Cos’ è la “precarizzazione”? A differenza di quanto molti ritengono, non è affatto la forma del contratto: a termine, in somministrazione, accessorio, in collaborazione o altro[1].
L’esistenza e regolamentazione di forme contrattuali è esattamente mirata alla flessibilizzazione del lavoro, cioè al fine di consentire alle variate forme di organizzazione e produzione imprenditoriale di acquisire le prestazioni lavorative che meglio si adeguino alla multiforme attività produttiva, continuamente in evoluzione.
La precarizzazione avviene esclusivamente quando vi sia l’abuso della forma contrattuale flessibile. In poche parole, ciò avviene nel momento in cui si utilizza la forma flessibile non per adeguarla alle magmatiche esigenze organizzative dell’azienda, bensì per uno scopo diverso: dumping sui contributi, elusione delle norme sull’aspettativa per la nascita dei figli, estensione abnorme del patto di prova e, comunque, possibilità del datore di esercitare pressione sul lavoratore, mettendolo davanti al rischio di una insicurezza del reddito derivante dalla sua prestazione, non giustificata da ragioni organizzative tali da rendere evidente, sin dalla stipulazione, che il rapporto di lavoro non sia destinato ad essere duraturo.
Per semplificare ulteriormente, si ha precarizzazione del lavoro, quando vengono utilizzate forme contrattuali flessibili, in particolare a tempo determinato, per fare fronte a fabbisogni che, invece, sono stabili.
Da questa considerazione fondamentale, discendono disposizioni normative altrettanto fondamentali, di matrice europea e anche interna, volte a considerare il rapporto di lavoro a tempo indeterminato la forma ordinaria, normale e comune.
La norma fondamentale è la clausola 3, punto 1, della Direttiva 1999/70/Ce del Consiglio del 28 giugno 1999 relativa all'accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato: “Ai fini del presente accordo, il termine «lavoratore a tempo determinato» indica una persona con un contratto o un rapporto di lavoro definiti direttamente fra il datore di lavoro e il lavoratore e il cui termine è determinato da condizioni oggettive, quali il raggiungimento di una certa data, il completamento di un compito specifico o il verificarsi di un evento specifico”.
Non meno importante è la previsione contenuta nell’articolo 1, comma 01, del d.lgs 368/2001: “Il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato costituisce la forma comune di rapporto di lavoro”.
Le disposizioni normative fondamentali, dunque, non vietano affatto la flessibilizzazione dei rapporti di lavoro, anzi la regolamentano proprio allo scopo sia di evitare abusi, sia di agevolare l’incontro domanda offerta.
Risulta, tuttavia, chiaro che è il lavoro a tempo indeterminato la forma comune, ordinaria, normale di lavoro e che l’apposizione del termine al contratto è ammessa, come afferma la clausola 3 citata della Direttiva Ue, solo a fronte dell’esistenza di “condizioni oggettive”, a giustificare la “deroga” alla “forma comune” contrattuale. Condizioni che, note e conosciute ad entrambe le parti al momento della stipulazione del contratto, consentono di negoziare nella piena consapevolezza di tale aspetto.
In una regolamentazione davvero ottimale del mercato del lavoro, la consapevolezza a monte del fabbisogno speciale che giustifichi il contratto a termine dovrebbe far scattare particolari cautele, connesse alla sicura e certa successiva perdita del lavoro. Come anche la possibilità tra le parti di regolare in modo diverso la remunerazione.
In ogni caso, appare evidente che in assenza di una condizione evidente, particolare ed oggettiva, l’assunzione a tempo determinato racchiude in sé il pericolo appunto della “precarizzazione”: il datore di lavoro ha un fabbisogno oggettivamente a tempo indeterminato, ma per poter avvalersi di strumenti di condizionamento del lavoratore, lo assume a tempo determinato.
La diffusione estrema di questo modo di operare, potrebbe portare alla conseguenza (che in realtà già si registra) per cui il lavoro a tempo determinato, invece di essere remunerato un po’ di più o comunque trovare delle protezioni e garanzie particolari, finisce per essere pagato un po’ di meno, essere svalutato. Anche perché l’assenza totale di una causa giustificativa all’apposizione del termine finisce per rendere del tutto equivalenti, ai fini della scelta datoriale, il tempo indeterminato ed il tempo determinato. Ed è inevitabile che valutazioni di carattere esclusivamente speculativo ed economico potrebbero indurre i datori a scegliere solo il lavoro a termine, specie in una fase di recessione.
