sabato 8 marzo 2014

fallimento del #federalismo fiscale e del “partito dei #sindaci” #PA #riforme

 

Il fallimento di un’impresa o di un modello gestionale dovrebbero comportare la responsabilità di chi le ha cagionate, le scuse e il divieto, per costoro, di continuare a ricoprire funzioni e cariche attraverso le quali reiterare i danni già prodotti.

Questo accade dove il senso di responsabilità è sentito prima ancora di una previsione di responsabilità fissata dalle leggi e, ancora, dove sia possibile attingere ad informazioni corrette, complete, non demagogiche.

Dunque, non accade in Italia, Paese nel quale il fallimento assoluto del “federalismo”, quello “fiscale” in particolare e del “partito dei sindaci” è all’evidenza dei fatti, ma viene taciuto o mistificato. Tanto che nell’attuale Governo a presiederlo c’è un sindaco e a presidiarlo una folta rappresentanza di esponenti dell’Anci, (associazione nazionale dei comuni). Non a caso, questo Governo, come i due precedenti, già molto sensibili al tema, mentre esaltano i comuni e contro il federalismo e le regioni non spendono una parola, limitandosi ad ipotizzare maquillage al Titolo V della Costituzione, hanno scatenato una campagna contro le province, al solo scopo di dare l’impressione ai cittadini poco informati che sia con tale scelta possibile rimediare agli sfaceli che il federalismo fiscale ed il partito dei sindaci hanno prodotto.

Sentendo la campana degli Stella&Rizzo e, soprattutto, del Governo, sembra che il sol dell’avvenire sia tutto nelle mani dei sindaci e che sarà solo il loro illuminato operare a poterci trarre dalle paludi in cui la finanza e la crisi internazionali ci hanno impantanato.

Basti guardare cosa è scritto nella relazione illustrativa del ddl Delrio sulle province: “A questo scopo tutto il disegno di legge è segnato dalla volontà di fare dei sindaci e dei presidenti delle unioni di comuni la classe politica di base del governo locale e quindi anche, in una misura non piccola, del nostro ordinamento democratico e costituzionale.

Una classe politica, quella costituita dai sindaci e dai presidenti delle unioni, sulla quale si fa poggiare non solo l'amministrazione comunale in senso proprio, ma anche l'intera organizzazione territoriale di area vasta, nel caso delle province, nonché l'istituzionalizzazione di un ente di governo metropolitano quale nuovo livello di governo destinato a dare finalmente al Paese uno strumento di governo delle aree metropolitane flessibile, dalle ampie e robuste competenze di coordinamento e di programmazione, in grado di essere motore di sviluppo per tutto il nostro sistema economico e produttivo, capace di inserire le aree più produttive della nostra realtà nella grande rete delle città nel mondo e, soprattutto, dell'Unione europea e dei suoi programmi di sviluppo.

Tutto questo fa dunque dei sindaci e della classe politica comunale molto di più del tessuto connettivo sul quale poggia la democrazia locale, fondamento e forza di ogni democrazia, come Tocqueville ci ha insegnato.

Nella prospettiva di questo disegno di legge, infatti, essa si configura come la parte della classe politica e dirigente del Paese che, proprio per la sua capacità di essere espressione della base delle nostre comunità ma anche di guardare all'interesse di queste in una prospettiva più ampia, può diventare il tessuto forte sul quale rifondare la fiducia dei cittadini nella politica e nel suo insostituibile ruolo di guida”.

Ebbene, la Corte dei conti, per l’ennesima volta smentisce drasticamente Delrio (lo ha già fatto per ben due volte in merito agli inesistenti risparmi derivanti dall’eliminazione delle province) e la mistificazione del “partito dei sindaci” come moderno stuolo di salvatori della Patria. Lo fa, per voce delle Sezioni Riunite, nell’impietosa relazione svolta in sede di audizione presso la Commissione parlamentare per l’attuazione del federalismo fiscale, “Attuazione e prospettive del federalismo fiscale” del 6 marzo 2014.

