sabato 7 settembre 2013

Torna la folle norma sul costo del personale negli #appalti #Governo

Il legislatore è ormai abituato a giocare brutti scherzi agli operatori ed ai cittadini. Quello compiuto con l’articolo 32, comma 7-bis, del d.l. 69/2013, convertito in legge 98/2013 (il decreto del “fare”, che in realtà appare più quello del “disfare”) è davvero pesante.

Infatti, si reintroduce, in modo ancora più subdolo, inattuabile e complicato (ovviamente in una norma ed una sua rubrica che parla di “semplificazione”) quanto a suo tempo previsto con il  d.l. 70/2011, convertito in legge 106/2011.

Ricordiamo, anche se non è consigliabile per i deboli di cuore, il contenuto del’articolo 4, comma 2, lettera i-bis, del citato d.l. del 2011, che introdusse nell’articolo 81 del d.lgs 163/2006 il seguente comma 3-bis: “L'offerta migliore è altresì determinata al netto delle spese relative al costo del personale, valutato sulla base dei minimi salariali definiti dalla contrattazione collettiva nazionale di settore tra le organizzazioni sindacali dei lavoratori e le organizzazioni dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, e delle misure di adempimento delle disposizioni in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro”.

Questa disposizione aprì un mare di problemi applicativi, come si mise in luce a suo tempo[1]. L’innnesto della disposizione citata sopra avvenne contestualmente quasi all’introduzione dell’articolo 8 del d.l. 138/2011, convertito in legge 148/2011, che attribuisce alla contrattazione aziendale il potere di derogare ad ogni norma di legge o di contrattazione collettiva nazionale, in un ordinamento del lavoro nel quale, per altro, esistono:

a)      per ciascun settore di attività molteplici contratti collettivi nazionali di lavoro;

b)      la libertà del datore di lavoro, anche se operante in un certo settore, di applicare Ccnl di altri settori o di non applicarlo proprio, dando vita solo a contratti aziendali e individuali.

Era evidente che l’articolo 8 della legge 148/2011, così come le disposizioni dell’ordinamento del lavoro, vanificassero e rendessero impossibile applicare seriamente la novellazione a suo tempo apportata all’articolo 81 del d.lgs 163/2006.

La norma appariva il frutto di cascami di “socialismo reale” nell’ordinamento, frutto, cioè, dell’idea che possa esistere un sistema univoco e regolato dall’alto di disciplina dei contratti di lavoro, senza tenere conto che, al contrario, in un regime di libero mercato e libertà di contrattazione tale impostazione è semplicemente impensabile, fuori tempo, profondamente sbagliata e foriera solo di indicibili complicazioni.

Appariva oggettivamente contraddittorio pretendere di determinare un costo contrattuale “di base” desumibile dalle “tabelle” ministeriali, mentre nel contempo il diritto del lavoro è stato infarcito di decine di tipologie di contratti, tali da rendere di fatto solo una formalità le tabelle stesse. Esse si riferiscono al lavoro subordinato a tempo indeterminato.

Ma gli oneri connessi al costo del lavoro cambiano tantissimo, in relazione ad una quantità molteplice di condizioni:

a)      utilizzo o meno di straordinari;

b)      incidenza della presenza di lavoratori in mobilità indennizzata, che costano molto meno sia sul piano previdenziale, sia come stipendio;

c)      incidenza della presenza di apprendisti, che costano molto meno sul piano previdenziale e possono essere anche dequalificati fino a due categorie per almeno un certo lasso di tempo;

d)      incidenza della presenza del part time;

e)      possibilità dell’azienda di avvalersi di contratti a chiamata, o ancora di lavoratori somministrati o collaboratori a progetto;

f)        grado di esternalizzazione delle attività di produzione o di amministrazione, mediante appalti a terzi (pulizie, stipendi, spedizioni, magazzinaggio, eccetera).

Tutti sapevano, ma evidentemente non il legislatore, che la selva di retribuzioni orarie, di aliquote Inps e Inail è vastissima, l’assoggettamento ad Irap non sempre dovuto, l’onere orario economico, cioè il costo aziendale e non quello connesso al singola appalto, variegatissimo.

