sabato 27 luglio 2013

Non è il risparmio il risultato della manovra sulle #province

Chiunque abbia avuto modo di leggere il testo del disegno di legge di riforma delle province e dell’assetto istituzionale degli enti locali ha compreso che esso non è in grado di cogliere gli effetti che dal riordino si vorrebbero ottenere: risparmi e razionalizzazioni.

La riforma o oablizione delle province, così come la riduzione dei livelli di governo, di per sé non sono certo un male o un obiettivo da impedire.

Al contrario, essi possono essere un modo per contribuire alla ricerca di un risparmio della spesa pubblica, che ammonta a 805 miliardi di euro, 89 dei quali di interessi.

Le critiche alle quali si presta il disegno di legge voluto ed elaborato dal Ministro Delrio, dunque, non possono e debbono fondarsi sull’intenzione, ma sul modo col quale l’intento di semplificare, risparmiare e razionalizzare viene perseguito. E, appunto, leggendo la norma – che si spera il Parlamento possa radicalmente modificare – si comprende perfettamente che essa non riesce ad ottenere nessuno degli obiettivi posti e propagandati e, al contrario, sarà fonte, dovesse rimanere com’è scritta, di risultati totalmente opposti: incremento di livelli di governo, incertezza sulle competenze e funzioni, risparmi irrisori o totalmente bruciati dalla confusione posta. Senza parlare, poi, dei problemi di lesione al principio democratico.

Risparmi. In quanto al principale dei risultati che il riordino delle province dovrebbe conseguire, la riduzione della spesa pubblica, basta leggere il testo del ddl, la relazione e la relazione tecnica di accompagnamento per constatare, non senza sorpresa, che non riportano la quantificazione nemmeno di un centesimo di risparmio, nulla. Nella relazione tecnica si parla sempre di possibili ed eventuali risparmi a regime, senza riportare mai il calcolo o indicare le voci di spesa interessate.

La relazione opina che mantenendo alle province un numero limitato di funzioni proprie “consentirà nel lungo periodo una riduzione di spesa”. Oltre a non indicare come e perché, la relazione omette, evidentemente, di considerare due aspetti. In primo luogo, il disegno di legge prevede che i comuni e le unioni ai quali saranno assegnate le funzioni provinciali, potranno delegarne alcune: per esse, dunque, il risparmio ventilato non vi sarebbe. Inoltre, le funzioni provinciali attinenti alle potestà legislative regionali saranno assegnate a comuni e unioni di comuni con leggi regionali. Ma, non è fissato alcun termine perché ciò accada: dunque, fino all’abolizione dettata dalla Costituzione molte province potrebbero conservare le funzioni di natura regionale, che per altro costituiscono la parte di gran lunga preponderante. Sicchè l’effetto di risparmio sarebbe ulteriormente annullato. Senza considerare che le regioni, le quali potrebbero decidere di assumere la gestione di alcune funzioni provinciali, potrebbero comunque a loro volta delegarle loro.

Come si nota, anche solo in merito ai rapporti finanziari la confusione istituzionale che discenderebbe dal disegno di legge è spaventosa.

In ogni caso, non si capisce come sarebbe possibile che lo spostamento (così complesso e contraddittorio) delle funzioni e competenze delle province possa consentire risparmi di spesa: visto che le funzioni sono traslate dalle province alla pletora di enti che dovrebbero subentrare e che il ddl impone di assegnare a tali enti le risorse umane, finanziarie, strumentali e patrimoniali necessarie allo scopo, risulta chiaro che non potrà esservi risparmio alcuno: la spesa, quella stessa spesa oggi movimentata dalle province, sarà movimentata da altri enti.

La relazione configura come “risparmio” la conferma del divieto di nuove assunzioni a carico delle province: ma questo non è un risparmio, bensì un limite alla crescita della spesa e, comunque, tale divieto di assunzione è già vigente.

In effetti, allora, l’unico effetto quantificabile di risparmio sulla spesa pubblica derivante dal disegno di legge si ottiene sui costi propri della politica: indennità e gettoni di presenza, che sarebbero eliminati, visto che tutte le cariche delle province e delle città metropolitane sarebbero gratuite.

Il risparmio, che in ogni caso non emerge dal testo normativo dunque, sarebbe di 104,7 milioni di euro. Lo 0,0130 della spesa pubblica.

