabilità e vincoli molto stringenti ad
assunzioni ed operatività delle società partecipate, indirettamente da anni
hanno posto in essere una loro spending review. A ciò anche spinti dal
dissennato disegno “federalista”, partito con la frettolosa ed arruffata
riforma del Titolo V della Costituzione (legge costituzionale 3/2001) e
chiusosi, sostanzialmente, con l’abolizione dell’Ici, scelta che ha
letteralmente fatto saltare il banco, come il Presidente del Consiglio Monti ha
fatto notare nella conferenza stampa del 30 aprile, di presentazione della
spending review.
L’abolizione dell’Ici, unica vera
e propria tassa “federale” che consentiva ai comuni di finanziare i propri
servizi ha coinciso proprio col lancio del cosiddetto “federalismo fiscale”,
che nel breve volgere di 3 anni ha mostrato tutti i suoi problemi, confermando
di essere solo un’invenzione inesistente in qualsiasi altra parte del Mondo.
Non è dato, infatti, un fisco federale nel senso che l’erario si “spacchetta”
tra più enti. Semmai, è vero il contrario: nei paesi veramente federali (in cui
Stati sovrani cedono alla Federazione parte della loro sovranità, e non è il
caso dell’Italia) lo Stato Federale avoca a sè alcune entrate fiscali, mentre
tutte le altre restano in capo agli stati membri.
In una fase di crisi economica,
come quella che già c’era nel 2008, pensare di spezzettare in mille rivoli il
fisco è stato un azzardo. Che, come predetto da molti, ha contribuito ad
elevare la pressione fiscale, per effetto del meccanismo perverso per il quale
lo Stato non ha tagliato in modo significativo la propria spesa e dunque ha
mantenuto invariata, anzi ha aumentato, la propria fiscalità, ma ha ridotto i
trasferimenti agli enti locali sul falso presupposto che essi godessero di un
“fisco federale”. In realtà, altro non si è fatto che consentire agli enti
locali di compensare i minori trasferimenti erariali con nuove imposte locali
(vedi tassa di scopo, oppure imposta di soggiorno o tutte le addizionali),
facendo impazzire il sistema.
Del federalismo fiscale l’unica
idea corretta è la determinazione dei fabbisogni standard, intesi come livello
corretto ed accettabile di una spesa di un certo tipo. Da quanto par di capire,
Enrico Bondi, il tecnico al quadrato che si dovrà occupare della spesa per
acquisizione di beni e servizi, avrà il compito appunto di fissare l’asticella
della spesa per i contratti della pubblica amministrazione, determinando i
livelli corretti di spesa per tipologia di beni e servizi.
Ma, e veniamo ai punti “dolenti”
della spending review, mentre ci si augura che l’opera di revisione della spesa
avviata dal Governo produca gli effetti sperati, non si può fare a meno di
focalizzare elementi di incoerenza ed evidenti limiti.
