Inutile nascondersi che l’articolo 4 del decreto legge 16/2014, convertito in legge 68/2014, sia una norma fonte di tanta, troppa confusione.
L’intento è mettere un punto fermo alla situazione dell’applicazione dei contratti collettivi decentrati degli enti locali. L’imperversare delle ispezioni della Ragioneria generale dello Stato dimostra:
1) che l’autonomia contrattuale assegnata alle amministrazioni pubbliche, regioni ed enti locali in primo luogo, è un fallimento;
2) che la quantità di contratti decentrati affetti da vizi di molteplici nature è vastissima, rasenta quasi il 100% dei casi;
3) che, evidentemente, qualcosa non va nelle relazioni sindacali, nell’eccessiva influenza della politica (nonostante essa dovrebbe disinteressarsi del tutto dell’argomento), ma soprattutto nella normativa;
4) essa normativa, infatti, è a un tempo:
- eccessiva;
- torrenziale;
- complessa;
- contraddittoria;
- lacunosa;
- autointegrata da “prassi”, i pareri dell’Aran, che non hanno alcuna fonte di legittimazione, ma sono presi come “ipse dixit” dalle ispezioni e anche dalle pronunce della Corte dei conti.
Per quanto la parola “sanatoria” faccia storcere la bocca a molti, tuttavia sembra inevitabile che a distanza di 15 anni dall’avvio della ondata di contrattazione collettiva, avviatasi nel 1999, qualcosa occorra modificare. A tale scopo, occorre bloccare il meccanismo, provando a metterne a punto un altro.
Basta fare una navigazione in internet, inserendo nel motore di ricerca parole chiave come “ispezione” e “comuni”, per rendersi conto di quanto diffuso sia il fenomeno: oltre ai casi più noti, come Roma e Firenze, tantissimi altri enti, anche capoluoghi importanti sono presi in considerazione, come Piacenza, Rovigo, Vicenza, Reggio Calabria.
Ora, immaginare che tutta l’Italia dei comuni abbia mirato a creare la diffusissima violazione ai vincoli della contrattazione, appare difficile. Certo, gli enti locali non hanno brillato per particolare oculatezza nel gestire l’autonomia contrattuale. Ma, qualcosa non funziona né nel sistema normativo, né nelle relazioni sindacali, né nelle ispezioni.
I tasti “stop” e “rewind” pare inevitabile che siano schiacciati, per ripartire in modo diverso e più razionale.
L’articolo 4 della legge 68/2014 ci prova, ma occorrerebbe una celere correzione della sua rotta, resa incerta dalla presenza di due nocchieri: il Governo, che vorrebbe giungere, in effetti, al nuovo anno zero della contrattazione; la Ragioneria generale dello Stato che, un po’ per ragioni di principio, un po’ per orgoglio del proprio operato, vede col fumo negli occhi interventi di manutenzione sulle passate contrattazioni.
Occorre, evidentemente, una direzione unica ed una guida unica verso la soluzione vera e funzionale del problema.
Invece, lo “strabismo” che ha caratterizzato la scrittura dell’articolo 4 della legge 68/2014 emerge molto evidentemente nello iato, nella sostanziale contraddizione dei suoi commi 1 e 2, da una parte, e 3, dall’altra.
L’articolo 1 prevede una sorta di “ravvedimento operoso”: gli enti locali recuperano le risorse mal spese, a condizione che garantiscano misure di organizzazione volte a ridurre in modo stabile le spese di personale.
I passaggi da compiere sono molti.
1) “le regioni e gli enti locali che non hanno rispettato i vincoli finanziari posti alla contrattazione collettiva integrativa sono obbligati a recuperare integralmente, a valere sulle risorse finanziarie a questa destinate, rispettivamente al personale dirigenziale e non dirigenziale, le somme indebitamente erogate mediante il graduale riassorbimento delle stesse, con quote annuali e per un numero massimo di annualità corrispondente a quelle in cui si è verificato il superamento di tali vincoli”.
La norma apparentemente è precettiva, perché pone un obbligo. Nella realtà, essa, invece, è facoltativa. O, meglio, lascia agli enti locali il potere di accertare di aver violato i vincoli alla contrattazione collettiva integrativa.
Questo accertamento passa:
- dall’accettazione dei rilievi mossi dall’Ispettorato del Mef, se l’ente sia stato oggetto delle ispezioni;
- da un atto di vero e proprio ravvedimento operoso: una ricognizione realizzata autonomamente dall’ente, per correggere la violazione ai vincoli, causata dalla contrattazione decentrata.
