La spending review altro non è se non una delle tante manovre già viste
Anche giornali come La Repubblica, legittimamente schierati a difesa dell’operato del Governo, non hanno potuto fare a meno di sottolineare come il d.l. 95/2012 abbia poco a che vedere con la spending review e molto con le solite manovre alla Tremonti. Cioè tagli indiscriminati, altrimenti detti “lineari” a voci grossolane, individuate senza alcuna meditazione dai capitoli di spesa.
La spending review, contrariamente a quanto molti hanno percepito, non è un’operazione di tagli, bensì di revisione delle priorità di spesa, in relazione ad un programma politico.
Una modalità di questo tipo, se intento del Governo, come molte volte annunciato invano, è il perseguimento dell’equità, sarebbe il mantenimento del welfare, orientato verso la sua modernizzazione, a discapito di altre spese non produttive e che non è opportuno permettersi. Ci si sarebbe dovuto aspettare l’immediato taglio dell’acquisto dei caccia F35, uno scherzo da 12 miliardi (quasi la metà del valore della manovra, che in tre anni mira a risparmiare 26 miliardi), o la riduzione delle spese per missioni internazionali di “pace”.
Ancora, sarebbe stato poco soprendente trovare un freno fermo e definitivo alla spesa incontrollata per rappresentanza, manifestazioni e contributi di ogni genere e sorta erogati dalle amministrazioni pubbliche senza sostanziale controllo ad associazioni, enti, fondazioni e soggetti spessissimo riconducibili al partito o corrente del soggetto erogante di turno.
Nulla di tutto ciò. Le grandi lobby come la Lokheed, rivenditore degli aerei, prevalgono su tutto. Solo l’industria farmaceutica subisce il colpo dello sconto forzato del 5%, sia pure in un mercato del farmaco che in Italia, inutile girarci attorno, è drogato: basta andare nelle farmacie di qualsiasi altro Paese europeo per accorgersene.
Così, il d.l. 95/2012 riconferma un “classico” di ognuna delle manovre che da ormai 12 anni a queste parti riscontriamo: tagli feroci a regioni ed enti locali. I trasferimenti statali, nel biennio 2012-2013 sono ridotti di 1,7 miliardi per le regioni, 2,5 miliardi per i comuni, 1,5 miliardi per le moribonde province. Come sempre si trasferisce dal centro alla periferia un fardello pesantissimo, foriero di ulteriori incrementi della pressione fiscale.
Il Governo fa un conto che non torna: dalle misure di risparmio su affitti e appalti, ad esempio, pensa possano reperirsi le risorse per fare fronte ai minori trasferimenti. Non si tiene conto però che mentre i tagli sono veri e concreti e, dopo anni, divenuti rilevantissimi, i risparmi su spese di affitto e appalti sono tutti da verificare e si otterranno nel medio lungo periodo. Oltre tutto, le amministrazioni virtuose – e ce ne sono tante – che già hanno adottato misure di contenimento del costo del patrimonio ed utilizzano le convenzioni o i parametri Consip da sempre non hanno alcun vantaggio da trarre dalla manovra del Governo.
Non vi è, dunque, alcun rischio, ma la assoluta certezza che il taglio, l’ennesimo, formidabile di trasferimenti al sistema degli enti locali comporterà l’inasprimento dell’imposizione locale, un incremento della pressione fiscale occulto, del quale il Governo può schivare le responsabilità ma solo in apparenza.
Sebbene, dunque, la spending review venga da alcuni magnificata come il primo vero esempio di intervento di tagli reali alla spesa, finalizzati se non a ridurre a contenere l’incremento della tassazione, dimostreranno tra qualche mese i fatti che ciò non è per nulla vero.
Per altro, uno degli intenti dichiarati della spending review era scongiurare l’incremento di due punti dell’Iva ad ottobre. Molte volte accade che gli obiettivi di finanza pubblica di una legge non siano poi, a consuntivo, effettivamente colti. Questa è la prima volta, però, che una manovra di finanza pubblica enunci da subito la sua inefficacia: infatti, l’aumento dell’Iva non è per nulla scongiurato, ma solo rimandato a giugno 2013. Poco dopo le elezioni. Il prossimo Governo ha già una patata bollente da risolvere, senza nemmeno ancora essere stato eletto. Una mossa “tecnica” piuttosto politica, non c’è che dire... Nemmeno, fin qui, i mercati hanno preso troppo sul serio la manovra, considerando l’ulteriore ed ennesima impennata dello spread.
L’esempio più eclatante riguarda il personale pubblico. La norma che riduce del 20% i dirigenti e del 10% il rimanente personale è totalmente frutto di un taglio indiscriminato. In parte, oltre tutto, inefficace, perchè agisce sulle dotazioni organiche e, dunque, in gran parte elimina posti vacanti. Ma si parla di 7.500 circa esuberi nelle amministrazioni statali.
Ora, sarebbe credibile, la manovra, se si fosse svolta, in premessa, un’indagine in merito a ciò che gli uffici fanno, quali competenze svolgono, quali unità di personale servono e quali no e, in ragione di ciò, indicare gli esuberi esattamente in questa o quell’amministrazione. Nulla di tutto ciò: l’applicazione di misure percentuali attraversa trasversalmente ed indifferentemente (anche se vi potranno essere compensazioni tra amministrazioni) tutti gli enti. Il Governo ha deciso dall’alto che occorre tagliare così e punto.
