domenica 17 giugno 2012

Si scrive spending review, ma si legge tagli, in cerca di sviluppo per decreto

Nel 2011 si sono contati non meno di 4 decreti “sviluppo”, mentre l’economia andava verso la china che poi ha portato a novembre al cambio del Governo. Non poteva mancare, dunque, nemmeno nel 2012 un ennesimo decreto “sviluppo”, il taumaturgo che dovrebbe portare l’Italia fuori dalle secche nelle quali si ritrova impantanata proprio perché, come dimostra la quantità spropositata di decreti appositamente dedicati, manca esattamente lo sviluppo, cioè la crescita del prodotto interno lordo.

E’ quel numero magico, il prodotto interno lordo, che se preceduto da un + e seguito da un numero sufficientemente al di sopra dell’1, misura l’incremento della ricchezza prodotta dal Paese, al quale consegue automaticamente, senza manovre, un aumento del gettito fiscale ed un plus di entrate, che può essere utilizzato per abbattere il debito e, se la struttura economica lo consente, in parte residua anche per politiche di crescita o welfare.

Nel 2012 il Pil sarà profondamente negativo, vicino al –2%. Immaginare, dunque, uno sviluppo indotto per decreto è quanto meno ottimistico. E, infatti, la sensazione che la manovra governativa abbia più lo scopo mediatico di infondere fiducia che la concreta vera possibilità di innescare la crescita cui ambisce è molto forte. E’ indiscutibilmente un Governo che con i dati e la comunicazione intende “manovrare” molto. Lo dimostra la disdicevole vicenda degli “esodati”, per effetto della quale l’ira del Ministro del lavoro contro l’Inps non è scaturita da errori dell’ente nel conteggio della cifra complessiva di circa 390.000 lavoratori né pensionati né più al lavoro, ma dalla circostanza che il dato sia stato diffuso.

Ora, col “decreto sviluppo” il Governo ha fatto passare l’idea che verranno immessi nel sistema economico 80 miliardi di euro. Cifra del tutto inesistente nella relazione tecnica, che prevede una spesa di un miliardo circa. Gli 80 miliardi dovrebbero essere un effetto indotto, dalle “ideone” contenute nel decreto. Che, in gran parte, si possono sintetizzare in interventi dedicati al rilancio delle opere edilizie. Tutt’altro che una ricetta nuova, la cui funzionalità in tempi di fortissima stretta creditizia è tutta da verificare. Tanto è vero che si tenta di favorire la realizzazione delle infrastrutture col ripristino Iva per cessioni e locazioni da parte delle imprese edili di nuove costruzioni, in modo da permettere ai costruttori di accedere a compensazioni fiscali; inoltre si allinea il trattamento fiscale dei project bond a quello dei titoli di stato. Resta il dubbio su chi li comprerebbe.

Per quanto riguarda le scelte amministrative, come ogni buon decreto “sviluppo” o manovra finanziaria estiva (ormai distinguere tra queste tipologie di decreti risulta arduo) non potevano mancare interventi e modifiche alla legge 241/1990 e, in particolare, all’articolo 19, la norma dedicata alla liberalizzazione delle attività economiche, oggetto di continue e periodiche rivisitazioni.

Il Legislatore non è stato ancora capace una volta per tutte di liberalizzare una volta e per sempre con una regola universale qualsiasi attività economica, mediante una semplicissima inversione degli oneri procedurali: trasformare l’attività amministrativa da funzione di verifica documentale finalizzato a permettere l’avvio delle attività produttive, in funzione di controllo successivo sulla veridicità delle dichiarazioni rilasciate dai privati allo scopo di partire direttamente con le attività, di verificare la rispondenza dei lavori ai progetti e di irrogare, senza limiti di tempo, provvedimenti di inibizione al prosieguo o prescrittivi per regolarizzarsi.

