domenica 16 febbraio 2014

Quel miliardo di #risparmi inventato dal “pensiero unico” #PA #costidellapolitica

 

Matteo Renzi va ripetendo da mesi che agendo sui costi della politica e, in particolare, sul Parlamento si risparmia 1 miliardo di euro.

E’ netta la sensazione che poiché l’ha detto il “cavallo vincente” di questi giorni, l’affermazione non possa che essere vera e ineludibile: il miliardo di euro non può non risparmiarsi.

Poiché l’Italia è il paese della “profonda sintonia”, prova il centro studi di Confindustria a sintonizzarsi col pensiero unico dominante, per dimostrare che agendo sui costi della Camera, si può risparmiare appunto il famoso miliardo.

Peccato che la sintonia non sia proprio perfetta, perché Renzi da mesi afferma che il miliardo lo si ricava dall’abolizione del Senato.

Peccato, ancora, che il risparmio del famosissimo miliardo sia sostanzialmente un’invenzione.

Di risparmiare 1 miliardo dall’abolizione (che, poi, in realtà, Renzi non vuole abolire il Senato, ma trasformarlo in un organismo di discutibilissima utilità dedicato alle autonomie) non se ne parla nemmeno: infatti, basta qualche clic per andare a vedere il bilancio pubblicato dal Senato (http://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/721896.pdf) e constatare a pagina 12 che la previsione di spesa è di 541 milioni. Poco più della metà.

Che, allora, quella di Confindustria sia una mano tesa, finalizzata a rimediare all’errore marchiano di stima del “pensiero unico” in merito al risparmio dei “costi della politica”? Che, dunque, la Camera sostenga spese così spropositate, da poter risparmiare il sempre più famoso miliardo?

Nemmeno per sogno. Anche in questo caso, pochi clic per verificare (http://bilancio.camera.it/4?scheda_contenuto=11) che il bilancio complessivo, parte spesa, della Camera, prevede un volume di spesa complessivo di 1,260 miliardi, comprese le spese in conto capitale. Come dire che per tagliare di 1 miliardo le spese della Camera, occorre proprio abolire la Camera, altro che il Senato.

Ogni giorno di più si assiste a qualche studio, proveniente da fonti più o meno autorevoli, che propongono, come verità rivelata da superiori entità, immaginifiche possibilità di risparmio dai costi della politica, inducendo, oltre tutto, a credere che da queste fenomenali idee di risparmio derivino direttamente l’incremento della produttività, l’aumento dei salari, la crescita del Pil, la soluzione della crisi.

Si tratta, purtroppo, invece, poco più che di demagogia travestita da ricerca scientifico-economica, non sostenuta, come subito si capisce semplicemente andando a curiosare tra le fonti, da alcuna possibilità di realizzazione concreta. Almeno, non negli importi immaginati.

E’ evidente che è possibile agire sulla spesa della Camera, come del Senato, come di qualsiasi amministrazione pubblica. Non è, però, corretto sparare cifre “a sensazione”, sempre “tonde”, facendo credere che basti uno schiocco di dita per tagliarle.

Nessuno, per altro, si sforza mai di evidenziare che i benefici derivanti da risparmi per cifre come 1 miliardo sono sostanzialmente nulli. La spesa pubblica complessiva, bisogna sempre ricordarlo, ammonta a 807 miliardi. La riduzione di 1 miliardo corrisponde, dunque, allo 0,12% del totale. Anche i meno avveduti si rendono conto che un risparmio dello 0,12% non può cambiare lo stato delle cose. E’ come se in una famiglia che spenda 25.000 euro all’anno, si decida di tagliare lo 0,12% per risanare il bilancio familiare: cioè 30 euro in un anno, ovvero 8 centesimi al giorno.

Lo studio di Confindustria, ovviamente, regala l’altra perla tipica del pensiero unico: occorre abolire anche le province. Dalle cronache dei giornali non si evince quale sarebbe il miracolistico risparmio derivante da questa misura. Ma, anche in questo caso, il contesto del ragionamento proposto dal Centro studi appare poco persuasivo ed infondato. Infatti, lo studio afferma che occorre diminuire i centri decisionali.

Non c’è dubbio che faccia presa su chiunque indicare come un problema l’eccessivo numero dei centri decisionali e che, pertanto, sarebbe opportuno ridurre la quantità di amministrazioni e il numero delle funzioni da esse svolte.