Partiamo proprio dall’idea,
certamente ineccepibile, di assegnare al Commissario Bondi il compito (come
indica il comunicato stampa del Governo) “di coordinare l’attività di
approvvigionamento di beni e servizi da parte delle PA, incluse tutte le
amministrazioni, autorità, anche indipendenti, organi, uffici, agenzie o
soggetti pubblici, gli enti locali e le regioni, nonché assicurare una
riduzione della spesa per acquisti di beni e servizi, per voci di costo, delle
amministrazioni pubbliche”. Sembra proprio di aver già sentito e letto
simili indicazioni. Per la precisione e solo per non risalire ancora più in là
nel tempo, analoghe previsioni si ritrovano nella legge 537/1993, la prima
legge finanziaria del primissimo Governo-Berlusconi, nell’articolo 6, commi 2 e
17, che vale la pena riportare:
“Il Ministero del tesoro -
Provveditorato generale dello Stato e le altre pubbliche amministrazioni che
abitualmente provvedono all'esecuzione dei contratti per l'acquisto di beni e
servizi redigono e tengono aggiornati elenchi dei prezzi pagati. I dati
relativi sono trasmessi al Ministero del bilancio e della programmazione
economica che, avvalendosi dell'Istituto di studi per la programmazione
economica (ISPE), degli altri istituti facenti parte del sistema statistico
nazionale e del centro di elaborazione dati presso l'Autorita' per
l'informatica nella pubblica amministrazione, provvede alla comparazione dei
prezzi pagati dalle pubbliche amministrazioni ed alla pubblicazione trimestrale
dei prezzi di riferimento con particolare riguardo alla fornitura di grandi
quantita' di beni e servizi. Con regolamento da emanare entro quaranta giorni
dalla data di entrata in vigore della presente legge, i Ministri del bilancio e
della programmazione economica, del tesoro e per la funzione pubblica
stabiliscono responsabilita', tempi, obblighi, criteri e procedure per la
rilevazione e la comparazione dei prezzi. […]
17. E' costituito, entro
sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, in
posizione di autonomia funzionale e organizzativa, l'Osservatorio dei lavori
pubblici, articolato in un servizio centrale e in servizi regionali, aventi
sede presso i provveditorati regionali alle opere pubbliche. Esso provvede alla
raccolta ed alla elaborazione dei dati informativi concernenti i lavori
pubblici su tutto il territorio nazionale, definisce, in base a criteri
tecnici, i costi standardizzati per regione e per tipo di lavoro e rende
pubblici i costi stessi entro il 31 gennaio di ciascun anno. A tal fine lo
stesso Osservatorio si avvale del Centro elaborazione dati della soppressa
Agenzia per la promozione dello sviluppo del Mezzogiorno. Sino alla
costituzione dell'Osservatorio, provvede il Consiglio superiore dei lavori
pubblici”.
Il tutto suona sinistramente. A
distanza di 17 anni, infatti, come si nota queste pie intenzioni non sono state
per nulla tradotte in pratica. Anche l’operato meritorio della Consip è servito
a poco per armonizzare la spesa pubblica finalizzata all’acquisto di beni e
servizi. Un po’ perché non è vero che i prezzi spuntati dalla società
partecipata dal Ministero delle finanze sono sempre migliori, specie se
confrontati con fornitori dei territori locali; un po’ perché moltissime
amministrazioni, nonostante per legge siano tenute ad approvvigionarsi dalla
Consip, se ne guardano bene, per primi gli istituti scolastici (in questo caso,
bene fa il Governo a prendere di mira le scuole).
Difficile, viste le premesse,
immaginare che anche un Commissario plenipotenziario come sembra sarà Bondi
potrà riuscire a raddrizzare nel breve tempo la situazione e produrre
finalmente, dopo anni ed anni, costi standardizzati per i contratti della
pubblica amministrazione.
Sembra, tuttavia, da osservare
che la spending review, dagli elementi fin qui noti, abbia preso in
considerazione la spesa per i contratti solo finanziaria e monetaria, senza
fornire indicazione alcuna sulla qualità della spesa stessa. L’Italia è la
patria delle opere incompiute, lasciate a metà. Si tratta di spesa in conto
capitale, dunque in linea teorica virtuosa. Ma se un viadotto, un ponte, un
impianto sportivo, non viene completato non si determina l’incremento al valore
del patrimonio e all’economia territoriale potenzialmente retrostante l’opera.
Anzi, il finanziamento va perduto e lo scopo di pubblica utilità mancato. In
ogni caso, le opere pubbliche per la gran parte sono finanziate a debito,
ricorrendo a mutui, i cui interessi gonfiano la spesa corrente.
Occorrerebbe una regolata
fortissima alle spese per appalti. Le condizioni finanziarie dell’Italia
dovrebbero limitarle qualitativamente alle sole manutenzioni (sul patrimonio
scolastico e stradale occorrerebbero fior di interventi) ed a opere realmente
strategiche, con buona pace delle promesse e degli impegni di ministri,
assessori, sottosegretari, parlamentari, consiglieri e subconsiglieri che sul
casello, sul mercato, sulla piscina, sul viadotto costruiscono spesso i loro
consensi, fine a se stessi.
