sabato 5 aprile 2014
#province #Costituzione il gioco delle 3 carte: spuntano le aree vaste
Il caos derivante dal ddl Delrio, approvato definitivamente la scorsa settimana, non si esaurisce con la riforma delle province, a dir poco pasticciata, realizzata con l’iniziativa di legge ordinaria. Prosegue, anche, con il disegno di legge costituzionale, che, tra l’altro, coinvolge anche il Titolo V della Costituzione.
La proposta di riforma cancella la parola “province” dai vari articoli della Costituzione nella quale è menzionata.
Ma, ancora una volta, ad un problema complesso, si pensa di poter dare una soluzione semplicistica: come se per abolire le province bastasse davvero, solo, cancellare la parola dalla Costituzione.
La cosa, per non risultare dilettantesca, richiederebbe una consapevolezza per la verità totalmente assente anche nel ddl Delrio: il volume delle grandezze da muovere e da gestire. Non è un caso, del resto, che la legge di riforma delle province non abbia mosso un euro di valori finanziari, patrimoniali, fiscali e di risorse umane, rinviando a futuri provvedimenti, col rischio, oltre tutto, di uno stillicidio disorganico di interventi.
Le province muovono, a decorrere dal 2013, una spesa di 10,2 miliardi; hanno un patrimonio formato da oltre 5000 edifici scolastici; gestiscono una rete stradale, anch’essa in loro patrimonio, di circa 125000 chilometri. Dispongono di sedi, arredi, reti informatiche, sistemi applicativi, archivi. Conducono contratti di fornitura e servizi anche pluriennali, fanno espropriazioni, gestiscono opere pubbliche. Hanno un debito di 8 miliardi e debbono contribuire al rispetto del patto di stabilità, ciascuna attraverso uno specifico saldo misto, che implica oneri e rigidità gestionali. Introitano somme corrispondenti alla spesa, mediante imposte, tasse ed introiti patrimoniali e della gestione.
La riforma delle province, consistente nel trasferimento delle loro funzioni ad altri enti, implicava e richiede comunque la conoscenza precisa di questi elementi, per sapere come “accompagnarli” insieme con la traslazione delle competenze. Non ha senso, infatti, immaginare che essa avvenga solo attribuendo agli enti subentranti le sole poste attive: patrimonio, personale e finanziamenti connessi. Qualcuno deve farsi carico anche delle poste passive, in particolare del debito e del rispetto del patto di stabilità.
Su questo si brancola nel buio più totale, cosa che costituisce il difetto maggiore di una riforma che, purtroppo, non manca, anzi abbonda, di pecche e manchevolezze di visione, organizzazione e razionalizzazione.
La scelta del disegno di legge costituzionale di limitarsi a cancellare la parola “province” dalla Costituzione, dunque, è ancora una volta un superficiale “simbolo”, per consentire, qualora la riforma venisse realmente approvata, di affermare che le province questa volta risulterebbero “davvero” abolite.
Certo, si andrebbe nella direzione avviata col ddl Delrio, ma vi sarebbe un ulteriore vizio consistente in dettaglio tecnico non trascurabile: manca, nell’attuale disegno di legge, una normativa transitoria che descriva tempi e modi per trasferire le funzioni e competenze che residueranno in capo alle province, anche a seguito della riforma Delrio.
Al di là di ciò, comunque la proposta di riforma riscrive l’articolo 117, comma 2, lettera p), della Costituzione per precisare meglio la potestà legislativa dello Stato a proposito degli enti locali ed ampliarla. La materia, dunque, si estenderà all’ “ordinamento, organi di governo, legislazione elettorale e funzioni fondamentali dei Comuni, comprese le loro forme associative, e delle Città metropolitane; ordinamento degli enti di area vasta”.
Compaiono, dunque, nel testo “l’ordinamento” (allo scopo di evitare che le regioni possano incidere sul tema, con le loro leggi regionali), le forme associative e, come si vede, gli “enti di area vasta” ed in particolare il loro ordinamento.
C’è da capire cosa si intenda, per “enti di area vasta”. E’ perfettamente chiaro e noto a tutti che le province sono state da sempre definite ed intese appunto come enti di area vasta.
La cancellazione del termine province dalla Costituzione, ma l’apparizione dell’ente di area vasta, sempre in Costituzione, appare l’ennesimo segnale della confusione della riforma delle province.
Infatti, ad un tempo si afferma la necessità di abolire la provincia, ente di area vasta per eccellenza, strutturato ed esistente da decenni e decenni; ma, allo stesso tempo, smontata la provincia, si riafferma la necessità di disciplinare l’ordinamento di un ente avente dimensioni e ordine di competenze sovracomunale, ma infraregionale, dunque in tutto sovrapponibile a quello delle province.
Una contraddizione totale ed assoluta con il messaggio mediatico generale, secondo il quale le province vanno abolite perché “non servono” (sul perché “si risparmia” non si insiste più molto, in quanto si è visto che non si risparmia un gran che). Affermare che occorra un ente di area vasta è come dire, dunque, che le province in effetti servono (servivano), ma occorre de-costituzionalizzarle e, soprattutto, cambiare loro nome, lasciando aperta alla legge statale la possibilità di costituire e disciplinare enti in tutto simili alle province. Con buona pace dell’intento di semplificazione e definitiva eliminazione del livello intermedio tra comuni e regioni e, anche, degli iperbolici risparmi.
Alla fine, sembra davvero un gioco delle tre carte: la provincia c’è, ora non c’è più, ora ricompare in forma di area vasta e nessuno sa cosa debba gestire, con quale organizzazione, con quali risorse, con quali prospettive.
Una contraddanza di riforme e ripensamenti, buche scavate per poi essere riempite, un “fare” confusione, l’esatto contrario di ciò che un complesso di leggi ed istituzioni coerente dovrebbe essere: “ordinamento”.
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