Ma, occorre sottolineare, che si tratta di un risparmio teorico. Infatti, non verrebbero meno i rimborsi spese per le sedute dei vari organi assembleari previsti dalla norma, la cui possibile moltiplicazione, se si attivassero le unioni dei comuni, potrebbero comportare costi rilevantissimi.

Né, ovviamente, il disegno di legge quantifica, ma nemmeno considera – come troppi analisti superficiali – i costi amministrativi, burocratici e gestionali del passaggio delle funzioni e competenze da un ente all’altro.

Sul Corriere della Sera ondine del 26 luglio, sé stato riportato un articolo, nel quale si legge: “Secondo il ministro con il provvedimento «non si azzera la democrazia perché resta la rappresentanza dei sindaci e tende anche a stimolare le unioni dei comuni». Con la riforma «potremmo raggiungere in due anni più di un miliardo di risparmi, con l'accorpamento delle funzioni i risparmi saranno subito di circa 600-700 milioni»”.

E’ molto strano che il Ministro in un’intervista rilascia dati e numeri che non sono assolutamente presenti nel disegno di legge. Ciò rafforza la sensazione che il disegno di legge rappresenti più una mossa mediatica e la reazione (rabbiosa) alla sentenza della Corte costituzionale 220/2013, che non ha fatto altro se non evidenziare ciò che avrebbe essere dovuto chiaro da sempre a tutti: l’illegittimità costituzionale di una riforma dell’ordinamento degli enti della Repubblica mediante decreto legge.

In effetti, il ddl Delrio appare volto a mantenere gli effetti della manovra Monti, per altro complicandola e privandola ancor più di efficacia e razionalità, che non a tracciare un percorso ponderato e graduale di riforma.

Il disegno di legge predisposto dal Ministro prevede procedure estremamente farraginose e margini di incertezza amplissimi, rispetto all’esercizio delle funzioni ed al percorso delicatissimo del passaggio delle risorse necessarie.

Del resto, che i risparmi non siano oggettivamente di interesse della riforma lo dimostra un dato eclatante. Le stime del Governo Monti (elaborate da Giarda) e di molti esperti comprendevano nei possibili risparmi derivanti dalla soppressione delle province anche quelli conseguenti agli accorpamenti ed eliminazioni di uffici periferici statali: prefetture, questure, direzioni provinciali di varia natura, agenzie.

Ebbene, il ddl Delrio, invece, esclude espressamente che per effetto del riordino delle province qualcosa cambi per l’organizzazione periferica dello Stato. Nessun risparmio, dunque, si avrà a questo titolo.

Province e città metropolitane. L’unico punto del disegno di legge nel quale si ha un minimo di limpidezza nel percorso di riforma è quello che riguarda il passaggio dalle attuali province alle città metropolitane che nasceranno a Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Bari, Napoli e Reggio Calabria. In questo caso, infatti, in prima battuta il territorio delle città metropolitane coinciderà con quello delle province estinte, ma soprattutto le città metropolitane succederanno in tutti i rapporti attivi e passivi. Con pochi, ma da verificare, risvolti in termini di finanziamento delle attività, in quanto le funzioni fondamentali delle città metropolitane saranno maggiori rispetto a quelle attualmente gestite dalle province.

A questo proposito, da sottolineare l’attribuzione alle città metropolitane di funzioni di relazioni estere con altre città metropolitane dell’Unione Europea. Il disegno di legge assegna ad un ente locale, dunque, competenze per dispendiose relazioni internazionali, che da sempre la Corte dei conti considera danno erariale.

Altro aspetto rimarchevole, riguardo le città metropolitane, è la diversificazione tra quella di Roma e le altre. Nella prima, infatti, i comuni potranno scegliere se entrare. Nelle altre, se uscire. Un altro piccolo ma significativo aspetto di confusione.

Sulle città metropolitane, in ogni caso, occorre fare alcune brevi considerazioni. L’elenco delle 10 città interessate discende dalla Costituzione.

Il disegno di legge, tuttavia, dovrebbe essere l’occasione per razionalizzare il quadro. Le città metropolitane, alla fin fine, vengono configurate nulla più e nulla meno come vere e proprie province, con l’unica differenza che saranno rette dal sindaco metropolitano, che coincide col sindaco del comune capoluogo.