L’analisi del Ministro Giarda,
con riferimento al Ministero dell’Interno, sempre a proposito di contratti,
sottolinea: “La spesa è pari a 1700 milioni l’anno ma di essi 400 non
sono coperti dagli stanziamenti iniziali”. Ecco un’altra fonte
diffusissima di spreco. Il solo Viminale attiva contratti pubblici per 1,7
miliardi, dei quali quasi un quarto, il 23,53%, non ha iniziale copertura
finanziaria! Ecco perché le opere o i servizi si interrompono, perché i costi
aumentano, perché i pagamenti non sono puntuali!
Risulta incredibile che nelle
amministrazioni dello Stato siano ancora in uso prassi, come quella di attivare
contratti senza copertura finanziaria, per esempio totalmente estirpate negli
enti locali (salvo, in quel caso, comportamenti al di fuori della legalità).
Assurdo aspettare dal Commissario
Bondi la segnalazione di “norme di legge o regolamento che determinano spese
o voci di costo e che possono essere razionalizzate” (cit. da comunicato
stampa del Governo). Le disfunzioni normative sono già evidenti. Occorre
imporre a Stato e Sanità le stesse norme operanti per le amministrazioni
locali, che vietano di stipulare alcun contratto senza l’adozione preventiva
dell’impegno di spesa, con la precisazione che in caso contrario il rapporto
contrattuale insorge tra il dirigente o funzionario che abbia dato corso al
contratto. Non ci vuole la spending review per una norma tanto semplice, quanto
necessaria.
In ogni caso, l’analisi del
Governo brilla per la totale assenza di una specifica previsione di
contenimento delle spese contrattuali della Sanità, mentre per quanto riguarda
lo Stato qualche timida indicazione si ha appunto per Viminale e scuola. Un po’
poco.
Resta, in effetti, ancora e al
fondo la tentazione di incidere sulle amministrazioni locali. Ma, quali?
L’analisi del Ministro Giarda, in questo caso, risalta per assoluta
contraddizione in termini. Come visto prima evidenzia (ma lo sapevano già
tutti) che nei comuni piccoli, come nelle province piccole, il costo pro-capite
dei servizi è maggiore. Chiunque abbia studiato elementi di economia politica e
scienza delle finanze sa perfettamente che l’allocazione e la spesa delle
risorse risulta tanto più inefficiente quanto più piccola e parcellizzata è
l’organizzazione; al contrario, le economie di scala consentono maggiori
risparmi.
In questo caso, il Governo
fotografa l’ovvio. Ci si aspetterebbe, allora, una soluzione razionale:
accorpare le province, certo, ma anche accorpare i comuni piccoli o, quanto
meno, vietare loro di svolgere tutti i servizi propri dell’ente locale,
concentrandoli nella realtà più grande. A questo punto, la soluzione al
problema sarebbe automatica: le province, una volta accorpate, potrebbero per
loro stessa natura essere la sede dello svolgimento di una serie di attività e
servizi per conto dei comuni più piccoli, a partire dalla funzione di centrale
unica appaltante, passando per il controllo della pianificazione territoriale.
E invece, nella relazione del Governo che illustra quanto è stato fin qui fatto
(poco) per la riduzione delle spese, nel punto 2 dedicato alle province si
legge: “In Parlamento sta maturando un orientamento largamente condiviso
volto a concentrare nelle province poche funzioni operative di “area vasta”
(governo del territorio, trasporti, mobilità) unitariamente a una drastica
riduzione delle attuali province. Il risparmio previsto con il Salva Italia
è di circa 34 milioni di Euro (fonte UPI). La riorganizzazione delle
funzioni e delle competenze interessa una spesa complessiva di circa 4 miliardi”.