Per questa ragione, la Direttiva europea ha imposto che il termine fosse inserito nel contratto di lavoro solo a fronte di ragioni oggettive.
Per questa ragione, il lavoro a tempo determinato venne modificato nell’ordinamento italiano, mediante il d.lgs 368/2001, che recepì le disposizioni europee, sovvertendo la logica della normativa precedente, passando da una serie di tassativi casi tipici in cui il contratto a termine fosse previsto, alla previsione di 4 tipologie generali di cause giustificative dell’apposizione del termine. La ratio della riforma è limpidamente descritta in Istituzioni di Diritto del Lavoro, quinta edizione 2012, di Marco Biagi, continuata da Michele Tiraboschi, ed. Giuffrè, pag. 123: “Alla stregua del nuovo quadro legale la legittimità della apposizione del termine non è più subordinata, come accadeva in vigenza della l. n. 230/1962, alla presenza di una occasione meramente temporanea di lavoro. Più semplicemente, il termine è la dimensione in cui deve essere misurata la ragionevolezza delle esigenze tecniche, organizzative, produttive o sostitutive poste a fondamento della stipulazione del contratto. Il contralto a tempo determinato dovrà pertanto essere considerato lecito in tutte le circostanze, individuate dal datore di lavoro sulla base di criteri di normalità tecnico-organizzativa, nelle quali non si può esigere che il datore di lavoro assuma necessariamente a tempo indeterminato. O, il che è lo stesso, l’assunzione a termine non risponda a una finalità chiaramente fraudolenta sulla base di considerazioni di ragionevolezza desumibili dalla combinazione tra durata del rapporto e attività lavorativa dedotta in contratto. L'unico limite di durata è in altre parole, quello desumibile dalla concreta causale di assunzione dedotta in contratto all’atto della sua stipulazione. L'art, 1, comma 1. del d.lgs. n. 368/2001 costituisce una chiara espressione della direttiva di fondo, accolta dal nostro ordinamento, verso una stretta finalizzazione del potere del datore di lavoro allo svolgimento delle attività produttive, con esclusione di ogni manifestazione di arbitrio, intento discriminatorio o fraudolento. Logico corollario di ciò è la richiesta, contenuta nell’art. 1, comma 2, del decreto, di esplicitare in un atto scritto le ragioni giustificative, e cioè le esigenze concrete che rendono ragionevole e non mero arbitrio l’apposizione del termine al contratto di lavoro. Del tutto irrilevanti sono, in questa prospettiva, generiche esigenze aziendali sommariamente esplicitate. Tanto la mancanza della forma scritta quanto l’assenza delle ragioni di legittima apposizione del termine determinano la conseguenza della conversione del contratto in un contratto a tempo indeterminato”.
Parole da scolpire. Frutto della sincera convinzione che l’aperto e corretto dialogo tra le parti, nulla più se non la “buona fede nelle trattative” dovesse essere anche nell’ambito del rapporto di lavoro, anzi, soprattutto nel rapporto di lavoro, il faro della negoziazione tra le parti di rapporti economici così delicati.
E’ certamente vero che la giurisprudenza del lavoro è probabilmente andata oltre i propri limiti, sindacando il merito delle scelte aziendali, non fermandosi alla valutazione dell’insussistenza delle ragioni di arbitrio, ma troppe volte sostituendosi al datore nella ricerca delle ragioni di opportunità nell’apporre il termine al contratto.
Si poteva e si doveva, allora, forse, intervenire sulla giurisdizione. Col d.l. 34/2014, si è compiuta una scelta, invece, radicale, del tutto in contrasto con i principi alla base delle cautele contro la precarizzazione, eliminando totalmente la “causalità” dell’apposizione del termine.
E’ fin troppo chiaro ed evidente che tale scelta va certamente nell’indirizzo di una vera e propria precarizzazione del rapporto di lavoro, appena, solo appena, mitigata dall’eventualità che l’investimento in un’attività lavorative di 36 mesi possa indurre il datore a stabilizzare un rapporto che potrebbe essere stato caratterizzato da un’arbitraria connotazione a termine, con rapporti di 4-5 mesi, prorogati per ben 8 volte.
