Anche in questo caso la riforma del lavoro a tempo determinato, impostata nel consiglio dei ministri del 13 marzo scorso, non si applica al lavoro pubblico.
Anzi, si traccia un solco sempre più profondo tra la flessibilità nel privato, rispetto a quella presente, o dovremmo dire assente, nel lavoro pubblico.
La riforma del Governo Renzi si basa su un elemento fondamentale: la totale acausalità del contratto a termine nei suoi primi 36 mesi, cioè il tempo massimo della durata consentito (salvo accordi tra le parti, se la contrattazione collettiva lo preveda).
Ciò significa che il datore non deve specificare la ragione che giustifica la deroga rispetto all'ordinario modo di regolare il rapporto subordinato, che dovrebbe consistere in un rapporto privo dell'apposizione del termine.
L'effetto precarizzante è chiarissimo e dirompente. Il lavoratore viene assoggettato alla totale discrezionalità, rasente l'arbitrio, del datore, che non dovendo specificare la ragione della fissazione del termine, si sottrae a qualsiasi vaglio contenzioso circa l'effettiva sussistenza di motivazioni organizzative a giustificazione del rapporto a termine.
Per dirla più chiaramente: si mette il datore privato in condizione di assumere, senza rischi di contenzioso, a tempo determinato anche su attività lavorative e fabbisogni continuativi. Lo stesso, in sostanza, vale per proroghe e rinnovi, non più soggetti a pausme, e per i quali basterà semplicemente dimostrare l'identità del lavoro inizialmente attivato.
I rinnovi, stando ad aggiustamenti del tiro in corso d'opera, potranno essere ben 8. Insomma, il lavoratore viene posto ex lege nella tagliola dell'inanellamento dei contratti, esattamente la fattispecie tipica di abuso datoriale, sanzionato con la tutela reale della trasformazione retroattiva del rapporto in contratto a tempo indeterminato.
Il legislatore, insomma, invece di operare per eliminare o limitare l'abuso, o quanto meno di fissare regole che virtuosamente passino dall'abuso alla "buona" flessibilità, semplicemente considera che 8 (almeno per ora), ben 8 rinnovi in 36 mesi, uno ogni 4 in media, siano cosa normale.
Un po' come quando negli anni '80 per porre rimedio a livelli eccessivi di atrazina nelle acque, si decise di elevare la soglia di tolleranza ammessa dalla legge.
Nel lavoro pubblico questo non avverrà. Non viene intaccato, infatti, l'articolo 36, comma 2, del d.lgs 165/2001, come recentemente modificato dal d.l. 101/2013, per effetto del quale il contratto a termine deve essere causale eccome: attivabile solo per esigenze di carattere temporaneo o urgente, da motivare molto approfonditamente, pena la nullità del rapporto e la pesante responsabilità erariale dei dirigenti che lo avviino.
Questa rigorosa disciplina, volta proprio ad evitare del tutto l'impiego di forme contrattuali flessibili a valere su fabbisogni stabili è totalmente inconciliabile col nuovo assetto del lavoro a termine.
Non sarebbe, tuttavia, inutile che il Governo o il Parlamento intervenissero per chiarire se si applichi o meno alla pubblica amministrazione il regime dell'assenza di pause tra un contratto e l'eventuale successivo rinnovo e la possibilità di ripetuti rinnovi, fino ad 8, che oggettivamente non sembrano proprio molto conciliabili con un regime del tempo determinato molto più garantista e rivolto ad evitare l'insorgenza di precariato.
[…] – 14 marzo 2014 – La riforma del #lavoro a termine non si applica alla #PA di Luigi […]
RispondiElimina