Facile comprendere che il legislatore (Delrio è un ex sindaco ed ex presidente dell’Associazione Nazionale dei Comuni Italiani) vede le città metropolitane come una sorta di estensione delle competenze del comune capoluogo verso la provincia. Col rischio gravissimo della creazione di un’immensa periferia, vista l’inevitabile centralità che assumeranno le esigenze ed il peso politico del capoluogo su tutto il resto.

Da questo punto di vista, appare un vulnus democratico gravissimo e contrario all’articolo 133 della Costituzione che si permetta ai comuni delle città metropolitane di scegliere di uscirne in un termine brevissimo, che pare tassativo.

La configurazione della città metropolitana invece che come ente di programmazione delle funzioni economiche e dei problemi logistici dell’hinterland di una città, come dilatazione della città capoluogo verso la provincia può comportare problemi immensi.

Si pensi alla città di Venezia. Essa ha esigenze totalmente peculiari e, a tutti gli effetti, rappresenta un’isola rispetto al resto del territorio. I comuni che si incuneano verso il Friuli Venezia Giulia non hanno alcuna interrelazione con Venezia ed, anzi, ne subiscono il centralismo. La loro inclusione in una città metropolitana intesa come la descrive il ddl potrebbe accentuare l’isolamento ed i problemi di lavoro e sviluppo di quei territori.

Nessuno, poi, assicura che le risorse che pioverebbero sul sindaco metropolitano verrebbero distribuiti e destinati alla provincia secondo i criteri dell’ente provincia. Il rischio di un centralismo fortissimo del capoluogo è evidente: politiche sociali, del lavoro e scolastiche potrebbero tutte concentrarsi nel capoluogo, a scapito dell’immensa periferia che si creerebbe.

Province da sopprimere. Molto più oscuro il percorso che porterà alla nascita delle nuove province “svuotate”, in attesa che vengano abolite definitivamente dalla legge costituzionale intanto avviata dal Governo.

I presidenti delle province ed i commissari dovranno convocare il nuovo sistema elettivo di secondo livello entro 20 giorni dalla proclamazione dei sindaci eletti nelle elezioni amministrative successive all’entrata in vigore del disegno di legge e fino all’insediamento del nuovo presidente gli organi esistenti saranno provocati.

Il nuovo consiglio provinciale dovrà adottare modifiche statutarie conseguenti alla riforma entro il 31 dicembre 2014, pena commissariamento prefettizio.

Funzioni. Complicatissimo il mosaico delle funzioni. Il disegno di legge lascia alle province svuotate solo: pianificazione territoriale di coordinamento, tutela e valorizzazione dell’ambiente, servizi di trasporto, autorizzazione e controllo del trasporto privato, costruzione classificazione e gestione delle strade, programmazione provinciale della rete scolastica. Quest’ultima pare sia scollegata dalla manutenzione degli edifici, il che rende la programmazione quasi inutile.

Ma, a ben vedere, il quadro è molto più complesso. Il disegno di legge prevede che “tutte le altre funzioni” amministrative conferite alle province con legge dello Stato siano assegnate ai comuni o alle unioni di comuni. Però, manca un criterio per stabilire se e come attribuirle agli uni o alle altre. E, soprattutto, non si sa (identico problema emerso con le manovre Monti) quali siano dette funzioni statali: il disegno di legge, infatti, rinvia ad un Dpcm, da adottare entro il 31 marzo 2014, che dovrebbe elencare le funzioni di provenienza statale da trasferire.

Invece, le funzioni assegnate alle province che rientrano nella potestà legislativa regionale ai sensi dell’articolo 117, commi 3 e 4, della Costituzione, saranno trasferite a comuni e unioni (sempre in assenza di criteri discretivi) da leggi regionali. Come visto sopra, tuttavia, il disegno di legge non stabilisce un termine entro il quale le regioni debbano legiferare. Dunque, le province potrebbero per lungo tempo mantenere dette funzioni. E comunque, potrebbe darsi l’ulteriore elemento di caos: in alcune regioni il percorso di riforma potrebbe essere avviato, in altre in ritardo, in altre ancora no. Comunque, le regioni potranno decidere di assumere direttamente alcune di tali funzioni.

Non finisce qui. Regioni e comuni, infatti, potranno decidere di delegare alle province “svuotate” alcuni compiti gestionali.

