venerdì 25 aprile 2014

Sempre la solita #manovra #tagli #PA

A guardare il d.l. 66/2014 e le manovre economiche degli ultimi anni, specie quelle in stile tremontiano, è difficile scorgere sostanziali differenze, se non nella positiva assegnazione del bonus di circa 80 euro.

Per il resto, si tratta di una confusa congerie di norme accatastate disordinatamente l’una sopra l’altra, a confondere complicare un quadro normativo già frammentario e complesso di per sé, tendenti a colpire nel mucchio.

E’ il solito provvedimento “omnibus”, che parla immancabilmente di “auto blu”, di personale pubblico e di tassazione delle rendite finanziarie, di tempi dei pagamenti della PA e di certificazione dei crediti, di tassazione alle banche e di appalti, che si presenta come “spending review”, ma in realtà i tagli alla spesa rappresentano meno della metà del valore complessivo della manovra.

Proprio i “tagli” costituiscono i punti maggiormente critici del d.l., che punta ad ottenere nel solo 2014 risparmi per 2,1 miliardi di euro dalle acquisizioni di beni e servizi delle pubbliche amministrazioni. Con la solita squilibrata distribuzione dei sacrifici: 700 milioni allo Stato, 700 alle regioni e 700 agli enti locali, di cui 360 ai comuni e 340 alle province. E salta all’occhio l’incredibile sproporzione del livello dei tagli per gli enti locali. Per le province e le città metropolitane il taglio sarà molto significativo. Infatti, per il 2014 è prevista una riduzione di 444,5 milioni di euro (comprensiva di un taglio di 100 milioni forfettario dei “costi della politica”, in realtà di molto inferiori) su una spesa corrente totale che nel 2013, secondo i dati Siope, è stata di poco più di 7,5 miliardi: l’incidenza è, dunque, del 5,88%. Per i comuni, invece, il sacrificio complessivo di 375,6 milioni di euro si deve rapportare ad una spesa corrente che nel 2013 è stata pari a poco più di 54,3 miliardi, con un’incidenza dello 0,69%.

E’ evidente l’intento persecutorio nei confronti di enti, come le province, che si considerano ormai un peso e, conseguentemente, chiamato ad uno sforzo medio ti un taglio di 4,5 milioni che rischiano di riverberarsi sui servizi resi alla cittadinanza in maniera clamorosa.

Ma, è il complesso sistema dei tagli alle spese per acquisti di beni e servizi a destare tantissime perplessità, sia sul piano della legittimità costituzionale, sia si quello della concreta efficienza ed efficacia.

Trasparenza dei pagamenti. Mentre si parla sempre, giustamente, di semplificazione e riduzione degli adempimenti, si legifera, purtroppo, sempre in modo del tutto opposto. Ne è prova l’articolo 8, commi 1 e 2, del d.l.:

1. Le amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 11 del decreto legislativo 14 marzo 2013, n. 33, fermo restando quanto previsto dagli articoli 29, 33 e 37 del medesimo decreto legislativo, pubblicano sui propri siti istituzionali, e rendono accessibili anche attraverso il ricorso ad un portale unico, i dati relativi alla spesa di cui ai propri bilanci preventivi e consuntivi e l'indicatore di tempestività dei pagamenti secondo uno schema tipo e modalità definite con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri da emanarsi, sentita la Conferenza unificata, di cui all'articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, entro 30 giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto.

2. La disposizione di cui al comma 1 costituisce, per le pubbliche amministrazioni interessate, obbligo di trasparenza la cui inosservanza e' sanzionata ai sensi dell'articolo 46 del medesimo decreto legislativo n. 33 del 2013”.

Ora, perché, se già l’articolo 29, comma 1, del d.lgs 33/2013 prevede “Le pubbliche amministrazioni pubblicano i dati relativi al bilancio di previsione e a quello consuntivo di ciascun anno in forma sintetica, aggregata e semplificata, anche con il ricorso a rappresentazioni grafiche, al fine di assicurare la piena accessibilità e comprensibilità”, ripetere la stessa previsione? Perché, se l’articolo 33 del d.lgs 33/2013 dispone “Le pubbliche amministrazioni pubblicano, con cadenza annuale, un indicatore dei propri tempi medi di pagamento relativi agli acquisti di beni, servizi e forniture, denominato: «indicatore di tempestività dei pagamenti»” tornare a sancire la stessa cosa? Cosa c’entra, poi, il richiamo all’articolo 37 del d.lgs 33/2013, che con i tempi di pagamento non ha nulla a che vedere?