Insomma, la norma a suo tempo prevista da uno dei tantissimi “decreti sviluppo” dei governi Berlusconi finì semplicemente per produrre oceani di burocrazia e complicatissime diatribe interpretative ed operative, per scovare il modo, in un ordinamento privo di una fissazione di minimi salariali per legge ed aperto alla più ampia libertà di contrattazione, di determinare credibilmente e senza il rischio di attivare un contenzioso infinito il costo del lavoro da sottrarre al ribasso, nelle offerte.

A molti interpreti non restò che auspicare un veloce ripensamento del legislatore, teso ad abolire l’inapplicabile ed assurda disposizione a suo tempo posta a novellare l’articolo 81 del d.lgs 163/2006. E chi scrive ebbe a considerare[2]: “Bisogna continuare ad augurarsi che il legislatore recuperi la capacità di indulgere meno sulla forma, sulla carta e su adempimenti burocratici. La lotta al lavoro irregolare intanto va perseguita in via principale con i controlli”.

Insomma, è correttissimo il principio di tutela dei lavoratori. Ma non è possibile pretendere che essa discenda dalla determinazione meccanica di criteri posti a garantire il rispetto del costo del lavoro (si vedrà di seguito che ciò risulta totalmente impossibile per le forniture di beni). Solo col rafforzamento deciso dei controlli degli ispettorati del lavoro nei cantieri e l’applicazione di sanzioni rigorose si può ottenere questo risultato. Il resto è burocrazia e fantasia dell’orrido.

Le considerazione dei molti interpreti ed operatori fecero breccia. E così, l’abnorme disposizione del “decreto sviluppo”, fu cancellata dal “salva Italia”, con l’articolo 44, comma 2, del d.l. 201/2011, convertito in legge 214/2011.

Tutto finito? No. Evidentemente nel Governo Letta ed in Parlamento in molti debbono essersi convinti che l’Italia, da salvare all’epoca dell’avvio del Governo Monti, sia già in salvo. E che, dunque, sia possibile ripensare la decisione assunta dall’esecutivo che chiuse la precedente legislatura e reintrodurre la micidiale previsione cancellata. Con un gioco forse degno di Penelope e della sua tela, ma difficilmente conciliabile con un ordinamento giuridico stabile, certo e conforme ai principi dell’apertura e libertà della concorrenza e dell’imprenditorialità.

Dunque, l’amara sorpresa dell’articolo 32, comma 7-bis, del d.l. 69/2013, convertito in legge 98/2013 che dispone: “Il prezzo più basso è determinato al netto delle spese relative al costo del personale, valutato sulla base dei minimi salariali definiti dalla contrattazione collettiva nazionale di settore tra le organizzazioni sindacali dei lavoratori e le organizzazioni dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, delle voci retributive previste dalla contrattazione integrativa di secondo livello e delle misure di adempimento alle disposizioni in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro”. Confrontiamo la nuova perla del legislatore, con quella cancellata:












Art. 82, comma 3-bis, d.lgs 163/2006



Art. 81, comma 3-bis, d.lgs 163/2006 (abolito)


Il prezzo più basso è determinato al netto delle spese relative al costo del personale, valutato sulla base dei minimi salariali definiti dalla contrattazione collettiva nazionale di settore tra le organizzazioni sindacali dei lavoratori e le organizzazioni dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, delle voci retributive previste dalla contrattazione integrativa di secondo livello e delle misure di adempimento alle disposizioni in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoroL'offerta migliore è altresì determinata al netto delle spese relative al costo del personale, valutato sulla base dei minimi salariali definiti dalla contrattazione collettiva nazionale di settore tra le organizzazioni sindacali dei lavoratori e le organizzazioni dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, e delle misure di adempimento delle disposizioni in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro

Nel reintrodurre la disposizione che era stata abolita con sospiro di sollievo di tutti, gli operatori economici per primi, il legislatore è riuscito nell’impresa impossibile per tutti, ma non certo per i palazzi Chigi, Montecitorio e Madama, di renderla ancora più complessa ed inapplicabile di prima. Straordinario, non c’è che dire.