Insomma, lungi dall’ascoltare il richiamo della Bce, che invita ad accorpare e
non sopprimere le province ed individuarle come enti per la razionalizzazione
delle debolezze che caratterizzano l’ordinamento locale, il Governo casca
ancora ai richiami delle sirene della stampa “anti-casta” che invoca
l’abolizione delle province senza sapere bene perché, insistendo nell’intento
di sottrarre alle province funzioni (da attribuire a chi? A quegli stessi
comuni non in grado di gestire efficientemente le proprie?), il tutto per un
risparmio di 34 milioni! Cioè, sull’obiettivo del 2012, pari a 4,2 miliardi, lo
0,81%, ma sull’obiettivo che il Governo ha ventilato 80 miliardi lo 0,04%! Meno
delle briciole.
Il Governo ha anche elaborato una
bozza di direttiva per indicare gli interventi di risparmio alle
amministrazioni centrali. L’elenco non manca di punti controversi.
a. Revisione dei programmi di spesa e dei
trasferimenti, verificandone l’attualità e l’efficacia ed eliminando le spese
non indispensabili e comunque non strettamente correlate alla missioni
istituzionali;
La formula utilizzata è,
ovviamente, molto generica ed indeterminata. Tuttavia, fondamentale è
l’indicazione di eliminare le spese non strettamente correlate alle funzioni
istituzionali. Spessissimo le amministrazioni si sovrappongono nel sostenere
l’arte, le imprese, le pari opportunità, politiche giovanili, studi, ricerche.
E’ il caso di iniziare a porre vincoli di spesa inderogabilmente legati alle
competenze istituzionali.
b. Ridimensionamento delle strutture dirigenziali
esistenti, anche in conseguenza del ridimensionamento dei programmi di spesa;
Come possa contestualmente il
Governo dare un’indicazione certamente corretta come questa (per altro già
contenuta in molte norme finanziarie) e poi continuare a mantenere in vigore
l’articolo 19, comma 6, del d.lgs 165/2001 sulla dirigenza a contratto e,
soprattutto, aver nuovamente allargato le maglie della dirigenza a contratto
negli enti locali è impossibile capire.
Una fonte di spreco e di
inefficienza è certamente la dirigenza “fiduciaria”, spesso null’altro che di
espressione partitica, inserita in posti di comando per perseguire fini di
parte e non interessi comuni. Andrebbe immediatamente estirpata con una
semplicissima norma di abolizione del citato articolo 19, comma 6, ed ogni
altra disposizione simile o analoga.
c. Razionalizzazione delle attività e dei servizi
offerti sul territorio e all’estero, finalizzata alla riduzione dei costi e
alla razionalizzazione della distribuzione del personale, anche attraverso
concentrazioni dell’offerta e dei relativi uffici;
La riduzione sensibile del
personale delle amministrazioni pubbliche ha creato scatoloni vuoti nelle sedi
provinciali delle prefetture, dell’Inps, delle direzioni territoriali per il
lavoro, anche perché negli anni molte funzioni e parte del personale sono stati
assegnati a comuni e province.
Non sarebbe per nulla difficile
concentrare in quei “casermoni” tutti questi uffici.
d. Riduzione, anche mediante accorpamento, degli
enti strumentali e vigilati e delle società pubbliche
Il disboscamento della miriade
nemmeno ben conosciuta di tutti gli enti strumentali e di varia altra natura
nazionale e regionale, prima ancora dell’accorpamento delle province,
consentirebbe razionalizzazioni e risparmi rilevantissimi.
Le province non sono quasi per
nulla inserite in iter procedimentali di altri enti, in quanto gestiscono
procedure loro proprie che nascono e muoiono all’interno di detti uffici. Gli
enti strumentali, agenzie, vigilati di Stato e regioni si intrufolano, invece,
in ogni meandro amministrativo, allungando tempi e procedure. In più, ognuno ha
un presidente, un consiglio, un direttore generale, insomma un apparato di
governo che si sovrappone agli organi di governo già esistenti.
e. Riduzione in termini monetari per la spesa per
acquisto di beni e servizi anche mediante l’individuazione di responsabili
unici della programmazione della spesa, nonché attraverso una più adeguata utilizzazione
delle procedure espletate dalle centrali di acquisto ed una più efficiente
gestione delle scorte.