E’ davvero solo una corsa ad intestarsi la titolarità di chi davvero sia protagonista del Freedom Of Infomation Act; una gara a chi è più trasparente, nella quale evidentemente si pensa che vinca quello che regoli la trasparenza per ultimo, anche se ripete le stesse norme già vigenti, per giunta introducendo nuovi adempimenti, nuova burocrazia, nuove attività che continuano ad ingessare l’attività degli uffici pubblici. Che, poi, vengono (anche giustificatamene) accusati di essere poco produttivi.

In realtà, nessuno calcola quanta parte della “produzione” degli uffici sia da dedicare ad adempimenti “interni” che, anche se volti alla trasparenza ed alla conoscibilità dell’attività amministrativa, non creano alcun valore aggiunto né tangibile beneficio per la comunità amministrata.

Sullo schema dei tempi di pagamento, poi, incombe un problema: è consapevole il legislatore che non può esistere un indicatore unico dei tempi di pagamento?

In altre parole, non può trattarsi di una semplice media tra i giorni effettivamente impiegati per pagare e il tempo astrattamente previsto, poiché, ai sensi del d.lgs 231/2002, i termini possono variare dai 30 ai 60 giorni, e, soprattutto, cambia di molto il computo del dies a quo.

Monitoraggio dei pagamenti. Tanto per confermare la “semplificazione” delle procedure, l’articolo 27 del decreto legge 66/2014 non si fa mancare l’occasione di introdurre nuove procedure ed obblighi di caricamento dati, tali da rischiare di intasare totalmente le attività amministrative.

Nel d.l. 35/2013, convertito in legge 64/2013 si inserisce un nuovo articolo 7-bis, il cui comma 1, allo scopo di assicurare la trasparenza al processo di formazione ed estinzione dei debiti, consente ai creditori delle PA per somministrazioni, forniture e appalti nonchè per obbligazioni relative a prestazioni professionali di “comunicare, mediante la piattaforma elettronica di cui all'articolo 7, comma 1, i dati riferiti alle fatture o richieste equivalenti di pagamento emesse a partire dal 1° luglio 2014, riportando, ove previsto, il relativo Codice identificativo Gara (CIG)”.

Le PA dovrebbero utilizzare la medesima piattaforma elettronica per comunicare la ricezione e la rilevazione sui propri sistemi contabili delle fatture o richieste equivalenti di pagamento relativi a debiti per somministrazioni, forniture e appalti e obbligazioni relative a prestazioni professionali, emesse a partire dal 1° gennaio 2014. Ai sensi del comma 3, le fatture emesse in forma elettronica dovrebbero essere acquisite dalla piattaforma nazionale per la gestione telematica delle certificazioni dei debiti in forma automatica.

Il comma 4 incide, come detto prima, sugli adempimenti amministrativi. Fermo restando l’obbligo di ciascuna amministrazione di rilevare sui propri sistemi contabili le fatture e le richieste di pagamento, le PA “comunicano, mediante la medesima piattaforma elettronica, entro il 15 di ciascun mese, i dati relativi ai debiti non estinti, certi, liquidi ed esigibili per somministrazioni, forniture e appalti e obbligazioni relative a prestazioni professionali, per i quali, nel mese precedente, sia stato superato il termine di decorrenza degli interessi moratori di cui all'articolo 4 del decreto legislativo 9 ottobre 2002, n. 231, e successive modificazioni”.

Un onere comunicazionale piuttosto complesso, per il quale si pone, come rilevato prima, anche il problema della corretta identificazione del dies a quo.

Il decreto legge sembra incentrare tutto, infatti, sulla ricezione della fattura o dell’equivalente titolo emesso dall’appaltatore. Ma, i termini per i pagamenti non dipendono dalla fattura.

Ai sensi dell’articolo 4, comma 2, del d.lgs 231/2002, i termini di pagamento sono i seguenti:

a)                  30 giorni dalla data di ricevimento da parte del debitore della fattura o di una richiesta di pagamento di contenuto equivalente. Non hanno effetto sulla decorrenza del termine le richieste di integrazione o modifica formali della fattura o di altra richiesta equivalente di pagamento;

b)                 30 giorni dalla data di ricevimento delle merci o dalla data di prestazione dei servizi, quando non è certa la data di ricevimento della fattura o della richiesta equivalente di pagamento;

c)                  30 giorni dalla data di ricevimento delle merci o dalla prestazione dei servizi, quando la data in cui il debitore riceve la fattura o la richiesta equivalente di pagamento è anteriore a quella del ricevimento delle merci o della prestazione dei servizi;

d)                 30 giorni dalla data dell'accettazione o della verifica eventualmente previste dalla legge o dal contratto ai fini dell'accertamento della conformità della merce o dei servizi alle previsioni contrattuali, qualora il debitore riceva la fattura o la richiesta equivalente di pagamento in epoca non successiva a tale data.