Qualsiasi argomentazione contraria, volta a giustificare la possibilità di un contratto a termine acausale, lungo quanto il limite massimo possibile del lavoro a termine (al netto dei rinnovi ammessi anche oltre i 36 mesi dalla contrattazione collettiva) rischia di rivelarsi un sofismo.
Molti sottolineano che il decreto risponde alle esigenze di “flessibilità”. A nostro avviso, tali esigenze sono meglio assicurate dalla regolamentazione della flessibilità del d.lgs 276/2003 e dal lavoro di Marco Biagi ed i suoi continuatori.
La flessibilità è lo strumento per adeguare il lavoro ai fabbisogni, non il “trucco” per attivare contratti flessibili, prescindendo totalmente da esigenze organizzative.
L’estensione dell’acausalità è nociva non solo al lavoratore, estremamente precarizzato e messo in soggezione, ma anche dello stesso datore che, di fronte all’estrema semplicità della decisione di assumere a termine, potrebbe essere portato a non affrontare nemmeno sul piano dell’organizzazione produttiva vere esigenze di flessibilità. Quelle che consigliano contratti a termine o anche di altra natura per certe lavorazioni o reparti, a fronte di diverse forme, anche durature, in altre partizioni produttive. Col rischio di appiattimenti in scelte che non favoriscono l’evoluzione dell’organizzazione e della formazione nel lavoro.
Altra argomentazione molto in auge tra chi difende l’iniziativa del Governo è osservare che la Direttiva europea sul lavoro a tempo determinato, per effetto della clausola 5[2], si limita a richiedere la causale come una tra le tre possibili cautele contro l’abuso nel rinnovo[3].
E’ una visione erronea e limitata. La clausola 5, infatti, non si riferisce all’instaurazione del rapporto a termine, ma alla diversa fattispecie del suo rinnovo, dunque, ai contratti successivi. Infatti, è un presidio alla “successione” dei contratti.
Ma, in ogni caso, se occorre una cautela, una causa giustificativa al rinnovo di un contratto, a maggior ragione tale causa deve esistere al momento della prima stipulazione.
E, infatti, questo è confermato dalla già vista previsione della clausola 3 della Direttiva, che ammette il termine se connesso a condizioni che oggettivamente lo giustifichino.
E’ vero che la gran parte della dottrina, a partire dalla sentenza Angelidaki, ha rafforzato la convinzione che la clausola 3 della Direttiva può essere considerata come fonte dell’acausalità del termine, laddove la si legga nel senso che la fissazione di una data sia di per sé la condizione oggettiva che legittimerebbe l’apposizione del termine; sicchè, il d.lgs 368/2001, quando recepì l’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, introdusse le ragioni giustificative pur non essendo obbligato il legislatore italiano a farlo, bastando, appunto, ai fini della tutela degli abusi, la previsione di una causalità per i soli rinnovi.
Si tratta, tuttavia, di una lettura riduttiva, che fa dire alla sentenza Angelidaki troppo, anche quello che non dice. L’interpretazione corretta della clausola 3 della Direttiva non può che essere quella diversa che la condizione oggettiva non è la previsione nel contratto di una data, ma l’esplicitazione dell’esistenza delle regioni che portano alla fissazione di tale termine, derivanti evidentemente anche dal raggiungimento di un certo risultato, piuttosto che dal verificarsi di un certo evento.
Non potendosi ovviamente immaginare che il verificarsi dell’evento sia frutto del Destino o di letture dei voli degli stormi o delle viscere di animali sacrificali, né che il conseguimento del risultato sia esterno alle vicende contrattuali, è del tutto chiaro che risultato ed evento sono conseguenza necessaria ed imprescindibile dell’attività lavorativa in un certo contesto aziendale. L’evento, dunque, è connesso al contesto, come il risultato. Lo stesso non può che valere per la fissazione della data, la quale può essere un modo per indicare nel contratto in modo determinato e non solo determinabile, il termine del contratto, ma da legare comunque ad una ragione connessa alle esigenze del lavoratore.
In ogni caso, anche a voler accettare l’interpretazione, qui negata, che sia sempre ammissibile anche alla luce della normativa europea attivare il primo contratto a termine senza la determinazione della ragione causale, il d.l. 34/2014 appare, comunque, a forte sospetto di violazione delle direttive europee.
Si notino, infatti, due aspetti. Il primo, fondamentale, è che l’acausalità è estesa alla durata massima del rapporto, 36 mesi, nell’ambito dei quali sono ammesse fino ad 8 proroghe. Proroghe. Non rinnovi.