La magistratura contabile grida che il re è nudo, anche se in troppi non vogliono accorgersene.

Il “federalismo fiscale”, araba fenice di questi 14 anni trascorsi dalla sciagurata riforma del Titolo V della Costituzione, è una disfatta senza possibilità di appello.

Scopo decantato della “valorizzazione delle autonomie” e del federalismo fiscale, ricorda la Corte dei conti, era “da un lato, l’obiettivo di un aumento dell’efficienza, rendendo gli amministratori locali responsabili di fronte ai cittadini, posti nella condizione di valutare la corrispondenza fra quantità e qualità dei servizi ricevuti e imposte pagate; dall’altro gli strumenti su cui tale modello poggiava, incentrati sullo scambio fra taglio dei trasferimenti statali e riconoscimento agli enti decentrati di un’articolata autonomia impositiva; da un altro lato ancora, un equilibrato processo di transizione al federalismo, in un contesto garantito da un vincolo di invarianza della pressione fiscale complessiva”.

Ma, di tutto questo non se n’è fatto assolutamente nulla. Perché si realizzasse questa velleità lo Stato avrebbe dovuto rinunciare a svolgere proprie funzioni e competenze, dismettendole e demandandole agli enti decentrati, passando loro personale, risorse e riducendo, simmetricamente, la propria imposizione fiscale, per lasciarla non solo immutata, ma consentirne la riduzione, grazie all’efficienza che si sarebbe determinata con i governi locali.

Infatti, spiega la Corte dei conti “i risultati conseguiti sono stati diversi: non solo non si trovano tracce di compensazione fra fisco centrale e fisco locale, ma, anzi, di pari passo con l’attuazione del federalismo fiscale, si è registrata una significativa accelerazione sia delle entrate di competenza degli enti territoriali sia di quelle dell’amministrazione centrale. Le prime, in particolare, nell’arco di un ventennio hanno consolidato una performance (Grafico 1) che si segnala per un balzo di quasi cinque punti in termini reali, con un incremento dell’ordine del 130 per cento. La forza trainante sulla pressione fiscale complessiva, cresciuta dal 38 per cento al 44 per cento, appare imputabile per oltre i 4/5 alla dinamica delle entrate locali”.

Dunque, l’incremento della pressione fiscale è dovuto a due fattori:

  1. lo Stato non ha minimamente inteso rinunciare alle entrate delle proprie strutture, nonostante il d.lgs 112/1998 gli avesse imposto di attribuire a regioni, province e comune centinaia di funzioni, che, invece, ha sminuzzato e tenuto ancora in parte per sé, creando sfarinature e non traslazioni di competenze;

  2. regioni e comuni in particolare hanno incrementato a dismisura le loro entrate fiscali, come dimostra inequivocabilmente la Corte dei conti, anche andando oltre alla necessità di fare fronte ai tagli di trasferimenti statali.


Insomma, il federalismo fiscale è stato fonte di incremento della pressione fiscale e della spesa, senza assicurare nessun aumento di efficienza e di razionalizzazione. Lo abbiamo scritto anche la settimana scorsa: secondo le rilevazioni Istat sui conti consuntivi dei comuni dal 2002 al 2011, le entrate fiscali sono passate da 22 a 33 miliardi, un incremento del 50%, per effetto del quale i comuni non hanno abbassato per nulla la propria spesa, assestata, sempre secondo i dati Istat, sugli 82 miliardi.

Un rifiuto assoluto di contribuire al risanamento dello Stato. Mentre le province che si vogliono abolire, magari obtorto collo, nello stesso lasso di tempo hanno ridotto spesa ed entrate da 14 a 10 miliardi di euro.

Osserva ancora la Corte dei conti che il dissennato federalismo fiscale:

a)                  implica “lo Stato centrale che taglia i trasferimenti ma lascia invariato il prelievo di sua competenza; gli enti territoriali che, per sopperire ai tagli dei trasferimenti, aumentano le aliquote dei propri tributi, a volte anche più dell’occorrente”;

b)                 sembra “far emergere, insomma, una sorta di “regola distorsiva”, in virtù della quale i territori con redditi medi più bassi, espressione di economie più in affanno, sono penalizzati da una pressione fiscale locale più elevata”.

