L’articolo 4 del d.l. 16/2014 è rimarchevole più come occasione mancata per intervenire finalmente con chiarezza sull’immenso problema della contrattazione decentrata, che una definitiva soluzione.
Di fatto, è un piccolo condono, per altro (e forse questo è un bene) non generalizzato, bensì ristretto a specifiche circostanze e tipologie di enti, che lascia aperte molte delle questioni da sempre sul tavolo.
Limite delle risorse decentrate. Uno degli aspetti maggiormente contraddittori della normativa legislativa e contrattuale di disciplina della gestione delle risorse decentrate concerne l’utilizzo delle risorse, che è il punto affrontato dal d.l. 16/2014, i cui effetti sananti non si estendono ad errori relativi alla costituzione del fondo, ma alla sua utilizzazione.
Ora, è noto che il fondo per la contrattazione decentrata è caratterizzato da un vincolo di destinazione: le somme di denaro facenti parte del fondo possono essere esclusivamente destinate al personale, salvo che espresse disposizioni di legge non prevedano in maniera puntuale tagli o risparmi, da destinare al bilancio (come nel caso dell’articolo 9, comma 2-bis, del d.l. 78/2010, convertito in legge 122/2010).
La controprova di quanto affermato prima è data dall’articolo 17, comma 5, del Ccnl 1.4.1999, ai sensi del quale “le somme non utilizzate o non attribuite con riferimento alle finalità del corrispondente esercizio finanziario sono portate in aumento delle risorse dell’anno successivo”.
E’ vero che gli articoli 15 e 17 del citato Ccnl 1.4.1999 fissano criteri vincolanti per la destinazione e, dunque, l’utilizzo del fondo.
Un fatto risulta per altro fonte di infinite questioni connesse alle ispezioni della Ragioneria generale dello Stato, piuttosto che dell’ispettorato della Funzione pubblica, nonché fonte di rilevante contenzioso davanti alla Corte dei conti: l’eccessiva rigorosità nell’attenzione al “titolo” di erogazione dei compensi, sebbene ad invarianza del “tetto” del fondo della contrattazione.
Facciamo un esempio semplicissimo. L’articolo 36 del Ccnl 14.9.2000 fissa l’indennità di maneggio valori entro un “range” compreso tra 0,52 e 1,55 euro. Poniamo che il fondo sia pari a 100.000 euro. Se un’amministrazione, certamente violando i vincoli imposti dalla contrattazione, prevedesse un massimo di 1,60 euro, riducendo simmetricamente la disponibilità di altri fondi, così da restare comunque entro la spesa di 100.000 euro, si aprirebbero le cateratte, si oscurerebbero i cieli e giungerebbe l’araldo dell’Armageddon ad annunciare la tragica fine del mondo, del passato e del futuro.
Infatti, gli ispettori della Ragioneria generale dello Stato inorridirebbero davanti a cotanta violazione, preparerebbero relazioni spesse 15 centimetri, metterebbero per giorni a soqquadro gli uffici, chiederebbero enciclopedie di giustificazioni e controdeduzioni puntualmente respinte, invierebbero comunque tutto alla procura della Corte dei conti, invitando le amministrazioni a recuperare il maltolto ed invitando perentoriamente la magistratura contabile ad avviare le azioni di responsabilità
Si tratta di eventi che abbiamo descritto in modo colorato, ma che da anni si replicano secondo questo schema anche, lo si ripete, laddove l’errore nella quantificazione della singola indennità risulti sì erronea, ma non tale da aver alterato quello che davvero dovrebbe interessare: l’equilibrio complessivo del bilancio e, dunque, il rispetto pedissequo del tetto massimo della spesa.
E’ assolutamente vero che la contrattazione collettiva decentrata è subordinata a quella nazionale e alle norme. Ma, sarebbe da comprendere che determinate violazioni sono di natura esclusivamente formale, se non implichino lo sfondamento della misura massima delle risorse. Poiché la destinazione dei denari compresi nel fondo è compito primario della contrattazione decentrata, se a un certo punto le parti, pur contravvenendo ad indicazioni superiori, decidono di distribuire il fondo in modo differente, ma restando entro il recinto del fondo complessivo, ci sarebbe da chiederesi che senso ha attivare ispezioni ed azioni amministrative e giudiziarie.
