venerdì 9 maggio 2014

#pa #Contratti decentrati. La lezione del “caso” Roma #lavoro #salvaRoma

Luigi Oliveri

Su Il Sole 24 Ore dell’8 maggio 2014 si informa dell’intenzione del Governo di preparare un “salva-Roma” quater, che in realtà, forse, sarebbe una sanatoria più generalizzata ai contratti decentrati integrativi stipulati dai comuni.

Cosa sta succedendo? A Roma, molti cittadini hanno capito che esiste un problema serio, perché i dipendenti del comune di Roma sono scesi in Campidoglio ed hanno bloccato praticamente tutte le attività, in reazione all’iniziativa del Comune di congelare una parte dei loro stipendi, adempiendo alle risultanze dell’ispezione svolta dai Servizi ispettivi del Ministero dell’economia.

Ecco, questo è lo spunto. Roma, come molte altre città e comuni (sono aperti in modo altrettanto serio della capitale anche i casi di Vicenza, Reggio Calabria e Firenze, ma tantissimi comuni più piccoli sono stati visitati dagli ispettori del Mef con problemi analoghi) è stata oggetto di un’ispezione sull’andamento dei conti che si è concentrata anche sulle modalità con le quali è stata gestita l’autonomia contrattuale.

Tutto il fenomeno è previsto dalla legge che:

a) assegna ai comuni un’autonomia di contrattazione a livello decentrato “aziendale”, nel rispetto dei limiti e dei vincoli imposti dalla legge e dai contratti nazionali collettivi;

b) attribuisce ai servizi ispettivi del Mef (ma anche della Funzione pubblica) il potere di verificare la “regolarità” dei contratti decentrati.

Qual è il problema? Non ce n’è uno solo, ma sono tantissimi. Se si dovesse, tuttavia, riassumere il fenomeno, come in breve faremo di seguito, il vero problema è uno solo: l’assenza di controlli preventivi.

Le ispezioni del Mef sono, infatti, una forma di controllo successiva alla gestione, di natura, per altro, non ben identificata. Non si capisce, infatti, quale sia il mandato o, per meglio dire, il limite concreto delle ispezioni: se di regolarità, se di legittimità, se di merito o insieme. In effetti, un controllo di regolarità può estendersi alla legittimità, ma non coinvolgere il merito. Eppure, le ispezioni, tutte basate su “modelli” molto simili tra loro, sono caratterizzate da una pervasiva ingerenza sul “merito” e non si fermano solo alla regolarità/legittimità, che richiede la pesatura del parametro “regola posta/scostamento dell’azione dal rispetto della regola”.

Ora, poiché i controlli del Mef sono successivi e non preventivi alla stipulazione ed attuazione dei contratti, giungono anni dopo ad evidenziare vizi, veri o presunti (l’esperienza insegna che sia i giudici del lavoro, sia la Corte dei conti non accolgono molti dei rilievi delle ispezioni) dei contratti e della gestione. Pertanto, le ispezioni giungono quando le remunerazioni per i dipendenti (oggetti dei contratti decentrati) sono già state, e da tempo, a loro erogate e da loro spese.

Da qui la difficoltà estrema a procedere ad un “risanamento” delle voci di bilancio dedicate ai contratti decentrati (si tratta di “fondi” autonomi e vincolati al personale, creati all’interno dei bilanci degli enti). Infatti, le ispezioni concludono, sempre, ingiungendo alle amministrazioni ispezionate di recuperare i plus di spesa dai dipendenti. Per questo, le amministrazioni fanno partire lettere di messa in mora dei lavoratori avvisandoli dell’intenzione di recuperare le risorse spese, in attesa della definizione delle procedure; inoltre, in via cautelare molti comuni sospendono del tutto i pagamenti delle voci stipendiali che, sulla base delle prime evidenze delle ispezioni, appaiono finanziate in modo irregolare.

Dunque, molto spesso la prima e immediata conseguenza delle ispezioni è un taglio secco alle retribuzioni dei dipendenti. Esattamente quello che è avvenuto a Roma.

Ora, abbandonando per un attimo la disamina di quel che accade sul piano amministrativo, lo capisce chiunque che questo modo di procedere è totalmente irrazionale, al di là delle responsabilità e delle colpe che possano essere riscontrate effettivamente nella gestione dei contratti decentrati.