L’ipotesi maggiormente ricorrente nell’ambito della gestione dei contratti deve essere quella indicata dalla lettera d). Infatti, occorre applicare la disciplina dei pagamenti prevista dal D.P.R. 207/2010. Ai sensi dell’articolo 143 di tale decreto, per quanto riguarda gli appalti di lavori “Il termine per l'emissione dei certificati di pagamento relativi agli acconti del corrispettivo di appalto non può superare i quarantacinque giorni a decorrere dalla maturazione di ogni stato di avanzamento dei lavori a norma dell'articolo 194. Il termine per disporre il pagamento degli importi dovuti in base al certificato non può superare i trenta giorni a decorrere dalla data di emissione del certificato stesso”. Per quanto concerne beni e servizi, l’articolo 307, comma 2, prevede una verifica della prestazione effettuata (simile ad un certificato di pagamento) da effettuare prima del pagamento.

Ai sensi dell’articolo 2, comma 6, del d.lgs “Quando è prevista una procedura diretta ad accertare la conformità della merce o dei servizi al contratto essa non può avere una durata superiore a trenta giorni dalla data della consegna della merce o della prestazione del servizio, salvo che sia diversamente ed espressamente concordato dalle parti e previsto nella documentazione di gara e purché ciò non sia gravemente iniquo per il creditore ai sensi dell'articolo 7. L'accordo deve essere provato per iscritto”.

Dunque, i termini dei pagamenti non possono, di regola, decorrere mai dalla ricezione della fattura, bensì dalla data del documento (certificato di pagamento o verifica di conformità) che accerti la regolarità della prestazione, che a sua volta deve essere emesso entro 30 giorni dalla resa della prestazione (45 giorni nel caso di appalti di lavori). Il pagamento deve avvenire nei successivi 30 giorni, se la fattura tuttavia pervenga entro tale termine. Altrimenti, anche in un termine successivo, che a questo punto non può che essere definito dal contratto.

Si deve tenere, poi, presente che ai sensi dell’articolo 4, comma 4, del d.lgs 231/2002, in casi eccezionali possono essere previsti termini di pagamento fino a 60 giorni.

Occorrerà capire se le varie piattaforme informatiche ed i sistemi di controllo dei pagamenti, pensati in maniera piuttosto confusa dal legislatore, saranno in grado di tenere conto di tutte queste variabili, che appaiono oggettivamente di molto sottovalutate.

Il comma 5 del nuovo articolo 7-bis della legge 64/2013, per completare l’inondazione di adempimenti, impone anche alle PA di caricare sulla piattaforma elettronica della certificazione i dati dell’ordinazione di pagamento, contestualmente all’emissione dell’ordinazione: una duplicazione dell’imputazione dei dati a carico degli uffici di ragioneria, che si aggiunge alle verifiche da fare sulla regolartà dei versamenti delle imposte per pagamenti di importi superiori ai 10.000 euro e, ovviamente, alle altre verifiche preventive al pagamento.

Il decreto legge si è guardato bene dal prendere in esame le altre defatiganti attività che scatteranno dal primo luglio 2014 se non si blocca l’AvcPass e se non si accelera sulla positiva riforma del Durc, introdotta dal d.l. 16/2014, tale da consentire, finalmente, la verifica on line della situazione delle imprese.

Nessuno ha tenuto conto, per l’ennesima volta, che al di là di ritardi endemici, i pagamenti vanno al rallentatore a causa delle verifiche imposte dalla selva di autodichiarazioni previste dall’articolo 38 del d.lgs 163/2006 e delle regole del patto di stabilità, che il premier, da sindaco e candidato alla segreteria del PD e aspirante al ruolo di Presidente del Consiglio dileggiava, definendolo “di stupidità”, lasciandolo, però, ancora immodificato, lì, ad impedire una razionale e corretta programmazione dei pagamenti.

Riduzione delle spese contrattuali. Non è, ovviamente, il monitoraggio dei tempi di pagamento lo strumento che possa consentire, tuttavia, di ottenere risparmi alle PA.