Il testo normativo, dunque, elude disinvoltamente non solo la clausola 3 della Direttiva, ma anche la clausola 5. Essa, infatti, è volta a presidiare l’abuso nella successione dei contratti, indicando la misura dell’indicazione della causale oggettiva dei rinnovi come una delle possibile garanzie dall’arbitrio, ma riferendosi all’istituto del rinnovo, non a quello della proroga.
Anche le altre due misure previste dalla clausola 5, la fissazione di una durata massima totale dei contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato successivi o la determinazione del numero dei rinnovi dei suddetti contratti o rapporti, sono riferite ai rinnovi e non alla proroga.
Di fatto, poiché il d.l. 34/2014 costruisce un contratto a termine acausale della durata massima di 36 mesi, conseguibile anche con una serie di 8 proroghe successive, il legislatore finisce per sottrarre del tutto la disciplina della tutela del contratto a termine non solo alla previsione causale dell’instaurazione del primo rapporto, ma anche a quella, da tutti considerata imprescindibile, della successione dei contratti.
La successione si determina esclusivamente con il rinnovo. Il rinnovo si ha solo quando un primo contratto si concluda e le parti decidano di riprodurre il contenuto del primo contratto in uno successivo, con un avvio ed una conclusione temporalmente nuovi, diversi e successivi.
Con la proroga, non si ha successione di contratti. E’ sempre lo stesso contratto che prosegue, senza soluzione di continuità.
E’ evidente, allora, che non essendovi rinnovo nell’arco dei primi 36 mesi del rapporto di lavoro, l’acausalità è totale. Riguarda non solo l’instaurazione del rapporto, ma anche la sua prosecuzione.
L’applicazione della clausola 5 dell’accordo, così come dell’articolo 5 del d.lgs 368/2001, scatterebbe sempre e solo alla conclusione dei 36 mesi.
Si può obiettare che anche prima del d.l. 34/2014 era possibile che, con la proroga, si giungesse ad un contratto di durata totale di 36 mesi. Vero. Ma, prima della vigenza del decreto, si richiedeva la ragione giustificativa e la proroga era ammessa solo una volta. Il che, senza impedirlo, non rendeva “automatico” immaginare l’avvio di un contratto a termine di pochi mesi, per giungere ad una sua durata di ben tre anni, con proroghe a spizzichi e bocconi. Per giungere ai 36 mesi, occorreva una “visione” da parte del datore, un programma chiaro, una lettura di medio termine delle sue esigenze.
Altrimenti, era abbastanza probabile che il primo rapporto a termine, con connessa eventuale proroga, fosse più breve, sicchè eventuali nuove chiamate del lavoratore configurassero “rinnovi”, rientranti nelle cautele e garanzie previste dalla normativa nazionale ed europea.
Invece, con la riforma, si consente al datore di andare “a tentoni”: contratti di pochi mesi, per “vedere come va”, sia per trasformare il lavoro in una lunghissima prova di 36 mesi (l’estensione dell’acausalità anche alla somministrazione non impedirà il risultato paradossale della riforma di far fagocitare del tutto la somministrazione dal contratto a termine, comunque meno costoso e complesso della somministrazione), sia per verificare se l’azienda possa continuare ad avvalersi della forza lavorativa così acquisita.
L’esito, dunque, è la creazione di un contratto di lavoro a tempo determinato che, nei primi 36 mesi, è sottratto a qualsiasi tipo di garanzia di abuso, sia nella fase di attivazione, sia in quella di proroga, nonostante la norma consenta che venga sminuzzato in tantissimi semiperiodi di pochi mesi, con ben 8 possibili proroghe.
Insomma, l’accorta (ma forse sarebbe da scrivere “furba”) formulazione della norma, sottrae del tutto dalla tutela esattamente quella che concordemente e da sempre si considera il primo e fondamentale abuso nel rapporto di lavoro e, dunque, precarizzazione: assumere a tempo determinato per fabbisogni, invece, stabili, e assoggettare il lavoratore a più segmenti ripetitivi, utilizzando il “trucco” dell’acausalità e della possibilità di prorogare il rapporto una quantità parossistica di volte. Tanto da dover far concludere che se anche la determinazione della data fosse considerata come corretta applicazione della clausola 3 della Direttiva, seguendo la lettura maggioritaria della sentenza Angelidaki, nella formulazione novellata dell’articolo 1, comma 1, del d.lgs 368/2001 la semplice determinazione della data non assolve ad alcuna garanzia dall’arbitrio: infatti, il datore potrebbe indicare anche una data di un mese, e poi, con 8 proroghe continuare il rapporto fino a tre mesi, tanto da considera l’apposizione della prima data una mera formalità, del tutto inutile alla corretta configurazione del rapporto sin dall’inizio.