Nessuno, evidentemente, è in grado di valutare il rapporto costi/benefici di simile modo di interpretare le norme e le regole.
Il risultato di tutto ciò, lo si è detto sopra, è una situazione caotica di iniziative giurisdizionali ed ispettive particolarmente pesante, che, per altro, immancabilmente sbocca nell’inevitabile “sanatoria”.
Allora, perché il legislatore non ha previsto, una volta e per sempre, l’assenza di responsabilità e di conseguenze per la violazione dei limiti all’opera di destinazione delle risorse, anzi prevedendo espressamente che le parti possano elaborare in modo diverso gli importi fissati, da definire come indicativi? Quanto contenzioso, fatica, ispezioni, conflitti si potrebbero risparmiare con questa semplicissima previsione?
Ruolo dei servizi ispettivi. Il d.l. 16/2014, proprio perché si è limitato a guardare alla questione della contrattazione in via solo retrospettiva e in un’ottica “sanante” non si è curato di ridefinire i vincoli ed i poteri della contrattazione, né quelli della funzione ispettiva.
E’ notorio che in moltissimi casi i rilievi delle ispezioni sono stati totalmente ribaltati dai giudici del lavoro. Clamoroso è l’esempio della presunta incumulabilità dell’indennità di vigilanza con quella di disagio o rischio.
E’ esattamente un altro esempio di titolo “dubbio” alla percezione di somme, che, però, se contenuto entro il tetto del fondo non comporta alcun danno complessivo alla gestione finanziaria degli enti.
Eppure, è uno dei “cavalli di battaglia” dei servizi ispettivi, che insistono da sempre per l’illegittimità di tale cumulo. Mentre i giudici del lavoro ritengono unanimemente il contrario.
Allora, il legislatore avrebbe dovuto, ma da anni, regolare e limitare con più chiarezza l’operato dei servizi ispettivi, i quali determinano da se stessi i principi in base ai quali considerare legittimi o meno i contratti decentrati, spesso basandosi sulle interpretazioni dell’Aran. Nonostante essi non abbiano alcun valore cogenti, essendo solo “indirizzi” per la contrattazione, oltre tutto rivolti solo alla parte datoriale, senza alcuna funzione di interpretazione “autentica”, riservata dalla legge al legislatore o, mediante specifica procedura giurisdizionale, al giudice del lavoro.
Sembrerebbe evidente che, invece, i servizi ispettivi dovrebbero individuare nella giurisprudenza i limiti alla propria attività. Così come altrettanto chiaro dovrebbe essere che le regole generali sulle quali basarsi dovrebbero provenire da regole espresse della legge o della contrattazione collettiva nazionale, ciascuno per le reciproche competenze, e non da interpretazioni, per quanto autorevoli.
Corte dei conti. Allo stesso modo, il legislatore ha perso l’occasione per definire in modo chiaro lo spettro delle competenze della Corte dei conti, tanto in sede giurisdizionale che di controllo (ma su questo torneremo dopo).
In fase di controllo, le Sezioni regionali si rifiutano da sempre di esprimere pareri in merito alle questioni connesse alla contrattazione decentrata, anche per non intromettersi in vicende che potrebbero, poi, essere oggetto della cognizione in fase giurisdizionale.
E così, il sistema si regge, come visto sopra, su interpretazioni dell’Aran, che è un’agenzia per la contrattazione, nemmeno un’authority né tanto meno un soggetto che dispone di poteri di interpretazione cogente, oppure su linee interpretative dei servizi ispettivi, invece che su molto più probanti e sicuramente cogenti pronunciamenti della magistratura contabile.
Anche la sede giurisdizionale la Corte dei conti della corte dei conti dovrebber essere ripensata. Occorrerebbero chiare disposizioni tali da considerare come non dannoso a nessun titolo il contratto decentrato che, pur non “ortodosso” nella definizione dei “titoli” di percezione delle retribuzioni, risulti comunque rispettoso del principio di onnicomprensività e del tetto di spesa, sì da non poter considerarsi fonte di responsabilità erariale, sulla base di un veloce giudizio preliminare sugli effetti complessivi del contratto. Abbandonando, così, la strada della responsabilità formale, connessa alla corretta configurazione del “titolo” giuridico di percezione delle somme.