Ci si dovrebbe interrogare, infatti, su quale senso possa avere permettere alle amministrazioni pubbliche (il problema non riguarda solo i comuni) un certo margine di autonomia contrattuale, correttamente limitato però da regole e vincoli, e però effettuare i controlli successivamente alla loro stipulazione ed attuazione.

La risposta è ovvia: non ha alcun senso. Lo dimostra in maniera chiarissima ed evidentissima la circostanza che la contrattazione collettiva nazionale, a differenza di quelle decentrate, è soggetta non solo ad un controllo preventivo, ma addirittura ad un vero e proprio potere di “veto” attribuito al controllore, nella specie la Corte dei conti. L’articolo 47 del d.lgs 165/2001 prevede una complicata procedura per la stipulazione dei contratti nazionali collettivi, nell’ambito della quale è richiesta la certificazione obbligatoria della compatibilità della spesa e della regolarità da parte della Corte dei conti, come presupposto per la sottoscrizione definitiva del contratto. Il comma 7 di tale articolo stabilisce: “In caso di certificazione non positiva della Corte dei conti le parti contraenti non possono procedere alla sottoscrizione definitiva dell'ipotesi di accordo. Nella predetta ipotesi, il Presidente dell'ARAN, d'intesa con il competente comitato di settore, che può dettare indirizzi aggiuntivi, provvede alla riapertura delle trattative ed alla sottoscrizione di una nuova ipotesi di accordo adeguando i costi contrattuali ai fini delle certificazioni. In seguito alla sottoscrizione della nuova ipotesi di accordo si riapre la procedura di certificazione prevista dai commi precedenti. Nel caso in cui la certificazione non positiva sia limitata a singole clausole contrattuali l'ipotesi può essere sottoscritta definitivamente ferma restando l'inefficacia delle clausole contrattuali non positivamente certificate”.

Come si vede, il legislatore assegna di fatto alla Corte dei conti la possibilità di bloccare la contrattazione ed impedire radicalmente che essa possa produrre effetti di spesa non compatibili con le regole generali.

Si tratta, sia pure sotto diversa costruzione, dei vecchi controlli preventivi esterni, disgraziatamente, incautamente e sciaguratamente eliminati dalle riforme Bassanini. I cui effetti devastanti per l’amministrazione sono esattamente questi: l’eliminazione di controlli preventivi esterni produce atti o contratti che, non essendo controllati da nessuno, avviano dinamiche di irregolarità, che da piccolo smottamento si tramutano in frana e poi in valanga.

Al livello di contrattazione nazionale, per evitare che essa sfori i limiti di spesa previsti nei documenti di programmazione e nelle leggi finanziarie, dunque, si introduce un controllo:

1. preventivo, posto cioè:

a. prima che l’atto sia adottato ed efficace;

b. allo scopo di prevenire possibili danni;

2. esterno: perché svolto da un soggetto terzo, esterno a chi compie l’attività (Aran e parti sindacali).

E alla Corte dei conti viene assegnato, sostanzialmente, un vero e proprio potere di impedire materialmente che i contratti siano stipulati. Si tratta, dunque, di un veto o controllo rafforzato.

Non si capisce quale sia la ragione per la quale questo schema, valido al livello nazionale, non sia stato adottato al livello decentrato.

Il caso di Roma e degli altri comuni interessati dalle ispezioni rivela l’atteggiamento del legislatore, che fa come lo struzzo: nasconde la testa sotto la sabbia, affidandosi alla sorte. Non avendo imposto un sistema di controlli esterni preventivi ai contratti, ma elaborato una modalità di controllo successiva, il legislatore:

a) ha aperto la stura a contrattazioni decentrate infarcite di irregolarità;

b) fa giungere le ispezioni troppo tardi, quando le conseguenze sono difficilmente governabili.

Infatti, con riferimento alle conseguenze, gli effetti delle ispezioni sono, in ordine sparso:

1. messa in mora dei dipendenti;

2. congelamento di parte delle loro retribuzioni;

3. inasprimento delle relazioni sindacali;

4. tensioni;

5. scioperi;

6. complicate e lunghe procedure per contro dedurre alle risultanze delle ispezioni;

7. vertenze davanti ai giudici del lavoro, che molte volte si risolvono nell’accoglimento dei ricorsi presentati dai lavoratori a smentita delle conclusioni ispettive;

8. spese ingenti per incarichi ad avvocati e di giudizio;

9. attivazione di azioni di responsabilità da parte della Corte dei conti;

10. ulteriori possibili azioni di responsabilità per eventuali inerzie nella messa in mora o nelle azioni di recupero;

11. contrapposizioni interne tra dipendenti;

12. contrapposizioni tra dirigenza e politica.