Più seria, da questo punto di vista, appare la manovra per gli enti locali, incentrata sulla ricerca di una misura standard media di personale, che imporrà il blocco totale ed assoluto delle assunzioni per gli enti al di sopra del 20% e il taglio non solo delle piante organiche, ma anche del personale in servizio per gli enti che si trovino al di sopra del 40%. Almeno vi è una logica, sempre legata solo ad aspetti quantitativi e mai qualitativi (come invece una seria spending review imporrebbe), ma almeno predeterminati.
Nessuno ha quantificato l’impatto occupazione su un’altra strana previsione: la chiusura forzata di ogni società in house che presti servizi verso l’amministrazione detentrice del capitale. Partendo dal presupposto preconcetto che si tratti solo di società utili per eludere patto di stabilità e vincoli di personale, il legislatore ne impone la chiusura, senza minimamente distinguere tra chi persegua davvero lo scopo sociale, chi chiuda col bilancio in attivo e chi no, chi effettivamente assuma per concorsi e utilizzi le regole del codice dei contratti per gli appalti e chi no.
Tant’è. In ogni caso, per la messa in liquidazione entro il 31.12.2013 rischiano il lavoro dai 20.000 ai 30.000 dipendenti. Può trattarsi di un taglio salutare ai costi indiretti della pubblica amministrazione. Ma dovrebbe costituire, comunque, un problema sociale, del quale nessuno si sta interessando, in una replica angosciante della questione esodati.
Misure, invece, come il taglio dei buoni pasto a 7 euro sono poco più che populismo. Il risparmio è irrisorio (poche decine di milioni) e molto eventuale. Ma serve solo per dare in pasto (si scusi il calembour) al popolo norme che possano smussare gli spigoli del disagio: far vedere che si agisce contro l’odiato “dipendente pubblico fannullone” in qualche misura paga.
L’obbligo di ferie e riposi, riguardante anche i dirigenti e l’esclusione del diritto alla corresponsione di trattamenti economici sostitutivi è solo fumo negli occhi: è già, da sempre così. Ben difficilmente, comunque, la norma potrebbe passare al vaglio di legittimità costituzionale se letta nel senso che le ferie non fruite andrebbero perdute in caso di cessazione del rapporto di lavoro.
Populismo allo stato puro anche il taglio, riguardante tutte le amministrazioni, delle “auto blu”, utile anch’esso per ammansire i cittadini. In realtà non si tagliano le auto a servizio dei politici, ma si impone di restringere al 50% di quanto speso nel 2011 la conduzione e gestione dell’intero parco-macchine, comprese le auto di servizio per andare nei cantieri, per l’assistenza domiciliare e per le attività lavorative ordinarie.
Non mancano, poi, idee ripetitive e ulteriormente idonee a produrre effetti recessivi, oltre che di sospetta legittimità costituzionale. Forzare verso l’utilizzo sistematico del sistema Consip, per gli appalti, è giusto. Piuttosto, visto che le amministrazioni statali sono da anni obbligate, è sorprendente che non vi sia nessuna azione di responsabilità nei riguardi di chi sistematicamente ha violato tale obbligo. Sulla sanzione della nullità assoluta dei contratti non scaturenti dalle convenzioni con Consip o altre centrali di committenza vi sarebbe molto da dire. La legge finanziaria del 2003 aveva già previsto tale norma, poi cancellata perchè scarica sul privato responsabilità del pubblico. Forse sarebbe stato opportuno introdurre sistemi di controllo sugli appalti di natura preventiva alla stipulazione, per verificare il rispetto delle previsioni. Ma, ai controlli preventivi il Legislatore ha rinunciato dal 1997 in poi. Una delle sicure concause dell’esplosione della spesa pubblica di questi ultimi anni.
Incomprensibile, poi, è l’utilità della norma che vieta di imporre, ai fini della qualificazione dei contraenti, limiti di accesso connessi al fatturato aziendale. Si vuole così incentivare la partecipazione agli appalti delle piccole e medie imprese. Si innesca il rischio gravissimo, però, di trovare appaltatori sottocapitalizzati e sottodotati. Nè si innesca il meccanismo virtuoso della ricerca di una dimensione aziendale maggiore e più competitiva nel mercato. E oltre tutto si va in contrasto con le direttive europee.
Bene, comunque, l’insistenza sui prezzi Consip come parametri di riferimento per ogni procedura d’acquisto. Si ribadisce, però, che senza un controllo preventivo, i rischi di eludere ancora, dopo 10 anni di continue violazioni, la norma rimane altissimo.
Altri tagli ai “tribunalini” ed alla sanità influiranno non poco sulla vita di ogni giorno e sull’organizzazione degli enti locali. I tagli alle regioni rischiano di ripercuotersi sui comuni, con minori trasferimenti regionali al socio-sanitario. Corretto razionalizzare le strutture troppo dispersive degli uffici giudiziari, ma anche in questo caso la trasversalità dell’intervento non sembra saper distinguere tra zona e zona.
Il tutto condito, poi, dalla follia dell’intervento sulle province, renderà per i cittadini ottenere servizi sul territorio molto più complicato, considerando anche le strette sui finanziamenti per i trasporti pubblici.
Infine, i piccoli comuni. Un’altra norma confusissima e disorganica tendente a creare unioni di comuni forzose. Strano. Si eliminano le province per razionalizzare il sistema degli enti locali, ma si fanno contestualmente proliferare enti che moltiplicano i centri decisionali e di spesa. Le unioni di comuni saranno soggette al patto di stabilità dall’anno prossimo: nascono, dunque, già debolissime e non in grado di sostenere l’organizzazione e i costi di un’amministrazione efficiente.
Sono unioni di debolezze, che non costituiscono una forza, ma una maggiore debolezza. Dovremo, però, aspettare anni per trarre conferme.
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