Giudici ordinari. Uno degli aspetti più di rilievo dell’articolo 4 del d.l. 16/2014 è l’indicazione chiara della strada da percorrere, nel caso di accertamento di violazioni ai vincoli della contrattazione. Non sarà corretto recuperare le risorse direttamente nei confronti dei dipendenti che le abbiano percepite, ma occorrerà provvedere nei confronti delle risorse contrattuali stesse.
In effetti, se l’indicazione del legislatore (per altro espressa in modo solo implicito e indiretto) risulta opportuna, essa non costituisce per nulla una novità.
Contrariamente a quanto negli scorsi giorni hanno sostenuto i media, infatti, la giurisdizione sul rapporto di lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche non appartiene ai Tar, bensì, dal 1998, al giudice ordinario, nella veste di giudice del lavoro.
Ora, questa giurisdizione, lo diciamo da anni, costituisce uno dei gravissimi problemi nella gestione del rapporto di lavoro pubblico. Il giudice ordinario ha una scarsa dimestichezza con le regole del lavoro pubblico, fortemente derogatorie della disciplina lavoristica ordinaria. Ed applica modi di interpretare le norme che, se vanno bene per il lavoro privato, cozzano frontalmente con la disciplina speciale pubblicistica. Basti pensare al pastrocchio del lavoro a tempo determinato: i giudici del lavoro insistono nel voler estendere al lavoro pubblico la “tutela reale”, cioè la trasformazione dei lavori “precari” in lavoro a tempo indeterminato nel caso di inanellamento dei contratti, per quanto l’articolo 36, comma 5, del d.lgs 165/2001 lo vieti espressamente e la Corte di giustizia delle comunità europee a più riprese abbia considerato lecito che uno Stato stabilisca in tal senso, laddove esista uno strumento di risarcimento del danno per il lavoratore.
Lo stesso giudice ordinario quasi unanimemente considera come illeciti i recuperi delle somme percepiti dai lavoratori per effetto di clausole illecite o nulle dei contratti, ponendo sistematicamente nel nulla le iniziative delle amministrazioni e creando problemi non indifferenti sul piano operativo.
In effetti, le amministrazioni di fronte alle verifiche ispettive che le invitano ad effettuare tali recuperi non hanno scelta: debbono attivarsi, anche se, probabilmente, coloro che dovrebbero essere chiamati a rispondere dovrebbero essere quelli che hanno materialmente dato corso alla contrattazione illegittima: il presidente delle delegazioni trattanti, i componenti della delegazione trattante di parte pubblica, i revisori dei conti che certificano le ipotesi di contratto, le giunte che autorizzano la stipulazione definitiva dei contratti, i dirigenti che vi danno corso.
Sta di fatto che sarebbe stato il caso di un intervento molto più ampio, coinvolgente la giurisdizione sul lavoro pubblico.
I giudici ordinari sono fin troppo inclini ad accogliere ricorsi per comportamento antisindacale, cagionati da decisioni che le amministrazioni debbono adottare in diretta applicazione delle leggi o di vincolanti ordini dei servizi ispettivi.
Molto spesso, i giudici ordinari non cogliendo la specialità ordinamentale del lavoro pubblico che limita drasticamente funzioni e poteri dei sindacati assegnando alla diretta responsabilità del datore pubblico compiti e decisioni di carattere unilaterale, discettano dell’assurda necessità che il riscontro di clausole nulle della contrattazione non possa essere oggetto di atti d’ufficio dovuti, ma di una contrattazione con i sindacati, conclusasi negativamente la quale si dovrebbe agire davanti al giudice, per ottenere da questo la dichiarazione di nullità; e nel frattempo, però, continuare ad applicare clausole riconosciute come nulle, anche nella consapevolezza delle responsabilità erariali connesse.
Un paradosso, come paradossale è l’interpretazione, sbagliatissima e contraria, per altro, al d.lgs 141/2011, che i giudici del lavoro continuano a dare dell’articolo 65 del d.lgs 150/2009, come norma che avrebbe tenuto in vita i contratti decentrati anche incompatibili con la riforma Brunetta, fino al 31.12.2012, ritenendo che l’inerzia o l’intenzionale mancanza di volontà dei sindacati di adeguare i contratti alla riforma o di stipulare i nuovi a partire dal 2010 in modo che fossero già adeguati, potesse essere una sorta di diritto al mantenimento nell’ordinamento di contratti contrari alla legge.