Insomma, non è dato realmente comprendere chi farà cosa. Un cittadino, un’impresa che debbano avviare una pratica attinente alle funzioni e competenze provinciali dovranno affrontare l’intrico incredibile di competenze e capire se la funzione sia rimasta in capo alla provincia o passata al comune, ma da questo assegnata all’unione; o se se la sia ripresa la regione, delegandola però alla provincia e via esemplificando.

Il Ministro Delrio, sia nell’articolo del Corriere ondine, sia in moltissime altre interviste rilasciate ai media in questi giorni ha lodato l’effetto di risparmio (come visto sopra, inesistente) discendente dal processo di “accorpamento”.

Come abbiamo, però, visto, il disegno di legge tutto fa, salvo che accorpare. L’accorpamento è un processo di riduzione: accorpare significa raggruppare in un'unica struttura due o più elementi; dunque, molti elementi vengono agglomerati e ridotti a pochi elementi di maggiori dimensioni.

Accorpamento vi sarebbe se da 107 centri di decisione, le 107 province, si passasse ad un numero sensibilmente inferiore.

Invece, il percorso del disegno di legge è:

a)                  lasciare in vita 10 province, che prenderanno il nome di città metropolitane e rischieranno di essere il prolungamento delle politiche del capoluogo, a discapito degli altri comuni;

b)                  lascia in vita le altre 97 province, sia pur svuotate, ma con la possibilità che il loro svuotamento sia parziale e molto differenziato a seconda che le regioni legiferino o meno sul trasferimento delle competenze ai comuni e unioni di comuni o, ancora, a seconda che comuni, unioni e regioni deleghino o meno funzioni alle province;

c)                  consente alle regioni di gestire direttamente alcune delle competenze provinciali.

Insomma, dove prima una serie di funzioni si concentrava in 107 enti, adesso si sparpagliano in modo disordinato, irrazionale, imprevedibile tra 8100 comuni, centinaia di unioni di comuni, 107 province e 20 regioni.

Questo, secondo il Governo, sarebbe l’accorpamento. E da questo dovrebbe derivare maggiore razionalità e semplificazione.

Dovrebbe essere chiaro che l’unico sistema per accorpare realmente e provare anche a rendere più gestibile la questione finanziaria connessa alla soppressione delle province, è appunto accorpare le loro funzioni verso le regioni.

Risulta, invece, complicato fissare un criterio convincente e funzionale per ripartire tra comuni ed unioni essi funzioni accorpate e gestite sin qui da soli 110 enti. Il ddl Delrio dispone che con le funzioni debbano passare ai comuni e alle unioni le risorse strumentali, patrimoniali, organizzative e umane. Ma è altrettanto complicato immaginare una modalità di equilibrata distribuzione tra i comuni di quest’imponente massa di risorse. E’ concreto il rischio che, da un lato, ciascun comune potrebbe trovarsi con nuove incombenze e dotazioni insufficienti; dall’altro, che il personale sia destinato a coprire i posti vacanti per le funzioni tipiche comunali, trascurando quelle provinciali.

Come farebbero 8100 comuni a gestire le politiche attive del lavoro, oggi di competenza provinciale, svolte da 7700 dipendenti? Come ripartirli tra i comuni in modo funzionale?

Trasferire le funzioni alle Regioni è, invece, molto più semplice: è certo più facile concentrare trasferimenti statali, entrate tributarie ed entrate di 107 province verso venti Regioni, che non dividerle in 8.100 comuni, secondo, per altro, l’intreccio oscuro e labirintico previsto.

Le Regioni dispongono, inoltre, di una forte autonomia organizzativa, che permetterebbe loro di realizzare presìdi territoriali di dimensioni provinciali, senza ricorrere alla creazione di nuovi enti intermedi.

D’altra parte, funzioni come quella connessa alle politiche del lavoro sono immediatamente percepibili come inadeguate, se gestite esclusivamente dall’ente comune. Basti pensare che le offerte congrue di lavoro e formazione, cioè quelle che obbligano i percettori di ammortizzatori ad accettarle pena la decadenza dai benefici, hanno, tra i loro requisiti, una distanza di non oltre 50 chilometri dal domicilio (non la residenza) del disoccupato o un tempo di percorrenza di 80 minuti. Un ufficio del lavoro ristretto nei confini comunali non può offrire opportunità lavorative e formative con queste caratteristiche.