Niente di tutto ciò. In particolare, la segnalazione certificata di inizio attività continua e continuerà ad avere regimi differenziati per l’edilizia, anche col decreto “sviluppo”. Si modifica l’articolo 19, comma 1, terzo periodo della legge 241/1990, precisando: “Nei casi in cui la normativa vigente prevede l’acquisizione di atti o pareri di organi o enti appositi, ovvero l’esecuzione di verifiche preventive, essi sono comunque sostituiti dalle autocertificazioni, attestazioni e asseverazioni o certificazioni di cui al presente comma, salve le verifiche successive degli organi e delle amministrazioni competenti.”. Ne dovrebbe conseguire l’immediata abolizione di organismi di discutibile utilità come le commissioni edilizie comunali e, come ribadito sopra, l’eliminazione dei termini eccessivamente brevi entro i quali le amministrazioni possono adottare i provvedimenti inibitori e conformativi relativi alle attività così ulteriormente liberalizzate.

Per una volta, comunque, il decreto sviluppo cerca di coordinare la modifica all’articolo 19, comma 1, della legge 241/1990 con l’articolo 23 del dpr 380/2001, nel quale si inserisce un nuovo comma 1-bis: “Nei casi in cui la normativa vigente  prevede l’acquisizione  di atti o pareri di organi o enti appositi, ovvero l’esecuzione  di verifiche preventive, con la sola esclusione dei casi in cui sussistano vincoli ambientali, paesaggistici o culturali e degli atti rilasciati dalle amministrazioni preposte alla difesa nazionale, alla pubblica sicurezza, all’immigrazione, all’asilo, alla cittadinanza,  all’amministrazione della giustizia, all’amministrazione delle finanze, ivi compresi gli atti concernenti le reti di acquisizione del gettito, anche derivante  dal gioco, nonché di  quelli previsti dalla normativa per le costruzioni in zone sismiche e di quelli imposti dalla normativa comunitaria, essi sono comunque sostituiti  dalle autocertificazioni, attestazioni e asseverazioni o certificazioni di tecnici abilitati relative alla sussistenza dei requisiti e presupposti previsti dalla legge, dagli strumenti urbanistici approvati o adottati e dai regolamenti edilizi, da produrre a corredo  della documentazione di cui al comma 1, salve le verifiche successive degli organi e delle amministrazioni competenti”.

Come sempre, il Legislatore anche quando parla di “sviluppo” e “semplificazioni” non sa rinunciare ad insufflare nell’attività amministrativa nuova e dannosa burocrazia.

Ne è inquietante esempio la norma sulla cosiddetta “amministrazione aperta”, in linea teorica fatta passare come esempio di “trasparenza”, nella realtà un carico burocratico enorme, come pegno al giornalismo che fa delle inchieste sommarie sulla spesa pubblica la propria bandiera e a cui deve la celebrità. La previsione dell’ “amministrazione aperta” consentirà, dunque, ai giornalisti di attingere fior da fiore a chicche per articoli a sensazione. Ma la”trasparenza ai fini del controllo degli elettori” non ha alcuna funzionalità. Se, come è giusto, si intende verificare la correttezza, legittimità ed utilità delle spese, la strada corretta è solo una: ripristinare i controlli preventivi sugli atti di spesa. L’elettorato è guidato da altri meccanismi, altrimenti non voterebbe in massa partiti che nemmeno hanno mai avuto posti ai governi statali e territoriali.

Eppure, le amministrazioni si ritroveranno con un nuovo carico non da poco, che si aggiunge a tutte le altre numerosissime tipologie di pubblicazioni ai fini della trasparenza (albo pretorio, comunicazioni preventive, concomitanti e successive nell’ambito del codice dei contratti). La norma prevede che “la concessione delle sovvenzioni, contributi, sussidi ed ausili finanziari alle imprese e l'attribuzione dei corrispettivi e dei compensi a persone, professionisti ed imprese per forniture, servizi, incarichi e consulenze e comunque di vantaggi economici di qualunque genere di cui all’articolo 12  della legge 7 agosto 1990, n. 241 ad enti pubblici e privati, di importo complessivo superiore a mille Euro nel corso dell’anno solare, sono soggetti alla pubblicità  sulla rete internet, ai sensi del presente articolo e secondo il principio di accessibilità totale di cui all’articolo 11 del decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150”.