La giurisdizione ordinaria dovrebbe essere eliminata e rassegnata ai Tar, esattamente al contrario di quanto pensa una stampa generalista assolutamente poco informata sul tema. Oppure, occorrerebbero ogni volta norme estremamente chiare e vincolanti sulla giurisdizione, speciali e specifiche per il rito del lavoro concernenti questioni connesse al lavoro pubblico, in primo luogo per quanto concerne le più limitate prerogative sindacali, prendendo atto che nel caso del lavoro pubblico si gestiscono appunto risorse pubbliche e che meccanismi validi nel privato, non possono per alcuna ragione estendersi al pubblico.
Risponde il fondo. Da questo punto di vista, le previsioni dell’articolo 4, comma 1, del d.l. 16/2014 sono opportune, in quanto chiariscono che i dipendenti non debbono rispondere per la percezione delle somme.
Quanto meno, si ridurrebbe la tipologia del contenzioso giurisdizionale tendente ad accertare l’illegittimità degli atti di recupero.
Tuttavia esso non aiuta a chiarire se davvero non scatti alcuna ipotesi di responsabilità erariale, come molti hanno interpretato.
Comunque, il d.l. 16/2014 compie un sia pur piccolo passo avanti: nel caso del mancato rispetto dei vincoli finanziari, cioè dello sfondamento del limite alle risorse spendibili, rimanendo impregiudicata la possibilità che chi abbia dato corso ai contratti ne risponda, a rispondere deve sicuramente essere il fondo.
In altre parole, se il tetto del fondo doveva essere 100 e, invece, si riscontri che sia stato illegittimamente fatto lievitare a 150, “le somme indebitamente erogate mediante il graduale riassorbimento delle stesse, con quote annuali e per un numero massimo di annualità corrispondente a quelle in cui si è verificato il superamento di tali vincoli”.
E’, quindi, il fondo stesso che deve rispondere. Le amministrazioni dovranno incidere su di esso, riducendolo drasticamente. Se, per esempio, lo sforamento immaginato prima avvenisse per un anno, l’anno successivo l’ente dovrebbe ridurre la contrattazione di 100, per ristabilire l’equilibrio. Se, infatti, nell’ultimo anno di corretta gestione il fondo era 100 e l’anno dopo è lievitato a 150, perché si ridetermini il riequilibrio (300 in tre anni), l’anno successivo dovrebbe essere ridotto a 50.
Ovviamente, meno rilevante è lo sforamento e, paradossalmente, più lunga la durata della violazione, meno dolorosa risulterebbe l’operazione di riassorbimento, che, comunque, necessariamente deve comportare la diminuzione delle risorse presenti nel fondo.
Qui si porranno, però, problemi che il legislatore non ha preso in considerazione. L’entità delle “rate” potrebbe essere tale da non essere sostenibile.
E’ noto che molti enti, a causa di un utilizzo dissennato delle progressioni orizzontali e dell’altrettanto dissennata idea contrattuale di finanziare la famigerata “indennità di comparto” con la parte stabile del fondo, si ritrovano senza alcun margine di manovra. Insomma, poiché il riassorbimento delle somme non potrebbe che avvenire incidendo la parte stabile e non quella variabile, che in quanto tale non assicura l’effetto voluto dal legislatore, un fondo eccessivamente soffocato dalla necessità di finanziare progressioni orizzontali e indennità di comparto potrebbe trovarsi nella condizione di non assicurare l’obiettivo cercato dal legislatore.
In un caso simile, le amministrazioni si dovrebbero trovare nella situazione paradossale di dover azzerare tutte le indennità contrattualmente previste: turno, reperibilità, maneggio valori, particolari condizioni di lavoro, rischio, disagio: ma a questo punto, si porrebbero anche problemi organizzativi, in quanto, ad esempio, non sarebbe possibile pretendere le prestazioni in turno e reperibilità, in assenza della dovuta retribuzione. E tutto questo potrebbe anche non bastare: e, dunque, si dovrebbe agire anche sulle posizioni di sviluppo, che, però, sono intangibili.