Un insieme di elementi che dura anni, causando strascichi difficilmente rimediabili e che, di fatto, consegna nelle mani della giustizia ordinaria e contabile la regolazione delle fattispecie.

Il tutto, lo si ribadisce, per il vizio genetico terribile di non aver previsto strumenti di controllo preventivo.

Gli stessi rilievi, dubbi e rimbrotti che le ispezioni del Mef muovono alle amministrazioni, sarebbe necessario fossero evidenziati allo scopo di impedire che ipotesi di contratti, potenzialmente dannosi, si verifichino.

I fatti dimostrano che questo modo di impostare le relazioni sindacali e i controlli successivi è insostenibile.

Infatti, finchè l’attività ispettiva del Mef è stata compiuta “sotto traccia”, il problema dei contratti decentrati è stato ampiamente sottovalutato. Le ispezioni, fino a qualche anno fa riguardavano pochi enti e, spesso, erano rivolte ad amministrazioni piccole, dunque non di gran peso per la politica.

Con l’andar del tempo, il Mef ha ovviamente incrementato ed esteso la propria attività: il numero degli enti visitati è aumentato e si è iniziato a toccare anche i grandi capoluoghi. E quando si arriva a realtà come Roma o Firenze è evidente che il fuoco non può ardere più sotto la cenere, ma divampa.

Non è un caso che nel d.l. “salva-Roma” sia stata introdotta la inevitabile conseguenza di decenni di confusione, gestione incontrollata e sistemi di verifica ispettivi solo successivi: la sanatoria. Per altro, mal congegnata e concepita e non in grado di risolvere davvero i problemi.

Non si vuole, qui, prendere le difese degli enti che abbiano realmente stipulato contratti o clausole irregolari. Proprio l’esperienza delle ispezioni del Mef dimostra la qualità tutt’altro che eccelsa dei contratti decentrati.

E’ anche vero che molte volte le ispezioni stesse indulgono in formalismi o, comunque, si basano su fondamenti del tutto incerti e instabili. Per esempio, una classica contestazione che le ispezioni rivolgono ai contratti decentrati riguarda il cumulo tra indennità di vigilanza degli agenti di polizia municipale e indennità di rischio: ma vi è una folta giurisprudenza dei giudici del lavoro che considera questo perfettamente possibile. Come è possibile ammettere che nell’ordinamento vi sia una distonia così forte tra organi amministrativi di controllo e giurisprudenza, senza che vi sia una regola normativa che la componga?

Si tenga presente, per rimanere all’esempio, che non esiste norma di legge o di contrattazione nazionale collettiva alcuna che vieti espressamente tale cumulo; i servizi ispettivi pongono come fonte del divieto per loro sussistente i “pareri” dell’Aran, l’agenzia per la contrattazione nazionale collettiva. C’è da aggiungere che circa il 70% delle contestazioni che il Mef, con le sue ispezioni, muove ai comuni, si fonda appunto sui pareri dell’Aran.

Ora, in merito a detti pareri, è necessario evidenziare:

a) essi non costituiscono “fonte” di diritto; sono espressioni ed avvisi autorevoli quanto si voglia, di una delle “parti” contrattuali; ma pareri sono e tali restano, senza effetto vincolante per nessuno;

b) non possono nemmeno essere considerati “interpretazione autentica”; sia perché si tratta di punti di vista di una sola parte stipulante i contratti nazionali, sia, soprattutto, perché l’interpretazione autentica è disciplinata dalla legge e ad essa si giunge con la stipulazione (ovviamente) di un contratto tra Aran e parti sindacali, che concordi sull’interpretare una o più clausole in un certo modo, vincolante;

c) sono spesso, troppo spesso, pareri “creativi”, che, cioè, vanno oltre il dettato letterale desumibile dalle clausole contrattuali, definendo limiti, vincoli e procedure inesistenti nella norma.