Come rilevato sopra, occorrerebbe
porsi il problema anche della qualità della destinazione della spesa, oltre che
cercare di cogliere il giusto obiettivo della riduzione dei costi dei
contratti.
I responsabili unici esistono
già. Non è con la responsabilizzazione dei funzionari che si ottiene la
razionalizzazione, ma con l’innovazione procedurale ed organizzativa. Un cenno
alle tecnologie informatiche non sarebbe stato male.
f. Ricognizione degli immobili in uso; riduzione
della spesa per locazioni, assicurando il controllo di gestione dei contratti;
definizione di precise connessioni tra superficie occupata e numero degli
occupanti;
La “ricognizione” degli immobili
in uso dà la sensazione, corretta, che non si sappia nemmeno bene dove i
servizi sono rei.
La spesa per locazioni è
sciaguratamente salita negli anni a causa delle cartolarizzazioni e delle
operazioni Scip, dalle quali è difficilissimo venir fuori. Ma il patrimonio
pubblico è sterminato e la possibilità di un’analisi logistica di incremento
dell’efficienza è da dare per scontata.
g. Ottimizzazione dell’utilizzo degli immobili di
proprietà pubblica anche attraverso compattamenti di uffici e amministrazioni;
Si ripete il concetto espresso
prima.
h. Restituzione all’agenzia del demanio degli
immobili di proprietà pubblica eccedenti i fabbisogni;
La restituzione all’agenzia ha
senso, se si prevede poi di dismettere tali immobili, o di farli fruttare
commercialmente.
i. Estensione alle società in house dei vincoli vigenti in materia di consulenza;
i. Estensione alle società in house dei vincoli vigenti in materia di consulenza;
La cosa è già prevista per le
società in house degli enti locali. Non si è mai capito perché ne restassero
fuori quelle, tantissime, dello Stato e quelle quotate in borsa, dove realmente
si concentra potere e correlato pericolo di malaffare e corruzione.
l. Eliminazione, ad eccezione di casi eccezionali
riferibili per esempio a rapporti con Autorità estere, di spese di
rappresentanza e spese per convegni;
La legge 122/2010 ci aveva già
provato, ma negli enti locali una serie di pareri, molto contraddittori, delle
Sezioni Regionali della Corte dei conti ha quasi vanificato l’obiettivo.
Occorrerebbe essere molto
drastici: l’amministrazione pubblica deve rendere servizi, non è organizzatrice
di manifestazioni, convegni e premi.
Anche il tema dei contributi a
pioggia per tali fini e, comunque, ad enti ed associazioni spesso collaterali
ai partiti e funzionali alle campagne elettorali, andrebbe affrontato con la
previsione di una loro totale eliminazione.
m. Proposizione di impugnazioni avverso sentenze di
primo grado che riconoscano miglioramenti economici progressioni di carriera
per dipendenti pubblici, onde evitare che le stesse passino in giudicato.
La spending review non tratta
quasi per nulla il tema delicatissimo della spesa di personale, se non per
questo cenno. In effetti, troppo spesso le amministrazioni nemmeno si difendono
contro azioni dei sindacati, poste a cristallizzare clausole contrattuali nulle
o contrarie a legge, come l’esperienza delle vertenze intentate nei riguardi
delle amministrazioni che intendevano, correttamente, attuare la
riforma-Brunetta, ha insegnato.
Agire in giudizio fino in fondo
per evitare effetti devastanti delle pronunce dei giudici del lavoro deve
essere un obbligo.
Ma, meglio sarebbe riattribuire
la giurisdizione in tema di lavoro pubblico ai giudici amministrativi, come
giurisdizione esclusiva, vista l’esperienza certamente non positiva dei giudizi
dei giudici del lavoro, non avvezzi alle particolarità che caratterizzano il
rapporto di lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche.
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