Risparmi da misure di razionalizzazione. Il legislatore pare non aver preso in considerazione il problema, se non superficialmente, confidando, in primo luogo, nella salvifica funzione dei “piani di razionalizzazione”, da anni sbandierati, i quali hanno già dato prova di assoluta inutilità ed inefficacia.
Per gli enti locali scattano due diversi possibilità. In primo luogo “adottano le misure di razionalizzazione organizzativa garantendo in ogni caso la riduzione delle dotazioni organiche entro i parametri definiti dal decreto di cui all'articolo 263, comma 2, del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267”.
Ai sensi del DM del Ministro degli interni 16 marzo del 2011, attualmente vigente ed attuativo della disposizione citata, occorre che le dotazioni organiche rispettino i seguenti rapporti dipendenti/popolazione:
Comuni
fascia demografica rapporto medio
dipendenti-popolazione
fino a 999 abitanti 1/98
da 1000 a 2999 abitanti 1/130
da 3000 a 9.999 abitanti 1/144
da 10000 a 59.999 abitanti 1/122
da 60000 a 249.999 abitanti 1/106
oltre 249.999 abitanti 1/75
Province
fascia demografica rapporto medio
dipendenti-popolazione
fino a 299.999 abitanti 1/571
da 300.000 a 499.999 abitanti 1/452
da 500.000 a 999.999 abitanti 1/944
da 1.000.000 a 2.000.000 abitanti 1/810
oltre 2.000.000 1/1062
Insomma, si entrerebbe in una situazione di “pre-dissesto”. Ecco, allora, come si affronterebbe il problema dell’eventuale insufficienza dell’assorbimento delle risorse: sostanzialmente con il licenziamento dei dipendenti che risultassero in soprannumero, una volta ridotte le dotazioni organiche. Infatti, il comma 1 dell’articolo 16, comma 4, stabilisce: “al fine di conseguire l'effettivo contenimento della spesa, alle unità di personale eventualmente risultanti in soprannumero all'esito dei predetti piani obbligatori di riorganizzazione si applicano le disposizioni previste dall'articolo 2, commi 11 e 12, del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 135, nei limiti temporali della vigenza della predetta norma”.
Pertanto, occorrerebbe individuare in primo luogo dipendenti che possano andare in pensione con i requisiti antecedenti la riforma Fornero e risolvere unilateralmente il rapporto di lavoro nei loro confronti; nonché i dipendenti che entro un lasso di tempo coincidente con quello del recupero delle risorse maturerebbero i requisiti, per porli immediatamente in quiescenza appena la finestra lo consenta. Poi, individuare i dipendenti non riassorbibili in alcun modo, verificare eventualmente con i sindacati riduzioni del tempo di lavoro e, al termine, procedere con la messa in disponibilità.
Alla fine del processo, potrebbero essere liberate dal fondo le risorse connesse al finanziamento delle posizioni di sviluppo di tale personale.
Ma gli enti si ritroverebbero:
a) da un lato ingabbiati, perché, continua l’articolo 4, comma 1, del d.l. 16/2014 “le cessazioni dal servizio conseguenti alle misure di cui al precedente periodo non possono essere calcolate come risparmio utile per definire l'ammontare delle disponibilità finanziarie da destinare alle assunzioni o il numero delle unità sostituibili in relazione alle limitazioni del turn over”; pertanto, questi posti vanno cancellati per sempre dalla dotazione organica;
b) dall’altro lato nella situazione, se i fondi fossero stati, come ipotizzato (e come è in tantissime, troppe, situazioni concrete) soffocati, in una condizione di impossibilità comunque di rispettare i tempi del riassorbimento, considerando che, per altro, il personale in disponibilità continua a restare a carico dell’ente, sia pure in misura ridotta, ma per una riduzione che non toccherebbe, per altro fino a 48 mesi, proprio indennità di comparto e posizioni di sviluppo.
In secondo luogo, i fantomatici “piani di sviluppo” sono considerati anche una “panacea” per aiutare le amministrazioni a riassorbire le maggiori spese. Questa seconda funzione è immaginata dal comma 2 dell’articolo 4 del d.l. 16/2014, anch’esso per nulla scevro da lacune e problemi applicativi.