Le modifiche rilevanti sono:

a)      il riferimento al “prezzo più basso”, invece che all’“offerta migliore”;

b)      l’introduzione della necessità di valutare il costo del lavoro anche alla luce “delle voci retributive previste dalla contrattazione integrativa di secondo livello”.

Partiamo dalla seconda modifica, vista sopra alla lettera b). Come rilevato da tutti due anni fa per applicare la disposizione è in primo luogo indispensabile individuazione preventivamente il contratto collettivo applicabile all’appalto, così da poter quanto meno stabilire il costo orario della manodopera.

L’impresa di per sé risulterebbe impossibile anche senza considerare l’articolo 8[3] del d.l. 138/2011, convertito in legge 148/2011: non si deve dimenticare, infatti, che in Italia non c’è una contrattazione collettiva legata ad un comparto produttivo. Al contrario, la contrattazione collettiva è diversificata per comparto e anche per tipologia di datore di lavoro. La medesima prestazione è trattata economicamente in modo sostanzialmente diverso a seconda che si applichi il contratto collettivo dell’industria o dell’artigianato o della cooperazione sociale. La libertà di impresa impedisce, ovviamente, alle amministrazioni appaltanti di imporre agli operatori economici l’applicazione di questo o quel contratto nazionale.

L’operatività dell’articolo 8 del d.l. 138/2011 rende del tutto inutile provare a cercare un sistema di riconduzione a unità del costo del personale. Le “specifiche intese” da esso previste per derogare in toto alle previsioni della contrattazione collettiva nazionale potranno incidere in misura molto significativa in particolare sull’organizzazione ed il costo del lavoro aziendale. E ciò rende semplicemente improponibile la predeterminazione a monte, in sede di progettazione e redazione dei capitolati, di un costo minimo del personale.

Anche le stesse tabelle del Ministero del lavoro perderanno di senso. Ciascuna azienda potrà e sarà legittimata a dimostrare, in base alle proprie “specifiche intese”, il costo del lavoro applicato, potendo solo le amministrazioni appaltanti verificare ex post la ragionevolezza delle giustificazioni.

Il legislatore col “decreto fare” ha creduto, evidentemente, di risolvere il problema della sostanziale inutilità della ricerca di un costo contrattuale del personale univoco fondato sui contratti collettivi nazionali di lavoro, liberamente derogabili, ponendo l’attenzione, allora, sui contratti decentrati di secondo livello, consapevole (?) che quella in gran parte dei casi può essere la sede più propria della regolazione del rapporto di lavoro.

La toppa, tuttavia, è all’evidenza molto peggiore del buco. Come forse sfugge agli illuminati legislatori, se non esiste un repertorio unico che raccolga i contratti collettivi nazionali di lavoro, allo stesso modo non è nemmeno pensabile di radunare l’infinità di contratti di secondo livello esistenti, che sono circa 5 milioni.

Come è possibile immaginare di reperire, prima, e ridurre ad unità, dopo, le “voci retributive” fissate dai contratti decentrati lo sa soltanto la mano che ha scritto l’assurda disposizione in commento.

La quale, oltre tutto, cade in una contraddizione insanabile. La contrattazione è denominata “integrativa” poiché integra (anche se nella realtà può e di molto modificare) quella di primo livello. Dunque, i “minimi” contrattuali non dovrebbero essere mai desunti e valutati sulla base della contrattazione di secondo livello, se lo scopo della norma è garantire che il prezzo proposto dall’appaltatore non pregiudichi la garanzia della retribuzione minima.

Le “voci retributive” della contrattazione di secondo livello possono non attenere per nulla ai minimi, riguardando premi, incentivi, indennità di varia natura, generalmente comunque retribuzioni maggiori connesse alla produttività o comunque all’espletazione della prestazione lavorativa secondo certe modalità operative (turni, squadre, strutture speciali, ecc…).

Oltre tutto, le “voci retributive” possono essere le più diverse e svariate da contratto a contratto e, ovviamente, da qualifica a qualifica.