Assegnare alle Regioni le funzioni che si intendono eliminare in capo alle province non incrinerebbe il disegno di riforma attivato di sostanziale dismissione delle province stesse e permetterebbe una più razionale revisione dei confini, aprendo la strada alla riforma costituzionale più logica e conseguente, cioè l’abolizione delle province e il loro assorbimento da parte delle Regioni.

Finanza locale. Come è ovvio, dietro alla riforma sta il problema di un riordino epocale della finanza locale.

Occorre, come visto, spostare patrimonio, risorse strumentali, finanziarie ed umane tra moltissimi enti, così da garantire, impresa difficilissima, che siano sufficienti per lo svolgimento delle funzioni in modo efficiente.

Il disegno di legge prende atto del problema, ma in modo che considerare superficiale è eufemistico. Si limita ad affermare che “fino alla riforma della finanza locale, le entrate tributarie continuano ad essere riscosse dalla provincia”. Appare ben strano che la riforma della finanza locale possa seguire, e non precedere o, quanto meno essere coeva, la riforma ordinamentale.

Le province resteranno, allora, sì svuotate, ma faranno da riscossori e redistributori delle risorse. Ma il ddl dimentica che gran parte delle entrate provinciali sono trasferite alle province dal fondo sperimentale di sviluppo, gestito dallo Stato. Quel fondo falcidiato di 1,7 miliardi dal d.l. 95/2012 e dal DM attuativo, considerato illegittimo dal Tar Lazio. Difficile immaginare che lo Stato non avrà in futuro forza ancora maggiore di intervenire su tale spesa, riducendola ancora. Comunque, il ddl Delrio non fornisce indicazioni su come e chi gestirà in futuro il fondo sperimentale di sviluppo.

Si naviga a vista anche sulle conseguenze della riforma sul patto di stabilità. Come per la finanza locale, il ddl si limita a porre il problema, senza risolverlo. Si prevede solo che fino a quando il patto verrà rivisto, le città metropolitane e le nuove province sono tenuti a conseguire gli obiettivi di finanza pubblica propri delle “vecchie province”.

Per le città metropolitane che subentrano in universum ius può anche andare bene, ma la previsione manca di prendere in considerazione gli effetti sul patto e gli altri vincoli (si pensi alla spesa del personale ed alle assunzioni) ricadenti sui comuni o le unioni di comuni.

In ogni caso, le province svuotate di funzioni, private dunque anche delle connesse entrate, come potrebbero garantire gli oneri del patto di stabilità? Essi andrebbero ripartiti tra gli 8100 comuni e le centinaia di unioni. Un problema così difficile da risolvere, che il ddl nemmeno lo affronta.

Personale. Poiché in linea teorica il personale provinciale dovrebbe seguire le funzioni, non è dato comprendere quale sarà la destinazione dei 56.000 circa dipendenti provinciali interessati.

Il Ministro Delrio nelle dichiarazioni rilasciate ai media ha genericamente detto che il personale verrà ripartito tra comuni e regioni. Ma, è chiaro che manchi totalmente un’idea di come procedere, di quanto e quale personale dovrà transitare, sulla base di quali criteri.

In ogni caso, le province svuotate entro 60 giorni dalla delibera con la quale i presidenti dovranno attuare il Dpcm con cui si stabilirà il trasferimento delle funzioni provenienti dallo Stato a comuni e unioni di comuni, dovranno rideterminare le dotazioni organiche, riducendole del numero dei dipendenti che passeranno alla nuova destinazione e modificando i profili professionali di quelli che resteranno a gestire le residue funzioni.

Il disegno di legge, dunque, demanda in sostanza alle stesse province stabilire se e quale e quanto personale passerà ai comuni o alle unioni di comuni. Forse è una garanzia per i dipendenti, ma certo non appare una scelta felicissima sul piano organizzativo.

Comunque sia, se non sarà chiarito con estrema precisione verso quali comuni o unioni saranno trasferite le funzioni e con che intensità e quantità, l’operazione di trasferimento risulterà un altro caos.

Non si capisce per quale ragione col ddl non si apra all’opportunità che i dipendenti provinciali presentino domanda di mobilità verso comparti dell’amministrazione notoriamente carenti di personale: cancellerie dei tribunali e ispettorati del lavoro per primi.