Il Sottosegretario alla presidenza del consiglio, Delrio, in recenti interviste, ha sostenuto che se le amministrazioni sono capaci di ridurre i tempi di pagamento, possono ottenere maggiori sconti sui prezzi delle prestazioni.

E’ un’affermazione ovviamente avventata e non corretta. Lo sarebbe se le amministrazioni potessero agire come privati, negoziando direttamente con gli interlocutori: in questo caso, il termine dei pagamenti diviene una variabile significativa della negoziazione.

Nel caso dei contratti pubblici, invece, l’affermazione non ha semplicemente senso, per due evidenti ragioni. La prima, come visto sopra, consiste nella fissazione dei termini di pagamento da parte della legge, il che priva le amministrazioni di qualsiasi potere negoziale. La seconda, discende dalla circostanza che i prezzi sono fissati a seguito di procedure di gara e ai fini del ribasso offerto dalle aziende, l’elemento della tempistica di pagamento è sostanzialmente irrilevante, come sa chiunque gestisca procedure di gara pubbliche.

Infatti, per ottenere davvero lo scopo, l’articolo 8 del d.l. 66/2014 punta al buon, vecchio sistema del taglio lineare.

L’articolo 8, infatti, autorizza le amministrazioni a ridurre gli importi dei contratti in essere aventi ad oggetto acquisto o fornitura di beni e servizi, nella misura del 5 per cento, per tutta la durata residua dei contratti medesimi.

Una sorta di presunzione ex lege di eccessiva onerosità dei contratti, tale da indurre le amministrazioni a ridurli. In sostanza, esigenze di finanza pubblica finiscono per travolgere ogni principio di buona fede e correttezza, incidendo negativamente sulle parti private dei contratti.

Per attenuare l’evidente vulnus ad ogni principio di tutela della buona fede e dei rapporti economici nell’ordinamento, si prevede la possibilità, per le parti, di rinegoziare il contenuto dei contratti, in funzione della suddetta riduzione. Ma, ovviamente, non si può che trattare di una rinegoziazione che, dal lato dell’operatore economico, comporti una connessa riduzione delle prestazioni del 5%. Il che implica un 5% in meno dei beni acquisiti, ma, soprattutto, dei servizi.

Questo è il punto maggiormente delicato, proprio quello dei servizi. Anche se nel decreto legge non è scritto proprio da nessuna parte, si dà per scontato che i contratti da ridurre riguardino i servizi “intermedi”, quelli, cioè, necessari al funzionamento delle amministrazioni. Per esempio, l’appalto delle pulizie lo è? È possibile ridurre del 5% la pulizia nelle scuole, negli ospedali, negli uffici che ricevono il pubblico? E’ un servizio solo intermedio, solo rivolto all’ente appaltante, oppure ha evidenti riverberi in termini anche di decoro verso i cittadini?

Ma gli elementi difficili da comprendere sono tanti. Complessivamente, i consumi intermedi sul Pil ammontano a circa 130 miliardi. I 2,1 miliardi che si prevede di risparmiare sono circa un terzo del 5% di tale ammontare, ma finiscono all’ingrosso per corrispondere al 5% della spesa, se si esclude quella sanitaria.

Il che significa che il Governo punta esattamente ad una misura di riduzione del 5% dell’importo dei contratti in essere, rendendola, sostanzialmente, tale da essere un taglio trasversale. Il che, ancora, vuol dire che il taglio tendenzialmente deve abbracciare ogni genere di contratto, ritenuto mediamente più caro del 5% di quello che dovrebbe.

Ma, questa visione appare davvero frutto di un dirigismo e di presunzioni indimostrate ed indimostrabili.

Il d.l. 66/2014 al comma 8, lettera b), dell’articolo 8 e all’articolo 9 individua negli acquisti dalle centrali di committenza o soggetti aggregatori la “panacea” per il risparmio di risorse nei contratti di servizi e forniture.

E, allora, i contratti già in essere acquisiti attraverso le adesioni alle convenzioni con la Consip o centrali di committenza regionali, oppure mediante il Me.Pa.? Perché ridurli, se già rispondono alla logica di risparmio che il d.l. 66/2014 vuole indurre?

E, poi, come si possono ridurre gli importi dei contratti derivanti dall’adesione alle convenzioni con la Consip o con centrali di committenza, se la negoziazione non è stata nemmeno effettuata dalla pubblica amministrazione aderente.