La stazione appaltante, secondo chi ha redatto la norma, dovrebbe essere in grado di stabilire quale sia l’organizzazione imprenditoriale “fissa” obbligatoriamente da imporre per la realizzazione di una certa prestazione? Il che vorrebbe dire conoscere esattamente quanti operati, impiegati, quadri e dirigenti sono da impiegare, e per quante ore, conoscendo esattamente per ciascuno di essi la mansione, il livello retributivo, l’anzianità, le singole voci retributive spettanti; ma anche, ovviamente, possibili incentivi che riducono il costo del lavoro (si è visto prima la possibilità che nell’impresa lavorino lavoratori titolari di benefici previdenziali o apprendisti), situazioni di part-time; e poi, premi particolari.

Il tutto, naturalmente, dovrebbe essere disaggregato per categoria, livello e mansione. In sostanza, secondo la disposizione normativa, non sarebbe più proponibile riferirsi alle tabelle ministeriali. L’amministrazione appaltante dovrebbe proprio determinare un organigramma dettagliato dei lavoratori necessari, entrando nella minima regolazione delle voci retributive, senza nemmeno poter realizzare “medie” ponderate.

Il che va ben oltre, ovviamente, della determinazione di soglie al di sotto delle quali non sia considerato possibile per l’appaltatore andare, a meno di non pregiudicare il diritto alla corretta retribuzione dei dipendenti. E travalica anche il computo sull’incidenza del costo del personale nella realizzazione dei lavori pubblici, previsto dall’articolo 39, comma 3, del D.P.R. 207/2010: “Il quadro di incidenza della manodopera è il documento sintetico che indica, con riferimento allo specifico contratto, il costo del lavoro di cui all’articolo 86, comma 3-bis, del codice. Il quadro definisce l’incidenza percentuale della quantità di manodopera per le diverse categorie di cui si compone l’opera o il lavoro”. Come si nota, la norma si riferisce a un “documento sintetico” che, in quanto tale, ben difficilmente può conciliarsi con la valutazione richiesta dal novello comma 3-bis dell’articolo 81, riferito, invece, a voci di dettaglio del costo del lavoro aziendale, e non del singolo appalto.

Andiamo alla seconda innovazione, quella vista prima alla lettera a): si tratta tanto dell’inserimento della novella nell’articolo 82 (Criterio del prezzo più basso) invece che nell’articolo 82 (Criteri per la scelta dell'offerta migliore) del d.lgs 163/2006, oltre che nel sostituire le parole “l’offerta migliore”, con le parole “il prezzo più basso”.

A prima vista, dunque, il legislatore nel reiterare la disgraziatissima previsione che aveva opportunamente abolito a fine 2011, sembra prendere posizione: l’offerta col criterio del massimo ribasso fa scaturire il pericolo di pregiudicare i diritti dei lavoratori, a differenza dell’offerta economicamente più vantaggiosa, improntata alla valutazione, oltre che del costo, anche della qualità della prestazione.

E’ un modo di intendere gli appalti oggettivamente sbagliato ed influenzato dal pregiudizio immotivato che il massimo ribasso induca le imprese necessariamente ad offrire prezzi finali insostenibili.

È un modo di vedere totalmente sbagliato, perché contrastante con la normativa europea, ai sensi della quale il criterio del ribasso e dell’offerta economicamente più vantaggiosa sono del tutto equivalenti. Tanto è vero che lo stesso comma 1 dell’articolo 81 del d.lgs 163/2006 dispone: “Nei contratti pubblici, fatte salve le disposizioni legislative, regolamentari o amministrative relative alla remunerazione di servizi specifici, la migliore offerta è selezionata con il criterio del prezzo più basso o con il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa”, senza fissare alcun ordine di preferenza o priorità ed, anzi, lasciando totale discrezionalità alle amministrazioni appaltanti di avvalersi di un criterio piuttosto che di un altro nel successivo comma 2[4].

Si deve condividere la dottrina[5] secondo la quale riproporre la norma non più nell’articolo 81 del d.lgs 163/2006, riguardante tutti i criteri di gara, ma all’articolo 82, che regola il solo criterio del massimo ribasso costituisca un errore clamoroso.