Come se i bandi di gara o gli avvisi pubblici, le pubblicazioni all’albo pretorio, le numerosissime pubblicazioni già imposte dalla legge per gli incarichi di consulenza e collaborazione (nessuna delle quali è abolita dalla norma e, dunque restano) non bastassero. Evidentemente occorre mettere i dati più ordinatamente a disposizione di Stella-Rizzo ed epigoni. Così, il legislatore entra anche nel dettaglio di come pubblicarli: “in deroga ad ogni diversa disposizione di legge o regolamento, nel sito internet dell’ente obbligato sono indicati: a) il nome dell’impresa o altro soggetto beneficiario ed i suoi dati fiscali; b) l’importo; c) la norma o il titolo a base dell’attribuzione; d) l’ufficio e il funzionario o dirigente responsabile del relativo procedimento amministrativo; e) la modalità seguita per l’individuazione del beneficiario; f) il link al progetto selezionato, al curriculum del soggetto incaricato, nonché al contratto e capitolato della prestazione, fornitura o servizio”. In più la raccomandazione: la tabella deve essere riportata in un “link ben visibile nella homepage del sito” istituzionale, e i dati “accessibili ai motori  di ricerca ed in formato tabellare che ne consente l’esportazione e il trattamento ai sensi dell’articolo 24 del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196”.

Fin qui nulla di grave, se si escludesse l’ennesimo adempimento di pubblicazione di dati ed elementi già pubblicati altre decine di volte.

La conseguenza più burocratica e dannosa discende dalla previsione secondo la quale “A decorrere dal 1 gennaio 2013 la pubblicazione ai sensi del presente articolo costituisce condizione legale di efficacia del titolo legittimante delle concessioni ed attribuzioni previste dal comma 1, e la sua eventuale omissione o incompletezza è rilevata d’ufficio dagli organi dirigenziali e di controllo, sotto la propria diretta responsabilità amministrativa, patrimoniale e contabile per l’indebita concessione o attribuzione del beneficio economico. La mancata, incompleta o ritardata pubblicazione è altresì rilevabile dal destinatario della prevista concessione o attribuzione e da chiunque altro abbia interesse,  anche ai fini del risarcimento del danno da ritardo da parte dell’amministrazione, mediante azione davanti al tribunale amministrativo regionale”.

Dunque, con una sola norma il Legislatore ottiene questi effetti paradossali:

a)                  introduce a partire dal 2013 una fase integrativa dell’efficacia sui provvedimenti di spesa, derivante esclusivamente dalla pubblicazione sul portale; nemmeno gli atti negoziali discendenti dalle procedure amministrative di individuazione saranno efficaci tra le parti, se non pubblicati. Occorrerà continuamente attestare in ogni atto e provvedimento il dato dell’avvenuta pubblicazione, una sorta di relata di pubblicazione perpetua e continua su ogni provvedimento, con buona pace della semplificazione amministrativa;

b)                 la pubblicazione dei dati diviene di per sé adempimento, fase e procedura, tanto che dirigenti (il cui ruolo sarebbe agire e decidere, non di fare da cani da guardia di meri adempimenti, come le pubblicazioni) ed organi di controllo debbono verificare sotto la propria “diretta” responsabilità che venga effettuata. Il Legislatore ha, dunque, avuto la capacità di introdurre un’ipotesi di responsabilità oggettiva di natura amministrativa in capo a dirigenti ed organi di controllo sulle pubblicazioni. Un insulto alla normativa sulla responsabilità;

c)                  l’omissione, anche discendente da colpa lieve, della pubblicazione comporta l’inefficacia degli atti negoziali e dei pagamenti. Potenzialmente, la norma comporta il rischio di una crescita esponenziale del contenzioso amministrativo davanti alla Corte dei conti, non derivante da mala gestio, cioè da cattiva gestione, ma da un mero, semplice adempimento informativo. Ciascuno valuti l’opportunità e l’utilità di questa scelta;

d)                 ma, il contenzioso non si fermerà nelle aule della magistratura contabile. Andrà anche avanti al giudice amministrativo, che sarà chiamato a valutare l’illegittimità del danno da ritardo scaturente da omissione o ritardo appunto nella pubblicazione. Ma anche verso le aule dei giudici ordinari, ai quali i beneficiari dei contributi o dei contratti si rivolgeranno per pretendere comunque l’adempimento da parte delle amministrazioni.

Non c’è che dire: una norma scriteriata, in gran parte inutile, fonte potenziale solo di nuova spesa pubblica e contenzioso, fatta, però, passare come fulgido esempio di buona amministrazione e semplificazione.