Ancora: come si potrebbero ridurre contratti ad elevatissima intensità di mano d’opera, come il già citato appalto delle pulizie o la gran parte dei contratti per prestazioni sociali, visto che una riduzione del 5% operante sul guadagno dell’imprenditore (spessissimo una cooperativa) potrebbe certamente aggredire la soglia, invece intoccabile, delle retribuzioni dei dipendenti?

Il giusto invito a razionalizzare la spesa rischia di essere un boomerang, come sempre a causa della frettolosità dell’impostazione delle norme.

In maniera un po’ incoerente, in effetti, sempre l’articolo 8, comma 5, del d.l. affida ad un decreto del Presidente del Consiglio dei ministri da emanarsi entro 30 giorni dalla data di entrata in vigore del decreto il compito di determinare minori riduzioni della spesa “per gli enti che acquistano ai prezzi piu' prossimi a quelli di riferimento ove esistenti; registrano minori tempi di pagamento dei fornitori; fanno piu' ampio ricorso agli strumenti di acquisto messi a disposizione da centrali di committenza”. Si tratta di una parziale considerazione e soluzione alle domande poste sopra, che, però non tiene conto della circostanza che creare regole di “virtuosità” retroattive non è evidentemente il massimo della correttezza e della linearità dell’azione. E, comunque, tali agevolazioni sul compito di ridurre la spesa per acquisti varrà solo per le amministrazioni statali.

Regioni ed enti locali potranno eventualmente rimediare all’impossibilità (assai probabile) di incidere trasversalmente su tutti i contratti), riducendo le spese correnti in altro modo, come consente l’articolo 47 del decreto

A complicare ulteriormente le cose, c’è, nell’articolo 8, la salvezza della  facoltà del prestatore dei beni e dei servizi “di recedere dal contratto entro 30 giorni dalla comunicazione della manifestazione di volonta' di operare la riduzione senza alcuna penalita' da recesso verso l'amministrazione. Il recesso e' comunicato all'Amministrazione e ha effetto decorsi trenta giorni dal ricevimento della relativa comunicazione da parte di quest'ultima”.

Dunque, l’eventuale avvilimento della possibilità di ridurre l’importo dei contratti in essere può costare davvero molto più caro del 5% alle amministrazioni appaltanti, qualora gli appaltatori recedano. Tale facoltà per gli appaltatori rimedia all’atto di imperio, contrario a correttezza e buona fede, previsto dalla norma. Ma, finisce per creare un vuoto organizzativo e gestionale non da poco, se attivato. Non a caso, l’articolo 8 dispone che “In caso di recesso, le Amministrazioni di cui al comma 1, nelle more dell'espletamento delle procedure per nuovi affidamenti, possono, al fine di assicurare comunque la disponibilita' di beni e servizi necessari alla loro attivita', stipulare nuovi contratti accedendo a convenzioni-quadro di Consip S.p.A., a quelle di centrali di committenza regionale o tramite affidamento diretto nel rispetto della disciplina europea e nazionale sui contratti pubblici”.

Si tratta, tuttavia, di rimedi solo teorici e molto parziali, pensati da chi, davvero, si intende poco dell’attività gestionale. Le convenzioni quadro della Consip o delle centrali di committenza possono certo considerarsi equivalenti a qualsiasi altro contratto per la classica fornitura di cancelleria. Non è per nulla vero, invece, per servizi più complessi, che richiedono impianto di cantiere o, comunque, una certa tipologia di organizzazione e di logistica. Si tratta, in questi casi, di ripartire totalmente da zero, nella stessa impostazione del contratto, mentre nel frattempo occorre effettuare tutte le operazioni contabili per chiudere quello dal quale l’appaltatore ha inteso recedere, correndo per rispettare i tempi di pagamento e fare i collaudi o le verifiche finali delle prestazioni.

Probabilmente, tutti finirebbero per utilizzare l’affidamento diretto. Col risultato di dare una spinta, nel 2014, ad un impiego esasperato del sistema di individuazione del contraente meno trasparente e convincente tra tutti.

Ma, soprattutto, è forte il rischio che i 2,1 miliardi, la polpa vera e propria dei risparmi (gran poca cosa sono i tagli ai trattamenti economici dei dirigenti, di consulenze, studi, ricerche e collaborazioni e alle autoblu), risultino estremamente aleatori, a causa delle troppe incertezze dei meccanismi immaginati per contenere la spesa per acquisti e servizi.

 

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