Occorre, infatti, garantire che non comporti compressione dei diritti dei lavoratori non “il prezzo più basso”, ma “l’offerta migliore”, per almeno due ragioni. In primo luogo, il prezzo viene computato anche col criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, della quale deve rappresentare necessariamente un peso di un certo rilievo. Il fatto che si tratti di un’offerta che considera insieme qualità e prezzo non scongiura certo il pericolo che questo possa risultare incongruo. In secondo luogo, laddove si applichino i sistemi di esclusione automatica delle offerte anomale, il prezzo più basso non è quello dell’offerta aggiudicataria, che in realtà è, appunto, da considerare la “migliore”.

Pertanto, sebbene la riedizione della norma sia collocata nella regolazione del criterio del massimo ribasso, allo scopo di applicarla correttamente sembra necessario ritenerla valida sia per il criterio del massimo ribasso, sia per il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, giacchè la norma fa espresso riferimento al “prezzo” e non al criterio dell’offerta in sé e per sé. D’altra parte, se lo scopo del legislatore è garantire la giusta retribuzione dei lavoratori impiegati dagli operatori economici che stipulano contratti con la pubblica amministrazione, non avrebbe alcun senso sostenere che detta garanzia, concernente la valutazione del prezzo, valga solo per i contratti affidati col criterio del massimo ribasso e non per quelli affidati col criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa.

Del resto, se così fosse, il malaccorto legislatore avrebbe già offerto alle amministrazioni appaltanti la scappatoia per non affrontare le forche caudine della disposizione: basterebbe affidare tutti i contratti col criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa e la norma, riesumata dallo sciagurato “decreto del fare”, risulterebbe come non scritta.

Ma, la verità è che l’articolo 82, comma 3-bis, del d.lgs 163/2006, esattamente come il precedente abolito articolo 81, comma 2-bis, riesumato dal “decreto del fare” è esattamente come il suo defunto predecessore in parte totalmente inapplicabile, in altra parte destinato a non poter essere mai correttamente applicato.

La totale inapplicabilità della norma riguarda i contratti di fornitura. Ancorché l’articolo 82 si riferisca al criterio di gara e ricomprenda ogni possibile tipo di contratto, non ci vuol molto a comprendere l’impossibilità assoluta di determinare il prezzo al netto delle spese di personale desunte dalla contrattazione collettiva nazionale, dalle voci della contrattazione collettiva di secondo livello e dalle misure adottate dall’appaltatore per adempiere alle disposizioni in merito a salute e sicurezza nei luoghi di lavoro.

All’epoca dell’entrata in vigore del comma 3-bis dell’articolo 81 del d.lgs 163/2006 si confrontarono due chiavi di lettura. Secondo la prima, l'articolo 81, comma 3-bis, oggi articolo 82, comma 3-bis, imporrebbe alle amministrazioni appaltanti di scorporare dalla base di gara i costi del personale come quelli relativi alla sicurezza, così da consentire il ribasso esclusivamente sulle altre componenti del prezzo (materiali, noleggi, costi generali). La seconda chiave di lettura, invece, suggeriva e suggerisce di applicare la norma attuale nel senso che essa imponga comunque di verificare che l'offerta risultata aggiudicataria permetta di remunerare i lavoratori dell'appaltatore in modo da non violare i minimi salariali, analizzando nel dettaglio il sistema di esecuzione del contratto previsto dall'appaltatore.

Proprio la querelle interpretativa dimostra come l'articolo 81, comma 3-bis, ieri, l’articolo 82, comma 3-bis, oggi, per quanto sia riferito astrattamente tanti ai lavori pubblici, quanto ai servizi ed alle forniture, risulti nella sostanza totalmente inapplicabile in particolare alle forniture.

In proposito, occorre ricordare che le forniture, ai sensi dell'articolo 3, comma 9, del d.lgs 163/2006 sono contratti aventi “per oggetto l'acquisto, la locazione finanziaria, la locazione o l'acquisto a riscatto, con o senza opzione per l'acquisto, di prodotti”. Dunque, si tratta di veri e propri contratti di compravendita o noleggio o leasing di “beni”, oggetti, prodotti “finiti” e reperiti sul mercato.