Come si vede per il caso del cumulo delle indennità di vigilanza e disagio, le conclusioni del Mef, basate sui pareri dell’Aran, sono del tutto vanificate dai giudici del lavoro. Ma questo è valso, ad esempio, per un altro classico problema rilevato dal Mef e basato su pareri Aran: l’importo dell’indennità di disagio. Secondo l’Aran esso non può essere superiore a 30 euro mensili, che è il tetto fissato dalla contrattazione nazionale collettiva all’indennità di rischio; peccato, però, che la medesima contrattazione nazionale collettiva rimetta integralmente alla contrattazione decentrata la possibilità di determinare l’importo dell’indennità di disagio. Per quanto possa apparire corretto e condivisibile che, come sostiene l’Aran, il disagio (meno “grave” ed influente sul lavoro del rischio) non possa ricevere un’indennità maggiore del secondo, tuttavia, anche in questo caso la giurisprudenza del lavoro (tribunale di Verona) ha ritenuto la legittimità di clausole contrattuali decentrate che prevedano importi maggiori.

Ancora, i servizi ispettivi del Mef contestano regolarmente gli incrementi delle risorse “variabili” apportati dalle amministrazioni al fondo contrattuale, basati sull’articolo 15, comma 5, del Ccnl 1.4.1999. Ora, è opportuno dare una lettura attenta a quanto dispone questa norma, soprattutto da parte di coloro che non sono troppo addentro alla materia della gestione del personale pubblico: “In caso di attivazione di nuovi servizi o di processi di riorganizzazione finalizzati ad un accrescimento di quelli esistenti, ai quali sia correlato un aumento delle prestazioni del personale in servizio cui non possa farsi fronte attraverso la razionalizzazione delle strutture e/o delle risorse finanziarie disponibili o che comunque comportino un incremento stabile delle dotazioni organiche, gli enti, nell’ambito della programmazione annuale e triennale dei fabbisogni di cui all’art. 6 del D.Lgs. 29/93, valutano anche l’entità delle risorse necessarie per sostenere i maggiori oneri del trattamento economico accessorio del personale da impiegare nelle nuove attività e ne individuano la relativa copertura nell’ambito delle capacità di bilancio”. Chi alla prima o anche alla seconda o terza lettura ha compreso esattamente cosa voglia affermare la norma, lo segnali.

Sta di fatto che dopo anni di incertezze interpretative, si è convenuto che essa:

a) nella sua prima parte, consenta di incrementare il fondo, se si incrementa la dotazione organica in modo definitivo; è un’ipotesi irrealizzabile, perché le dotazioni debbono essere tagliate ed i blocchi al turn over non consentono di incrementarla; l’unica eccezione è l’ipotesi di giganteschi trasferimenti di funzioni e connesso personale da un ente all’altro;

b) nella sua seconda parte, permetta di incrementare annualmente il fondo per incentivare l’impegno del personale impiegato in attività nuove, nell’ambito della programmazione.

Il testo della norma è quello sopra (rileggiamolo, non fa male). Ora, come lo interpreta l’Aran in uno dei suoi pareri?. Lo fa col celeberrimo parere RAL076(1), che per comodità mettiamo in nota. Un comma non breve come il 5 dell'articolo 15, per effetto dell’interpretazione si trasforma in un trattato; compaiono 7 condizioni per la sua applicazione, totalmente assenti, né desumibili in alcun modo dal testo del comma; viene indicata una procedura operativa che il Ccnl 1.4.1999 assolutamente non prevede.

Si tratta di un parere, per carità, ben articolato, profondo e anche persuasivo. Ma, appare francamente inverosimile che possa fondarsi l’idea di irregolarità da violazione di regole, come sempre statuiscono le ispezioni, per violazioni “da parere”, quando, per altro, più volte il parere citato in nota considera espressamente le indicazioni ivi contenute come “suggerimenti”. Come si può, allora, giungere in sede ispettiva al rilievo di irregolarità di una certa spesa a partire da un parere, che non è fonte di diritto né vincolante, il quale stesso si autoqualifica come “suggerimento”, per farlo assurgere a “regola” che, se violata, comporta danno erariale e tutte le conseguenze che abbiamo sintetizzato e si stanno manifestando a Roma?