Intanto, non tutte le amministrazioni che abbiano violato i vincoli alla contrattazione potrebbero avvalersi della possibilità immaginata, ma solo gli enti locali che hanno rispettato il patto di stabilità. Il comma 2 prevede che esse “possono compensare le somme da recuperare di cui al primo periodo del comma 1, anche attraverso l'utilizzo dei risparmi effettivamente derivanti dalle misure di razionalizzazione organizzativa di cui al secondo e terzo periodo del comma 1 nonché di quelli derivanti dall'attuazione dell'articolo 16, commi 4 e 5, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111”.
Il legislatore, dunque, consente l’impiego delle “misure di razionalizzazione” per due fini differenti. Il primo consiste nell’attivazione di dette misure allo scopo di individuare posizioni di esubero e ridurre le dotazioni organiche ed il personale in servizio, il che crea, come visto prima, riduzioni sull’ammontare della parte stabile del fondo.
Il secondo fine è utilizzare le risorse derivanti dalle razionalizzazioni per “compensare le somme da recuperare”.
Questa è una previsione estremamente critica e foriera di futuri non indifferenti problemi. Infatti, da un lato apre alla possibilità che le riduzioni dei fondi, le quali, si ribadisce non possono che avvenire sulla parte stabile, siano “compensate” attraverso risorse di natura necessariamente variabile, come quelle provenienti dalle razionalizzazioni.
Torniamo all’esempio visto sopra. Se l’ente l’ultimo anno della gestione corretta aveva un fondo pari a 100 e l’anno successivo aumentato a 150, dovrebbe rideterminare l’anno dopo il fondo in 50. Ma, se misure di razionalizzazione intanto attivate permettessero di reperire 25 di risparmio, potrebbe compensare la riduzione di 50 e aumentare il fondo a 75, così da ridurre “l’impatto”.
Ora, il rischio evidente posto dal legislatore è quello di far confluire partite di bilancio una tantum, i risparmi da razionalizzazioni, al finanziamento di oneri fissi nel tempo.
Dall’altro lato, ulteriore rischio è quello di innescare nuovi e diversi comportamenti speculativi e scorretti delle amministrazioni, del resto già registrati. Insomma, è facile prevedere che i piani di razionalizzazione potranno rivelarsi solo false razionalizzazioni, consistenti in mere enunciazioni di misure, senza una specifica e rigorosissima loro quantificazione e, soprattutto, senza la garanzia che possano davvero, come pretende la legge, configurarsi come aggiuntive alle tantissime misure di razionalizzazione già imposte dalla legge.
Oltre tutto, il legislatore ha dimenticato un dettaglio fondamentale. Se i risparmi da razionalizzazione (che ricordiamolo, solo per il 50% possono essere destinate alla contrattazione collettiva) possono essere utilizzati per compensare la riduzione dei fondi, allora occorrerebbe disapplicare la previsione che il 50% di tali fondi sia da attribuire alla performance individuale, per altro obbligatoriamente applicando le “fasce” di valutazione previste dal d.lgs 150/2009 e fortemente invise ai sindacati.
Infatti, se il 50% delle risorse deve andare a beneficio della performance, non può che restare destinato a risorse variabili, così da risultare estremamente limitato il beneficio immaginato dal legislatore sull’impatto da riduzione del fondo.
Effetto sanatoria. L’effetto dell’articolo 4, comma 3, del d.l. 16/2014 non si limita a prevedere l’obbligo in capo agli enti che abbiano violato i limiti alla contrattazione decentrata di recuperare nelle successive annualità le maggiori spese e ridurre la spesa di personale, fissando anche eventuali esuberi.
La norma specificamente dedicata ai problemi (tantissimi) della contrattazione decentrata introduce una deroga alla rilevante sanzione prevista dall’articolo 40, comma 3-quinquies, quinto periodo, del d.lgs 165/2001 a carico dei contratti non in linea con i vincoli normativi e della contrattazione di primo livello. La norma citata dispone: “nei casi di violazione dei vincoli e dei limiti di competenza imposti dalla contrattazione nazionale o dalle norme di legge, le clausole sono nulle, non possono essere applicate e sono sostituite ai sensi degli articoli 1339 e 1419, secondo comma, del codice civile. In caso di accertato superamento di vincoli finanziari da parte delle sezioni regionali di controllo della Corte dei conti, del Dipartimento della funzione pubblica o del Ministero dell'economia e delle finanze è fatto altresì obbligo di recupero nell'ambito della sessione negoziale successiva”.