Nell'ambito dei lavori pubblici e delle prestazioni di servizi ad alto impiego di manodopera, l'oggetto del contratto consiste nella realizzazione dell'opera o del servizio: il committente non acquista un bene già prodotto, finito e confezionato, ma incarica l'appaltatore di porre in essere tutte le lavorazioni necessarie per realizzare il bene, sulla base di un progetto, dal quale è possibile determinare quale organizzazione di mezzi e lavoro sia necessaria e, dunque, predeterminare quanto meno i criteri per valutare l'incidenza del costo del lavoro sulla singola categoria di lavorazione.

Nel caso, invece, dell'acquisto di un bene (un farmaco, un computer, un elemento di arredo, un bene di cancelleria, un'autovettura...) la prestazione richiesta al contraente non è la lavorazione del prodotto, ma la cessione della proprietà (o la locazione o locazione finanziaria o noleggio) del prodotto già realizzato, verso il corrispettivo di un prezzo.

Alla base, dunque, dell'acquisto, locazione o noleggio di prodotti non sta un progetto che ne preveda la lavorazione, ma solo l'identificazione della specifica tecnica del bene da acquisire.

Insomma, i contratti di fornitura finalizzati all’acquisto di beni “finiti” sono totalmente e ontologicamente privi della possibilità di determinare il sistema di produzione, che non risulta nemmeno in minima parte essere oggetto dell’accordo tra le parti, limitato solo al passaggio della proprietà o del possesso del bene. Non è dato conoscere, né rileva in alcun modo, il processo produttivo e, di conseguenza, l'incidenza del costo del lavoro sul prezzo del bene. D’altra parte, anche se si volesse ritenere la norma applicabile alla fattispecie delle forniture si finirebbe per incorrere in una probativo diabolica: avere la capacità di individuare quale parte del prezzo del singolo bene acquisito remuneri i minimi contrattuali ed i costi della sicurezza. Una capacità che nessuno, salvo il produttore, può avere. Infatti, l’incidenza del costo del lavoro sul prezzo unitario della penna, della tastiera del computer, della sedia, della lavagna o della pillola del farmaco, cambia radicalmente in relazione alle dimensioni dell’azienda, al sistema ed al ritmo di produzione, alla quantatià della manodopera impiegata, alla quantità dei beni prodotti, ai prezzi di stoccaggio e spedizione e a mille altri fattori che certamente non possono né essere conosciuti, né, soprattutto, essere imposti. L’amministrazione appaltante non potrebbe sicuramente ledere la libertà di impresa e di organizzazione imponendo che la penna sia prodotta con una certa lavorazione ed impiego di personale piuttosto che un altro. Inoltre, molto spesso il fornitore, cioè l’operatore economico col quale si stipula il contratto di acquisto, noleggio, leasing o locazione, è solo un rivenditore e non il produttore diretto del bene: dunque, nemmeno il contraente della pubblica amministrazione sa come sia stato realizzato il prodotto e con quale incidenza di personale.

E’ assolutamente incredibile ed increscioso che il legislatore, nel produrre le sue norme, non sia in grado di rendersi conto di queste banalissime considerazioni.

Né elementi concernenti la prestazione, quali la consegna, possono essere scorporati dal prezzo, considerando che la messa a disposizione del prodotto al compratore è una specifica obbligazione del venditore che fa parte del prezzo; per altro, il venditore si avvale, per la consegna, di corrieri e, dunque, dovrebbe essere noto il costo di un subcontraente della filiera e l'incidenza del costo del lavoro di questo, nell'ambito della diversa incidenza del costo complessivo della produzione. Un algoritmo ovviamente possibile solo sul piano astratto.

Stiracchiando di molto la norma, solo nel caso di contratto misto di acquisto e posa in opera o installazione l'articolo 82, comma 3-bis, del d.lgs 163/2006 può assumere rilevanza, ma unicamente per la prestazione di servizio finalizzato a rendere operativo il bene (come nel caso di arredi da assemblare, o elementi di laboratorio da mettere in funzione). In questo caso, infatti, è possibile in astratto scorporare il costo effettivo del personale chiamato all'installazione o posa del bene. Se, tuttavia, queste attività fossero già comprese nel prezzo standard offerto nel mercato “tutto incluso”, solo la scorporazione successiva all'aggiudicazione, finalizzata alla verifica della congruità potrebbe essere ammissibile, visto che mancherebbe in capo all'amministrazione appaltante ogni strumento per determinare l'incidenza di tali attività su prezzi di mercato connessi esclusivamente alla capacità organizzativa del produttore.