Nello stesso momento in cui il Governo si dedica alle mirabilie del decreto sviluppo, poi, avvia anche i primi passi di ciò che dovrebbe essere una spending review, ma nella realtà si sta traducendo in una più prosaica e semplice (per altro dovuta) operazione di meri tagli alla spesa. Che con la spending review, finalizzata a ridefinire gli obiettivi della spesa, c’entrano poco.

Un primo inizio deriva dal decreto di riordino delle Agenzie: quella dei monopoli sarà accorpata a quella delle dogane e quella del territorio all’agenzia delle entrate.

L’introduzione delle agenzie è stata frutto del periodo di riforma spinta della pubblica amministrazione quando Ministro della Funzione Pubblica era Franco Bassanini. Le macerie di quelle riforme stanno ancora ingombrando il campo. Di agenzie ne sono sorte tantissime, con conseguente moltiplicazione dei centri decisionali e di spesa, dei ruoli dirigenziali, delle missioni, dei rapporti con la stampa. Celeberrima l’inchiesta de Il Fatto Quotidiano sulle uova di struzzo da oltre mille euro che l’agenzia del territorio regalava come “spese di rappresentanza”.

Le agenzie hanno permesso di tagliare a fette l’amministrazione statale: dove prima c’era un ministero sono sorte agenzie, direzioni di controllo, cabine di regia, società gestite dalle agenzie stesse, un’esplosione di burocrazia e sovrastrutture amministrative incontrollata, con tanto di comparti contrattuali, inselvatichimento ulteriore della giungla retributiva, migliaia di dirigenti a contratto cooptati tra i dipendenti non aventi qualifica dirigenziale.

Il decreto sull’accorpamento delle agenzie, aprendo la strada ad una riforma che pare si estenderà a tutte le altre amministrazioni, prevede la riduzione delle dotazioni organiche e della dirigenza di prima e seconda fascia, circa del 20%. Strano: solo un mese e mezzo fa il decreto-fiscale aveva sanato la cooptazione di migliaia di dirigenti a contratto nelle agenzie e ora si scopre che almeno il 20% non era necessario.

Incongruenze di un legislatore che naviga a vista in un mare in tempesta, nel quale i “tecnici” non diffondono i numeri (dei quali dovrebbero avere totale padronanza) e per la spendinge review si affidano ad altri tecnici. I quali non possono che finire per proporre l’acqua calda: sui giornali, nei giorni scorsi, è trapelata la notizia per nulla sorprendente che i tagli riguarderanno anche il lavoro pubblico. Lo stesso Ministro Patroni Griffi, piuttosto restio a prendere atto che la riforma del lavoro avrà ricadute immediate e dirette anche sul lavoro pubblico, a meno che non si decida di derogare alle regole valevoli per tutti gli altri lavoratori del privato, ha fatto la faccia “feroce”, confermando che la spesa del personale andrà ridotta.

Si pensa alla riduzione dei metri quadrati a disposizione degli uffici, per ridurre i costi dell’utilizzo degli spazi. Si parla della riduzione del 5% delle dotazioni organiche, misura, questa, tuttavia che non comporta mai risparmi diretti e immediati. V’è, poi, l’intenzione di accompagnare alla pensione i dirigenti con 41 o 42 anni di contribuzione, sospendendo il rapporto di lavoro, nonché di imporre un tetto uguale per tutti (addio meritocrazia…) i dirigenti.

Sullo sfondo, la possibilità di tagli veri agli stipendi o la sospensione della tredicesima. Ovviamente si farà in modo di evitare questa conseguenza. Tuttavia, resta ancora in piedi la stima del Mef di 300.000 circa dipendenti pubblici a rischio esubero, più 56.000 dipendenti delle province sul cui destino ancora si è avvolti nella nebbia. L’ultima, scaturente sempre dalla spending review, è l’eliminazione delle province con meno di 300 mila abitanti, esattamente quanto previsto lo scorso agosto, 10 mesi fa, ma poi rimangiato. L’eterno stop and go nelle decisioni, che lascia spazio solo a pensare alla chimera di sviluppi resi possibili da decreti.

 

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