L’obbligo di recupero scatta, dunque, quando si ponga in essere un atto volitivo da parte di ciascun ente, col quale decidere di avvalersi della norma.
Tale atto volitivo, ovviamente, deve contenere non solo l’accertamento dei vincoli violati, ma anche la quantificazione esatta delle somme erogate in violazione dei vincoli. L’articolo 4 prende in esame i soli vincoli “finanziari”, dunque il ravvedimento operoso deve rivolgersi alle clausole contrattuali dalle quali siano discese spese non dovute.
Qui, però, si porranno problemi che l’articolo 4 non aiuta a risolvere. Cosa si intende per “spese non dovute”? A lume di ragione, si dovrebbe trattare di somme erogate che abbiano tratto la loro fonte di finanziamento indebitamente oltre le disponibilità del fondo, frutto, dunque, di incrementi tratti dal bilancio.
Tuttavia, la norma parla di “somme indebitamente erogate”, che è un concetto un po’ diverso. Un esempio. Il pagamento, ad esempio, dell’indennità di reperibilità attraverso le risorse variabili, appositamente incrementate con risorse di bilancio, costituirebbe certamente una violazione finanziaria determinata da un impiego di risorse improprio. Ma, l’attribuzione ai dipendenti dell’indennità di disagio oltre il limite dei 30 euro mensili, ritenuto esclusivamente dalla prassi dell’Aran soglia invalicabile per tale indennità, costituisce “somma indebitamente erogata”, anche se finanziata col fondo? E se la risposta fosse affermativa, qualora il maggior importo (ritenuto indebito da Aran e dalla quasi totalità delle ispezioni) fosse, come dovrebbe, finanziato col fondo, cosa e come potrebbe recuperare l’ente dal fondo, visto che l’erogazione avrebbe comunque tratto dal fondo il suo finanziamento, senza, quindi, alcun maggior esborso per l’ente.
Un punto estremamente debole della “sanatoria” vigente è proprio questo: l’assenza di una definizione chiara delle “somme indebitamente erogate”, che richiederebbe un riesame tecnico della disciplina normativa e degli istituti, in particolare quelli derivanti dalle prassi dell’Aran, per dare indicazioni, finalmente di fonte normativa, su come operare, in modo da evitare che vi possano essere, in futuro, paradossi come ispezioni del Mef, che vadano a sindacare sul ravvedimento operoso.
Il chiarimento andrebbe rivolto anche al graduale riassorbimento delle somme indebitamente erogate e alle “quote annuali e per un numero massimo di annualità corrispondente a quelle in cui si è verificato il superamento di tali vincoli”.
Il riassorbimento, cioè, opera sul fondo. Ma, è evidente che esso dovrà ricomprendere anche le somme extra fondo (per intendersi, quelle variabili assegnate ai sensi dell’articolo 15, comma 5, del Ccnl 1.4.1999), sicchè, nella, sostanza, si andrà a ridurre la parte stabile del fondo in maniera profonda, senza più poter contare sulla parte variabile. Ma, vi sono alcune componenti del fondo di parte stabile, connesse con il trattamento economico fondamentale o con servizi esterni difficilmente modificabili: ci riferiamo, ad esempio, al finanziamento delle progressioni orizzontali e dell’indennità di comparto o a indennità come turno e reperibilità.
Se non si chiarisce se esista o meno un limite al riassorbimento, si rischia di dover intaccare proprio quei finanziamenti. Il che significa, non poter svolgere servizi in turno o reperibilità (è inimmaginabile, ovviamente, imporre orari particolari violando le norme contrattuali che li regolano), oppure dover ridurre il trattamento economico fondamentale. Queste rilevanti conseguenze sui servizi e sulla remunerazione dei lavoratori si determinerebbero laddove il numero delle annualità corrispondente al periodo di superamento dei vincoli, fosse particolarmente breve.
Qui si reperisce un’altra lacuna o pecca dell’articolo 4: non ha definito in maniera chiara l’oggetto del riassorbimento, né il numero di anni. In merito a questo ultimo problema, alcuni suggeriscono di limitare questa sorta di ravvedimento operoso al quinquennio di prescrizione per retribuzioni da lavoro. Ma, 5 anni potrebbero essere non sufficienti per scongiurare un imponente taglio temporaneo al fondo, tale appunto da intaccare Peo, indennità di comparto e indennità funzionali all’organizzazione.