Per altro, se l’azienda fornitrice si avvalesse di un proprio appaltatore per le installazioni o montaggi, anche in questo caso l’amministrazione appaltante dovrebbe curarsi di conoscere di una subfornitura non costituente oggetto del contratto ed ingerirsi nell’organizzazione del lavoro del soggetto chiamato ad installare o montare.

Comunque, considerazioni analoghe possono farsi anche per i servizi e gli appalti di lavori. Sebbene in questo caso i contratti non siano finalizzati all’acquisizione di prodotti già realizzati, ma proprio alla realizzazione di attività lavorative, è possibile determinare una lista delle lavorazioni necessarie e definire l’incidenza del personale, in base prevalentemente al criterio orario.

Ma, per quanto col progetto e gli atti di gara si riesca, sia pur con immane fatica, a determinare i costi del personale secondo l’astrusa formula normativa, resta un problema fondamentale: il costo unitario del personale non potrebbe che essere solo ed esclusivamente un’astrazione dell’amministrazione appaltante, visto che non esistono minimi normativi. La libertà di organizzazione e di impresa, la diversità dei sistemi di produzione, acquisto, stoccaggio, vendita, forme contrattuali, incentivazioni, contratti collettivi e decentrati, impediscono di determinare un costo unitario del personale che possa andare bene davvero per ogni operatore economico.

Di fatto, non resta che recuperare l’interpretazione un po’ forzata a suo tempo prodotta dall’Avcp, secondo la quale la norma non possa che essere letta come previsione che impone alle amministrazioni di verificare in contraddittorio col contraente, in sede di verifica dell’anomalia dell’offerta, la congruità anche del costo del lavoro e della sicurezza (ovviamente della sicurezza “aziendale”, entrando la norma nel merito della disciplina della sicurezza nella realizzazione dell’appalto, essendo in questo caso chiaro che i costi sono certamente predefiniti dall’amministrazione appaltante e non soggetti a ribasso).

Le interpretazioni fini qui proposte sono tutte disapplicative della norma, tendenti a rilevarne l’inattuabilità.

Esse scontano, dunque, un difetto certamente rilevante: l’interpretazione deve giungere al risultato di indicare sempre come una norma debba essere applicata, non concludere che essa sia tamquam non esset.

Nel caso di specie, ci aveva pensato il decreto “salva Italia” a porre nel nulla la sciagurata previsione. Oggi ci accontenteremmo di un decreto che non abbia l’ambizione di salvare l’Italia, ma semplicemente l’ordinamento degli appalti pubblici e la libertà di impresa e che elimini per sempre lo zombie normativo dell’articolo 82, comma 3-bis, del d.lgs 163/2006, macabro frutto del “decreto del fare”.







[1] L. Oliveri, La giungla contrattuale vanifica il divieto di ribassi sul costo del lavoro, in www.appaltiecontratti.it 22/8/2011.




[2] L. Oliveri, Il lavoro nero si combatte solo con i controlli in loco e la velocizzazione dei pagamenti in www.appaltiecontratti.it 23/9/2011.




[3] Se ne riporta il testo:

1. I contratti collettivi di lavoro sottoscritti a livello aziendale o territoriale da associazioni dei lavoratori comparativamente piu' rappresentative sul piano nazionale o territoriale ovvero dalle loro rappresentanze sindacali operanti in azienda ai sensi della normativa di legge e degli accordi interconfederali vigenti, compreso l'accordo interconfederale del 28 giugno 2011, possono realizzare specifiche intese con efficacia nei confronti di tutti i lavoratori interessati a condizione di essere sottoscritte sulla base di un criterio maggioritario relativo alle predette rappresentanze sindacali, finalizzate alla maggiore occupazione, alla qualita' dei contratti di lavoro, all'adozione di forme di partecipazione dei lavoratori, alla emersione del lavoro irregolare, agli incrementi di competitivita' e di salario, alla gestione delle crisi aziendali e occupazionali, agli investimenti e all'avvio di nuove attivita'.