Dunque, in via ordinaria, le clausole dei contratti collettivi decentrati non in linea con le norme superiori sono nulle.
Il d.l. 16/2014 sovverte in parte queste previsioni del d.lgs 165/2001, stabilendo che “per le regioni e gli enti locali che hanno rispettato il patto di stabilità interno, la vigente disciplina in materia di spese ed assunzione di personale, nonché l'articolo 9 del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, nella legge 30 luglio 2010, n, 122, agli atti di autorizzazione dei fondi per la contrattazione decentrata, adottati anteriormente ai termini di adeguamento previsti dall'articolo 65 del decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150, che non abbiano comportato il superamento dei vincoli finanziari previsti per la costituzione dei medesimi fondi, non si applicano le disposizioni di cui al quinto capoverso dell'articolo 40, comma 3-quinquies, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165”.
Come rilevato, si tratta di una sanatoria, tanto che viene disapplicata proprio la sanzione della nullità delle clausole decentrate cagionanti il superamento dei vincoli di spesa imposti dalle norme.
Dal punto di vista soggettivo, potranno avvalersi della sanatoria solo gli enti in regola col patto di stabilità e che abbiano rispettato gli obblighi di congelamento dei trattamenti economici, di riduzione dei fondi decentrati e di contenimento delle progressioni economiche e del lavoro flessibile, imposti dall’articolo 9 del d.l. 78/2010.
Sul piano oggettivo, la sanatoria riguarda gli atti di autorizzazione alla determinazione dell’ammontare dei fondi dei contratti decentrati, adottati dagli enti locali entro il 31 dicembre 2012 che possano aver violato in alcune parti i vincoli normativi e dei Ccnl, ma non abbiano, però, causato il superamento dei tetti massimi di spesa imposti dalle norme per detto fondi. E’, ad esempio, il caso della previsione di indennità, come quella di rischio o maneggio valori, per importi superiori ai limiti disposti dai Ccnl, che, tuttavia, abbiano comportato una non corretta destinazione delle risorse contrattuali, senza però aumentare illecitamente il loro ammontare complessivo.
Premiati i furbi. Come sempre, ogni sanatoria o condono, grande o piccolo, finisce per premiare i furbi a discapito di coloro che agiscono in maniera corretta.
Non c’è, infatti, nemmeno nell’articolo 4 del d.l. 16/2014 una speculare normativa di incentivo o premio per le amministrazioni che “hanno tenuto il punto” con i sindacati, astenendosi dallo stipulare contratti decentrati tali da violare i vincoli finanziari.
Spesso, troppo spesso, proprio queste amministrazioni sono investite da ricorsi per comportamento antisindacale da parte dei sindacati e colpite da ordinanze o sentenze dei giudici del lavoro che definire incredibili è solo eufemistico.
Una norma che intervenisse su vertenze di questa natura, per tutelare e premiare i datori pubblici che si attengono doverosamente e correttamente alle regole (per quanto da cambiare) sarebbe stata necessaria e largamente opportuna, per incentivare anche a cambiare atteggiamento quelle amministrazioni che hanno agito da “furbi”, cagionando, alla fine, comunque un danno al pubblico, dovuto alla non corretta modalità di gestione della spesa pubblica.
Controlli preventivi. Il legislatore continua a perdere l’ulteriore occasione di rimediare ad una carenza devastante per il sistema, che regolarmente si traduce, poi, nell’esigenza di sanatorie e condoni, cioè l’assenza di controlli preventivi.
E’ del tutto evidente che il sistema di “internal audit”, di controlli interni, copiato dal sistema privato (nel quale non sempre per altro dà buona prova di sé…) nell’ambito della pubblica amministrazione non funziona per nulla.
Il sistema della contrattazione decentrata ne è l’esempio più lampante. In linea teorica la legittimità ed efficacia dei contratti dovrebbe trovare filtri di controllo interno formidabili: i segretari comunali, che sono anche spesso presidenti delle delegazioni trattanti, il cui compito è assicurare proprio la legittimità; i direttori generali, dove ancora esistenti, pensati per gestire “con efficienza ed efficacia”; i revisori dei conti, che dovrebbero essere occhiuti controllori della finanza.