Sarebbe estremamente necessario che l’articolo 4 venisse rivisto, per definire esattamente quali voci del fondo e del trattamento economico dei singoli dipendenti siano “aggredibili” ed entro che limiti, così da permettere un riassorbimento graduale, sì, ma entro un arco di tempo flessibile, commisurato ad evitare che le conseguenze sul salario dei dipendenti e sull’organizzazione si rivelino eccessivamente draconiane.
2) La seconda fase dell’intervento di “ravvedimento operoso”, impone a regioni ed enti locali di adottare un’altra scelta espressa: adottare “misure di contenimento della spesa per il personale, ulteriori rispetto a quelle già previste dalla vigente normativa, mediante l'attuazione di piani di riorganizzazione finalizzati alla razionalizzazione e allo snellimento delle strutture burocratico-amministrative, anche attraverso accorpamenti di uffici con la contestuale riduzione delle dotazioni organiche del personale dirigenziale”.
I piani di riorganizzazione debbono dimostrare che gli enti possono funzionare con dotazioni organiche di diritto e di fatto inferiori, potendosi anche giungere alla collocazione del personale in soprannumero, così da applicare le disposizioni sui “pre-pensionamenti” e sulle misure di collocazione in disponibilità “lunga” (48 mesi) previste dall'articolo 2, commi 11 e 12, del d.l. 95/2012, convertito in legge 135/2012, entro il 2016.
Anche questo, però, è un punto debole dell’articolo 4. Il limite temporale di applicabilità delle norme della spending review del governo Monti, non appare congruo, dal momento che il ravvedimento operoso sui contratti interviene due anni dopo. Forse, era il caso di allungare, specificamente per questo aspetto, detto limite temporale.
3) In conseguenza dei piani di riorganizzazione e delle eventuali conseguenze di riduzione del personale, le cessazioni dal servizio derivanti dalla collocazione di dipendenti in sovrannumero non potranno essere calcolate come risparmio utile per definire l'ammontare delle disponibilità finanziarie da destinare alle assunzioni o il numero delle unità sostituibili in relazione alle limitazioni del turn over.
Dunque, si tratta di unità di lavoro che andranno cancellate a regime dalla dotazione organica.
4) Infine, un adempimento informativo: regioni ed enti locali dovranno trasmettere entro il 31 maggio di ciascun anno alla Presidenza del Consiglio dei Ministri - Dipartimento della funzione pubblica, al Ministero dell'economia e delle finanze - Dipartimento della Ragioneria generale dello Stato e al Ministero dell'interno - Dipartimento per gli affari interni e territoriali, ai fini del relativo monitoraggio, una relazione illustrativa ed una relazione tecnico-finanziaria che, con riferimento al mancato rispetto dei vincoli finanziari, dando conto dell'adozione dei piani obbligatori di riorganizzazione e delle specifiche misure previste dai medesimi per il contenimento della spesa per il personale ovvero delle misure di cui al terzo periodo.
Benissimo il monitoraggio, ma: qual è il fine? Si torna ad una domanda posta sopra: scatterebbero nuove ispezioni per verificare metodo e merito dell’intervento realizzato da ciascun ente? Non sarebbe un cane che si morde la coda? Anche questo aspetto andrebbe chiarito una volta e per tutte.
Fin qui il “ravvedimento operoso”. Dal quale, pur nella lacunosità della sua disciplina operativa, emerge un dato incontestabile: gli enti compensano con una riduzione del fondo, graduale e prolungata nel tempo, le maggiori spese, attraverso, dunque, una somma algebrica.
Si è detto che tale norma non consente di recuperare le somme nei confronti dei dipendenti. E’ solo parzialmente corretta tale affermazione. Lo è, se la si intenda nel senso che le amministrazioni che aderiscono al ravvedimento operoso non debbano chiedere ai dipendenti la restitutio in integrum di quanto percepito indebitamente; nella realtà, tuttavia, quello che i dipendenti non restituiranno se lo troverebbero comunque “addebitato”, per effetto della riduzione degli importi del fondo, in particolare della parte variabile e, dunque, della parte connessa alla produttività. Invece di dover dare indietro denari, dunque, per un certo lasso di tempo i dipendenti si vedrebbero decurtate le retribuzioni.
L’effetto è, ovviamente, meno dannoso e dirompente, ma pur sempre un effetto non secondario.