2. Le specifiche intese di cui al comma 1 possono riguardare la regolazione delle materie inerenti l'organizzazione del lavoro e della produzione con riferimento: a) agli impianti audiovisivi e alla introduzione di nuove tecnologie; b) alle mansioni del lavoratore, alla classificazione e inquadramento del personale; c) ai contratti a termine, ai contratti a orario ridotto, modulato o flessibile, al regime della solidarieta' negli appalti e ai casi di ricorso alla somministrazione di lavoro; d) alla disciplina dell'orario di lavoro; e) alle modalita' di assunzione e disciplina del rapporto di lavoro, comprese le collaborazioni coordinate e continuative a progetto e le partite IVA, alla trasformazione e conversione dei contratti di lavoro e alle conseguenze del recesso dal rapporto di lavoro, fatta eccezione per il licenziamento discriminatorio e il licenziamento della lavoratrice in concomitanza del matrimonio.

2-bis. Fermo restando il rispetto della Costituzione, nonche' i vincoli derivanti dalle normative comunitarie e dalle convenzioni internazionali sul lavoro, le specifiche intese di cui al comma 1 operano anche in deroga alle disposizioni di legge che disciplinano le materie richiamate dal comma 2 ed alle relative regolamentazioni contenute nei contratti collettivi nazionali di lavoro.

3. Le disposizioni contenute in contratti collettivi aziendali vigenti, approvati e sottoscritti prima dell'accordo interconfederale del 28 giugno 2011 tra le parti sociali, sono efficaci nei confronti di tutto il personale delle unita' produttive cui il contratto stesso si riferisce a condizione che sia stato approvato con votazione a maggioranza dei lavoratori.

3-bis. All'articolo 36, comma 1, del decreto legislativo 8 luglio 2003, n. 188, sono apportate le seguenti modifiche:

a) all'alinea, le parole: "e la normativa regolamentare, compatibili con la legislazione comunitaria, ed applicate" sono sostituite dalle seguenti: "la normativa regolamentare ed i contratti collettivi nazionali di settore, compatibili con la legislazione comunitaria, ed applicati";

b) dopo la lettera b), e' inserita la seguente: "b-bis) condizioni di lavoro del personale")).




[4] Vi sono dei casi in cui il legislatore impone l’utilizzo del criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa: la concessione di lavori pubblici, la finanza di progetto, la locazione finanziaria di opere pubbliche o di pubblica utilità, il contratto di disponibilità. Si tratta, in effetti, di contratti complessi, nei quali per altro non si richiede all’appaltatore il prodotto finito, ma si valuta il processo di progettazione e realizzazione, nonché la sostenibilità finanziaria, sicchè si finisce per realizzare forme di appalto-concorso. L’attribuzione della definizione della progettazione e della stessa conformazione del prodotto o servizio e del prezzo all’appaltatore giustificano il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, ma al tempo stesso lo spazio di autonomia progettuale e produttiva rendono tali tipi di contratto totalmente incompatibili con il sistema di garanzia del costo del lavoro. Un primo significato, allora, forse in parte congruo della novellazione dell’articolo 81 del d.lgs 163/2006 col riferimento al solo ribasso potrebbe essere quello di escludere dal suo campo di applicazione i contratti elencati prima.




[5] B. Borsetti, “A volte ritornano…ecco il costo del personale negli appalti”, in www.leggioggi.it


1 commento:

  1. Deus quem perdere vult, prius dementat!
    Probabilmente nessuno di questi legislatori ha mai organizzato una gara, altrettanto probabilmente nessuno di questi ha mai lavorato in maniera competitiva mettendosi in gioco personalmente, come possiamo pretendere che producano qualcosa di razionale?
    Ricordiamoci inoltre che ogni semplificazione a favore di alcuni corrisponde a perdita di potere per altri.
    Non ho più speranza.

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