L’esperienza ci dice esattamente l’opposto. E il condono di cui al d.l. 16/2014 lo dimostra nella maniera più eclatante.
I segretari comunali, lo sappiamo, sono vittime di un insensato spoil system, che consiglia loro di non pregiudicare gli “equilibri” politici tra sindacati ed amministrazione e, dunque, si distraggono e rinunciano spesso a prevenire contratti decentrati intrisi di clausole illegittime.
Per i direttori generali, dei quali sono conclamate scarsa utilità (quali comuni hanno evitato dissesti e gestioni devastanti grazie ai direttori generali? Roma? Alessandria? Napoli?), provenienza politica ed affinità con gli organi di governo, non vale nemmeno troppo la pena approfondire la scarsa propensione ad interessarsi dei problemi di legittimità dei contratti.
Per quanto concerne i revisori dei conti, appare anche in questo caso opportuno levare ogni velo alla realtà dei fatti. La presenza dei revisori nelle amministrazioni è poco più di un omaggio ad un’importante ed influente lobby professionale, il cui valore aggiunto alla correttezza della gestione risulta piuttosto scarso.
E’ perfettamente noto che molte volte l’attività dei revisori si risolva nella sottoscrizione di relazioni e documenti elaborati dalle ragionerie e poco altro.
Il loro controllo sui contratti ha un’efficacia sostanzialmente nulla, come comprovato dai fatti.
I controlli interni, in questo come in tantissimi altri casi, non hanno alcuna efficacia. Occorrerebbe cambiare totalmente sistema e sottoporre i contratti collettivi ad un sospensione della loro efficacia, fino all’ottenimento di un visto di legittimità di un organismo di controllo.
Potrebbero esserlo le Sezioni regionali della Corte dei conti. D’altra parte, non si capisce perché la Corte dei conti disponga, ai sensi del d.lgs 165/2001, di un vero e proprio potere di veto sulla possibilità che al livello di contrattazione nazionale il presidente dell’Aran stipuli i contratti nazionali collettivi, mentre un simile potere interdittivo al livello locale non esista o è in minima parte ed efficacia demandato ad organismi di controllo interni, totalmente inefficaci.
Sta di fatto che le ispezioni successive alla produzione del danno o, comunque, di contratti che violino i limiti finanziari sono ovviamente inutili alla prevenzione.
Sindacati. Chi ne esce sostanzialmente, come sempre, deresponsabilizzato sono i sindacati, nonostante essi abbiano evidenti corresponsabilità nella stipulazione dei contratti decentrati.
La sanatoria, infatti, è una sostanziale vittoria dei sindacati, che spesso spingono (con l’evidente compiacenza soprattutto degli organi di governo) per contrattazioni “disinvolte”.
Dovrebbe risultare, invece, una volta per tutte che la loro dannosa insistenza su clausole che vìolino i vincoli finanziari non fa il bene dei dipendenti.
Indirettamente, ma solo molto indirettamente, il d.l. 16/2014 evidenzia una responsabilità anche dei sindacati: la stessa possibilità dei dipendenti di conservare il lavoro. Infatti, da oggi in poi dovrebbe risultare chiaro che non è possibile scherzare con le risorse contrattuali, visto che una loro gestione non lineare può comportare la necessità della stretta alle dotazioni organiche ed un numero non prevedibile di esuberi.
Questo dovrebbe portare tutte le parti contrattuali a considerare con maggiore prudenza ed attenzione il loro ruolo.
Tuttavia, sarebbe necessario una volta per sempre qualificare anche i sindacati come agenti contabili quando contrattano, visto che concorrono a gestire risorse pubbliche, non diversamente dai direttori dei lavori degli appalti, così da sottoporre anch’essi ai giudizi di responsabilità contabile.
Sarebbe, questa, un’arma formidabile per ridurre drasticamente le contrattazioni decentrate in violazione di vincoli e limiti previsti dalla normativa.
Ci provò, per la verità, Brunetta per ben due volte: sia con la legge 15/2009, sia col d.lgs 150/2009, senza però alcun successo. Un caso?
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