Ancora, il disegno di legge non si sogna nemmeno di fornire la minima indicazione sulle conseguenze dell’arrivo dei dipendenti provinciali nei ruoli di comuni, unioni di comuni e regioni. Eppure, è noto che le norme sui tetti alla spesa di personale, alla crescita dei fondi per la contrattazione accessoria ed alle assunzioni pongono pesantissimi vincoli sul tema. Non è possibile fissare con legge il principio che i dipendenti (56000, con un costo di 2,2 miliardi) passino sic et simpliciter agli altri enti, se non si pongono chiare deroghe o modifiche ai tetti di spesa ed ai vincoli assunzionali di comuni, unioni e regioni.

Irrazionalità organizzative. Il ddl contiene parecchie irrazionalità, come visto. Una se ne segnala in particolare e riguarda sia l’elencazione delle funzioni che passano dalle province agli altri enti ed il trasferimento del personale. Ci si riferisce alla funzione residuale della programmazione provinciale della rete scolastica; il disegno di legge lascia alle province solo la programmazione della rete, cioè, nella sostanza, la determinazione di criteri per la nascita o la modifica di indirizzi scolastici, così da rendere fruibile in tutto il territorio in modo omogeneo il diritto allo studio e da prevedere specifici indirizzi all’interno di distretti e mercati del lavoro specifici e particolari.

Però, il ddl dispone implicitamente che passino ai comuni le funzioni e competenze in tema di dimensionamento degli edifici scolastici (determinazione delle classi e delle prospettive di crescita degli allievi), nonché quelle attinenti alle manutenzioni e all’edilizia scolastica.

Lo comprende chiunque che si tratta di funzioni tra loro inscindibili, intrinsecamente dipendenti. L’edilizia, le manutenzioni, le dotazioni logistiche e di arredo sono connesse strettamente all’indirizzo e alla dimensione dell’ente.

Non solo: le province restano competenti in materia di trasporti. Che sono un altro fondamentale convitato nella programmazione della rete logistica scolastica. Mentre oggi trasporti, rete (che comunque è gestita in modo compartecipato con i comuni sedi di istituti scolastici superiori), manutenzioni, lavori edilizi, acquisto di arredi sono concentrati in un unico ente, domani si disintegreranno in una pluralità di soggetti. Con evidentissime complicazioni sul piano gestionale. E il disfacimento di dotazioni di personale, organizzato dalle province in modo da gestire edilizia e logistica scolastica in modo il più possibile unitario e coordinato. La diaspora di parte di questo personale (sulla base di quale criterio?) verso comuni e unioni di comuni comporterà anche una dispersione di efficienza ed organizzazione.

Ma non solo. Vi saranno conseguenze molto negative anche sulla concorrenza, trasparenza ed efficienza degli appalti. In una provincia sin qui un solo ente cura l’edilizia scolastica, le manutenzioni e le dotazioni di arredo. Domani, al posto di una provincia saranno decine di enti, tra comuni e unioni, a provvedere. Dove c’era un unico capitolato e prezziario ne spunteranno decine. Si moltiplicheranno gli incarichi di progettazione, le procedure di gara, i ritardi nei pagamenti, la burocrazia.

A proposito delle procedure di gara, per le manutenzioni e le dotazioni di arredo e logistica, invece, sarà fortissimo il rischio di una totale opacizzazione del sistema. Infatti, dividendo le competenze e funzioni tra decine di soggetti, per ciascuno di essi le basi di gara saranno molto più basse che non per la singola provincia, che acquista gli arredi in unica fornitura per tutte le scuole.

Si moltiplicheranno senz’altro, di conseguenza, gli affidamenti senza gara, con le conseguenze sulla legalità, trasparenza e concorrenza immaginabili.

Questo, in conclusione, è l’orizzonte della riforma delle province avviata dal Governo. C’è ancora tempo non tanto per fermarla, considerando, come detto sopra, opportuna una semplificazione dei livelli di governo ed un risparmio per le finanze pubbliche. Occorre, allora, correggere radicalmente il tiro, perché così com’è il disegno di legge è solo fonte di uno dei più disastrosi caos che l’amministrazione italiana potrebbe mai conoscere.

1 commento:

  1. Ovviamente non possono essere letti tutti i miei scritti, ma di quei due argomenti ho trattato in altri pezzi.

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