Dunque, le amministrazioni territoriali hanno contribuito non a migliorare, bensì a peggiorare lo stato dell’economia e della vita dei propri territori.

Queste responsabilità vanno ascritte in toto a regioni e comuni. Non è una difesa d’ufficio delle province, ma la constatazione che la parte del leone, il 90% della manovra della spesa e delle entrate nei territori è in mano a questi organi, che il Governo e i media non voglio toccare.

Non si può, numeri alla mano, non pensare che chi induce a ritenere l’abolizione delle province il rimedio a questi mali sia in mala fede.

La Corte dei conti spiega che presso le amministrazioni locali, che per volume di spesa e quantità sono comuni e regioni si annidano debiti nascosti, in quanto “si è venuto aggravando il fenomeno negativo di amministrazioni pubbliche che, impegnate ad esporre bilanci formalmente in ordine, hanno consentito una lievitazione anomala di debiti occulti e ritardi crescenti nella regolazione delle transazioni con le imprese fornitrici di beni e servizi”.

Insomma, vi sono impegni di spesa di competenza fondati su previsioni di entrata inventate. Continua la Corte dei conti: “in molti casi, invece, siamo di fronte a somme impegnate creando spazi fittizi di competenza grazie alla sopravvalutazione delle previsioni di entrata e della abnorme dilatazione della massa dei residui attivi […]. Ne sono esempi diffusi le somme relative a introiti per multe nei Comuni, o i finanziamenti che si prevede di ricevere dallo Stato o dai fondi europei nel caso delle Regioni”.

Il sistema locale dei comuni e delle regioni, pertanto, potrebbe ancora riservare più che sgradite sorprese in merito all’indebitamento che, molto verosimilmente, è di molto maggiore di quello ufficialmente stimato, per effetto di un modo di gestire ed amministrare che è anni luce lontano da quello propagandato ad arte.

Un’altra bomba a tempo è quelle delle partecipate, per il 99% di proprietà e gestite dai comuni e dalle regioni. La Corte dei conti prende atto che questo decennio “ha visto crescere il ricorso a forme societarie degli Enti locali quale strumento di flessibilizzazione della gestione. Si tratta di soggetti, per la maggior parte, non considerati tra le amministrazioni pubbliche e, quindi, non inclusi nel conto delle amministrazioni locali. Come è emerso dall’attività di controllo delle Sezioni regionali, di frequente il ricorso a tali soggetti ha consentito la messa in atto di forme di elusione del Patto di stabilità, l’aggiramento di vincoli all’indebitamento, comportando situazioni che pongono a rischio l’equilibrio finanziario dell’ente fino a poterne provocare il dissesto”.

I sindaci e le regioni hanno potuto far fiorire questi frutti amari grazie ad un terreno di coltura culturale favorevole ad una concezione patologica del federalismo, come elemento disgregante e non unificante di una Nazione e dei suoi apparati e su una fiducia, che i fatti dimostrano essere mal riposta, sulla “responsabilità politica” degli amministratori. La quale ha anche determinato, simmetricamente all’incremento delle competenze e della tassazione locale, la sostanziale eliminazione di ogni controllo esterno preventivo, consentendo gli sconquassi che ora vengono osservati.

E ancora oggi la sentenza 39/2014 della Corte costituzionale che accoglie i ricorsi della regione Friuli sul d.. 174/2012 in tema di rafforzamento della partecipazione della Corte dei conti al controllo sulla gestione finanziaria delle Regioni e sui controlli sui gruppi consiliari dei consigli regionali dimostra che siamo all’interno di un quadro ordinamentale ed una cultura giuridica fallimentari senza via d’uscita, anche perché le idee che vengono presentate per il “rilancio” del Paese non portano a nessuna svolta e sono portate avanti proprio da forti protagonisti del fallimento, che oggi siedono al Governo.

 

 

 

 

 

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