Per questa ragione, i sindacati sono fortemente contrari all’utilizzazione dell’articolo 4. Ma, occorre prendere atto, per quanto la norma – inopportunamente – sul punto taccia, che i sindacati non hanno alcun ruolo nel merito. Non p prevista alcuna relazione sindacale, infatti, trattandosi, come visto prima, di un obbligo che scatta nel momento in cui vi sia un accertamento, ab externo, o autonomamente posto in essere, del superamento dei vincoli finanziari. Violare un obbligo, per non andare in contrasto con i sindacati non è, ovviamente, né opportuno né difendibile.
Occorre precisare, dunque, che l’inadempimento all’obbligo, una volta accertata la violazione dei vincoli, è ovviamente fonte di eventuale responsabilità in capo ai soggetti che lo vìolino che sono ovviamente i componenti delle giunte e i dirigenti che a vario titolo debbono essere coinvolti nel processo di istruttoria della fattispecie: segretari comunali, direttori generali, responsabili del settore finanziario, in qualche misura anche i componenti delle delegazioni trattanti,
Ma, se una responsabilità erariale può evidenziarsi qualora non si adempia all’obbligo di recuperare le somme in violazione dei vincoli finanziari, simmetricamente occorre chiedersi se esista una responsabilità erariale, qualora l’ente ponga in essere le azioni previste dall’articolo 4, comma 1 (e anche 2, che consente, in teoria, di ammortizzare l’impatto del comma 1, utilizzando le risorse derivanti dall’attuazione dei piani di razionalizzazione di cui all’articolo 16, commi 4 e 5, del d.l. 98/2011).
La risposta alla domanda dovrebbe essere negativa. Laddove l’ente si ravveda e recuperi la maggiore spesa, il danno materialmente non può esservi, perché l’effetto del ravvedimento è non solo quello di riprendere indietro (almeno per il periodo di prescrizione) maggiori esborsi, ma anche di inasprire i vincoli alla spesa del personale, alle assunzioni e alla dotazione organica.
Eppure, questa conclusione appare, in buona parte, non collimare con la previsione del comma 3 dell’articolo 4 stesso. Esaminiamone il contenuto: “Fermo restando l'obbligo di recupero previsto dai commi 1 e 2, non si applicano le disposizioni di cui al quinto periodo del comma 3-quinquies dell'articolo 40 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, agli atti di costituzione e di utilizzo dei fondi, comunque costituiti, per la contrattazione decentrata adottati anteriormente ai termini di adeguamento previsti dall'articolo 65 del decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150, e successive modificazioni, che non abbiano comportato il riconoscimento giudiziale della responsabilità erariale, adottati dalle regioni e dagli enti locali che hanno rispettato il patto di stabilità interno, la vigente disciplina in materia di spese e assunzione di personale, nonché le disposizioni di cui all'articolo 9, commi 1, 2-bis, 21 e 28, del decreto-legge 31 maggio 2010,n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, e successive modificazioni”.
La norma sembra una contraddizione in termini. Infatti, il comma 3, a differenza del comma 1, che è un ravvedimento, è una vera e propria sanatoria. Infatti, addirittura prevede che non si applichi agli atti di costituzione e destinazione dei fondi la sanzione della nullità, prevista dall’articolo 40, comma 3-quinquies, quinto periodo, del d.lgs 165/2001.
Ora, la nullità è, oppure non è. Sembra assai strano e di dubbia costituzionalità che una medesima fattispecie possa essere considerata, dal legislatore, nulla o non nulla.
Il comma 3 esordisce affermando che debbono restare ferme le disposizioni dei commi 1 e 2. Dunque, parrebbe di capire che presupposto per la “sanatoria” del comma 3, sia il “ravvedimento operoso” del comma 1.