La precarizzazione è, dunque, dimostrata ed evidentissima, così come l’esaltazione del lavoratore come parte “debole” del rapporto, così debole da non poter avere alcuna parte nemmeno nella determinazione delle regole iniziali del gioco. E’ pur vero che le proroghe debbono essere consensuali, ma è altrettanto vero che in assenza di alternative, il lavoratore non negherà certo il suo consenso alle ripetute proroghe, che determineranno esattamente quell’inanellamento illecito dei contratti da sempre visto come fonte dell’abuso dell’utilizzo del contratto a termine.
L’eliminazione della causale, dunque, così come impostata dal d.l. 34/2014, non può che essere considerata un passo indietro. Una semplificazione eccessiva dei rapporti economici e lavorativi, tutta a discapito della democraticità ed equilibrio dell’ordinamento. Una misura eccessiva, tranciante, che poteva essere scongiurata con una precisazione dei poteri del giudice del lavoro, o con un intervento più meditato, aperto alla flessibilità e alla semplificazione, ma non incline alla deregolamentazione più spinta.
[1] Le forme di lavoro flessibili, tra subordinate e para autonome non sono affatto oltre 40, come troppo spesso si sente dire. Sono una ventina. La loro combinazione porta a cifre più elevate. Eccone l’elenco:
1. Tempo indeterminato
2. Tempo indeterminato a tempo parziale
3. Tempo determinato
4. Tempo determinato stagionale
5. Socio lavoratore di cooperativa sociale
6. Lavoro somministrato a tempo indeterminato
7. Lavoro somministrato a tempo determinato
8. Lavoro somministrato per percettori di ammortizzatori sociali (articolo 13 comma 1 lettera b) d.lgs 276/2003)
9. Lavoro ripartito (uno stesso posto condiviso da due persone)
10. Lavoro a chiamata (in parte abolito)
11. Apprendistato per qualifica o diploma professionale
12. Apprendistato professionalizzante
13. Apprendistato di alta formazione e ricerca
14. Contratto di inserimento
15. Contratto di formazione e lavoro (solo per P.A)
16. Telelavoro -
forme di lavoro autonome o para subordinate:
17. Co.co.co.
18. Co.co.pro
19. Collaborazioni occasionali propriamente dette (art. 61 comma 2 d.lgs 276/2003)
20. Collaborazioni occasionali-mini co.co.pro
21. Lavoro accessorio (voucher)
[2] Misure di prevenzione degli abusi (clausola 5)
1. Per prevenire gli abusi derivanti dall'utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato, gli Stati membri, previa consultazione delle parti sociali a norma delle leggi, dei contratti collettivi e della prassi nazionali, e/o le parti sociali stesse, dovranno introdurre, in assenza di norme equivalenti per la prevenzione degli abusi e in un modo che tenga conto delle esigenze di settori e/o categorie specifici di lavoratori, una o pi misure relative a:
a) ragioni obiettive per la giustificazione del rinnovo dei suddetti contratti o rapporti;
b) la durata massima totale dei contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato successivi;
c) il numero dei rinnovi dei suddetti contratti o rapporti.
2. Gli Stati membri, previa consultazione delle parti sociali, e/o le parti sociali stesse dovranno, se del caso, stabilire a quali condizioni i contratti e i rapporti di lavoro a tempo determinato:
a) devono essere considerati «successivi»;
b) devono essere ritenuti contratti o rapporti a tempo indeterminato.
[3][3] Si veda la sentenza Angelidaki, punto 90: la disciplina della clausola 5 “verte unicamente sulla prevenzione dell’utilizzo abusivo di contratti o di rapporti di lavoro a tempo determinato successivi, dato che le ragioni obiettive enunciate al n. 1, lett. a), di tale clausola vertono unicamente sul rinnovo di detti contratti o rapporti (v. sentenza Mangold, cit., punti 41-43)”.
[…] – 22 marzo 2014 – #lavoro I problemi dell’acausalità del contratto a #termine #precari di Luigi […]
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