La premessa, ineccepibile, tuttavia, si scontra con la realtà, almeno come attualmente configurata nel ddl Delrio e nell’organizzazione istituzionale. L’Istat (http://censimentoindustriaeservizi.istat.it/istatcens/primi-risultati-9-censimento-generale-dellindustria-e-dei-servizi-e-censimento-delle-istituzioni-non-profit/) censisce la presenza di circa 12.000 amministrazioni pubbliche in Italia nel 2011 (3.000 circa in meno rispetto al 2001). Le province sono 107, cioè lo 0,89% del totale.

Anche in questo caso lo capisce chiunque come il problema non siano assolutamente le province. Come altrettanto chiaro è che spargere le funzioni e le competenze provinciali, cioè di 107 enti, tra 8100 comuni, 370 unioni di comuni, 10 (o 18, non si è capito) città metropolitane e 20 regioni non razionalizza assolutamente nulla, ma crea solo confusione estrema.

Si ha la sensazione che le analisi prodotte e magnificate dai media abbiano tutti i problemi tipici della demagogia: partono da problemi veri, cioè identificano diagnosi corrette, ma propongono cure sbagliate, perché mal direzionate.

Per razionalizzare da subito l’amministrazione pubblica occorrerebbe puntare decisi su pochi ma determinanti elementi, che, però, costano fatica e tolgono potere. La famosa “agenda digitale” sarebbe l’occasione per fare in modo che le banche dati finalmente “si parlino”. Ma, occorrerebbe, ad esempio, superare le resistenze di un ente come l’Inps che i suoi dati non li molla e rende pubblici nemmeno per sogno. Basti ricordare la questione degli esodati o far presente che la famosa “banca dati dei percettori”, nella quale inserire tutti i cittadini percettori di ammortizzatori sociali, utilissima per le politiche del lavoro e sociali, non consente estrazioni e ricerche plurime, né si connette ai data base dei servizi per il lavoro delle province.

Per rendere più agevole e celere il lavoro e incidere meno sui cittadini, ancora, basterebbe estendere, senza eccezione alcuna, il principio della Segnalazione Certificata di Inizio Attività, con la sola eccezione delle valutazioni di impatto ambientale, da concentrare su enti che non possono essere comunali, ma sovracomunali. Ciascun imprenditore, ogni cittadino, dunque, potrebbe attivare le sue attività, dall’apertura dell’azienda a quella del laboratorio artigiano, dalla partecipazione alla stagione della caccia ad ogni altro tipo di licenza, con una semplicissima dichiarazione, per altro con facoltatività dell’asseverazione da parte di professionisti.

La funzione amministrativa a quel punto potrebbe agevolmente trasformarsi in pianificazione generale, e controlli sulla regolarità. A patto di non prevedere, come nell’attuale sistema, termini per l’effettuazione delle verifiche, col potere/dovere, dunque, di verificare in ogni tempo possibili eventuali irregolarità ed applicare sanzioni fino alla chiusura delle attività, specie quando si leda la concorrenza.

Ancora, l’agenda digitale dovrebbe consentire di trasformare il processo di acquisizione del Durc, ancora oggi fondato su istanza/risposta, per quanto su canale telematico, in una semplicissima estrazione del dato alla data di aggiornamento, da considerare ex lege facente prova. Inoltre, civiltà giuridica consiglia, anzi, impone, di consentire la compensazione debiti-crediti tra pubblica amministrazione e imprese, con onere per solo la prima di verificare in un sistema di contabilità unico se la compensazione non risulti chiesta più volte.

La pubblica amministrazione non sarebbe più ostacolo o filtro o produttore di strumenti che “autorizzino” i terzi ad agire nel sistema produttivo, e si trasformerebbe in un ente che, da un lato, se facoltativamente richiesto, fornisca consulenza preventiva e, dall’altro, con i controlli successivi garantisca la correttezza dell’operato.

Una semplicissima “rivoluzione” come questa, sia pure da affrontare in un lasso di tempo di medio-lungo termine, determinerebbe risparmi reali e non immaginifici.

Certo, occorre che si voglia sul serio aumentare l’efficienza, contenendo i costi. Se, invece, le attività di controllo vengano sacrificate come nel sistema del mercato del lavoro nel quale opera ancora dal 2011 una direttiva ministeriale che “consiglia” agli ispettorati di contenere le uscite ispettive a causa della crisi, ovviamente simile modo davvero nuovo di intendere la pubblica amministrazione non potrà mai funzionare, così come mai si avranno reali risparmi ed incrementi di efficienza.

Sicchè, dovremo contentarci di studi e ricerche sballati o, comunque, intenzionalmente rivolti a fare propaganda e confusione, per distrarre dalle vere soluzioni.

 

2 commenti:

  1. Troppo buon senso. Impossibile che sia ascoltato da chi non vuole abolire gli sprechi ma eliminare il fastidio delle istituzioni democratiche.

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