Ma, il ravvedimento operoso non è sufficiente, sembra da come sono scritte le norme, per escludere del tutto le conseguenze delle responsabilità scaturenti dalla stipulazione di clausole nulle. Almeno, lo è solo a condizione che:
a) la sanatoria si riferisca ai contratti stipulati antecedentemente al 31.12.2012, termine ultimo per l’adeguamento dei contratti decentrati alla riforma operata col d.lgs 150/2009;
b) gli atti di utilizzo dei fondi non abbiano comportato il riconoscimento giudiziale della responsabilità erariale (basta il primo grado? Sembrerebbe di sì, ma un chiarimento sarebbe stato necessario);
c) sia stato rispettato il patto di stabilità interno; sì, ma quando? L’anno precedente, nel corso dell’intero arco di tempo preso in esame per il ravvedimento? Come si fa a scrivere norme con questi margini talmente ampli di incertezza?;
d) sia rispettata la vigente disciplina in materia di spese e assunzione di personale; dunque, restrizioni del turn over, corretta applicazione delle stabilizzazioni, riduzione costante della spesa, limite della spesa del personale inferiore al 50% del totale della spesa corrente; ma anche qui, questo rispetto deve essere garantito per l’intero arco esaminato col ravvedimento o nell’ultimo anno?;
e) siano rispettate le disposizioni di cui all'articolo 9, commi 1, 2-bis, 21 e 28, del d.l. 78/2010, convertito in legge 122/2010: congelamento del trattamento economico fondamentale dei dipendenti al 2010, tetto al fondo del 2010, obbligo di ridurre il fondo con applicazione a regime del sistema di computo stabilito dalla Ragioneria generale (media della semisomma, con base il primo gennaio 2010), blocco delle progressioni di carriera comunque denominate, tetto alle spese per assunzioni flessibili.
Dunque, se si verificano queste condizioni, per un ente che attui le previsioni del comma 1 dell’articolo 4, le clausole dei contratti, fonti della violazione dei vincoli di spesa recuperata, non sono nulle; invece, per un altro ente per il quale anche una sola di queste condizioni non fosse data, le clausole, magari esattamente le stesse clausole di contrattazione decentrata fonte della violazione di una identica tipologia di violazione dei vincoli contrattuali, sarebbero nulle.
La nullità è una condizione di violazione insanabile e intollerabile dell’ordinamento giuridico. Come detto sopra, o esiste, oppure non esiste. Se la nullità è stabilita in relazione alla irrimediabile violazione dell’ordinamento, tale da non poter essere in alcun modo essere accettata dato il pericolo alla “stabilità” sociale e dei rapporti economici, non possono darsi “condizione” al ricorrere delle quali la nullità non sia.
In effetti, non c’è relazione alcuna tra la stipulazione di clausole contrattuali decentrate che vìolino i vincoli contrattuali con, per esempio, il rispetto della disciplina delle assunzioni o il rispetto del tetto alla spesa per assunzioni flessibili. Una relazione diretta vi è solo tra corretta costituzione del fondo ed applicazione dell’articolo 9, comma 2-bis, del d.l. 78/2010, oppure tra costituzione e destinazione del fondo e blocco delle retribuzioni individuali e delle progressioni di carriera, previsti dall’articolo 9, commi 1 e 21, del d.l. 78/2010. Ma una diretta causalità tra violazione dei vincoli finanziari e violazione del patto di stabilità è solo teorica e tutta da dimostrare.
Non vi sono elementi razionali, pertanto, per potersi accettare una distinzione tra enti che rispettino le condizioni previste dal comma 3, nei confronti dei quali le clausole contrattuali che abbiano violato i vincoli finanziari risultino, improvvisamente, non nulle, e gli altri enti per i quali dette clausole, invece, restano nulle, nonostante l’applicazione del ravvedimento operoso.
Alla fine, quando si applica il comma 1 dell’articolo 4, si eliminano gli effetti finanziari delle clausole nulle: e questo vale tanto per gli enti che rispettino le condizioni del comma 3, quanto per gli enti che non le rispettino.
Lasciare operante la nullità, nonostante l’applicazione del comma 1, è oggettivamente senza troppo senso e, comunque, fonte di possibile contenzioso.
L’applicazione del comma 1 dell’articolo 4 dovrebbe avere l’obiettivo non solo di permettere il recupero di denaro mal speso, ma anche di ridurre il contenzioso davanti ai giudici ordinari e contabili.
Ma, se permane la nullità delle clausole, nonostante l’eliminazione del danno finanziario, potrebbero darsi azioni comunque di responsabilità nei confronti di chi tali clausole abbia stipulato e applicato, violando il divieto espresso di applicazione. E potrebbero anche attivarsi giudizi di responsabilità erariale comunque connessi all’illiceità del titolo della spesa, più che per il danno derivante dall’erogazione della spesa.
Il senso del comma 3, nel momento in cui esclude la nullità non come conseguenza dell’eliminazione del danno erariale dovuta all’applicazione del comma 1, ma ad elementi accessori ed oggettivamente accidentali, pare sfuggire e rendere la norma molto contorta, così da non far comprendere realmente se, come la razionalità giuridica comunque indica, l’applicazione del ravvedimento operoso del comma 1 dell’articolo 4 conduca comunque all’esclusione della responsabilità erariale.
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