Per entrare un attimo nel “merito” del parere, esso contiene un riferimento spessissimo preso a riferimento dalle ispezioni per rilevare irregolarità dei contratti. Si tratta di osservazioni di solo merito sui progetti di miglioramento elaborati dai comuni, spesso non ritenuti conformi al concetto espresso dall’Aran secondo il quale i risultati debbono essere “sfidanti”. Nessun disaccordo sul fatto che obiettivi e risultati debbano essere utili e significativi. Ma, qualcuno può, cortesemente, far capire cosa significa “sfidante”?

Spesso, a ragione, si rileva che obiettivi, piani di miglioramento, motivazioni per incrementi contrattuali sono troppo generici, pieni di iperboli e poveri di dati. Ma, non sembra che l’Aran e le ispezioni che si appiattiscono sui suoi pareri riescano a dare un contributo utile, se, per dare l’idea di quale dovrebbe essere il risultato da accettare ai fini di un incremento contrattuale decentrato utilizza aggettivi che si prestano ai più disparati significati. Cosa è sfidante? Per il Real Madrid è sfidante vincere la Champion’s League, ma per il Sassuolo restare in serie A. Esiste, allora, una categoria unica di obiettivo e risultato sfidante? E chi ha il potere di stabilirlo? Ma, se non vi è un parametro generale, astratto e applicabile in via preventiva agli strumenti di programmazione, come è possibile che in fase di controllo successivo si assuma che un obiettivo non è sfidante?

Molte volte, le ispezioni si basano su una vera e propria inversione dell’onere della prova: si utilizza un parere, dando per scontato che le sue conclusioni e le sue definizioni per aggettivi siano parametri oggettivi e predeterminati, per concludere che le motivazioni o le scelte operative siano irregolari, senza, però, avere cura di guardare al contesto, senza, per l’appunto, curarsi di sapere se si sta verificando l’azione del Real Madrid o quella del Sassuolo. Un’aleatorietà dei contenuti dei controlli che, francamente, non appare accettabile, in quanto i controlli dovrebbero essere qualcosa di estremamente cartesiano e deterministico.

Per esempio: negli anni del boom del dibattito sulla valutazione delle amministrazioni e dell’efficacia dei progetti di miglioramento, valse come esempio generale di efficacia e managerialità il Tribunale di Torino, portato ad esempio di ottima progettualità per obiettivi, evidentemente, “sfidanti”. Ma, a cosa mirava quel progetto di qualità tanto osannato? Al recupero dell’arretrato (si veda “Così l’efficienza entra in tribunale” in http://archivio.lavoce.info/articoli/-giustizia/pagina2589.html). Dunque, alla luce di tale celebrata esperienza, il recupero dei ritardi sarebbe obiettivo sfidante, da portare ad esempio. Il buon senso, ovviamente, farebbe pensare proprio di no: chi recupera l’arretrato è comunque in arretrato. Per paradosso, allora, un progetto di recupero dell’arretrato potrebbe essere considerato più “sfidante” di un progetto organizzativo volto a non far emergere arretrato, che, però, avrebbe un valore intrinseco estremamente più alto del primo. Dunque, di che parliamo? Come è possibile basare attività di controllo di regolarità dell’azione amministrativa su categorie astratte, generiche, esposte alla “doxa”, l’opinione personale, così combattuta dal pensiero occidentale da Socrate in poi, in modo, evidentemente in modo purtroppo inutile?

E’ bene sottolineare che da sempre uno dei problemi operativi più gravi è la “costituzione” dei fondi dei contratti aziendali. Ebbene, l’Aran, così prodiga di pareri e suggerimenti, solo di recente si è mossa a produrre un “kit”, un foglio di calcolo standard per aiutare le amministrazioni a costruire i fondi secondo le sue interpretazioni. Non era il caso di farlo molto, ma molto, ma molto prima?

La cosa paradossale del fenomeno è che non solo le amministrazioni locali sono state poco ligie e propense a rispettare le regole, ma che molte delle regole violate sono di fatto “costruite in laboratorio” ex post dal soggetto controllore, sulla base di pareri/suggerimenti. Questo, perché non solo sono poco chiare le discipline contrattuali e manca un controllo preventivo, ma anche per la ragione che non sono fissati e definiti in modo chiaro i limiti e le modalità del controllo ispettivo, che sfocia in valutazioni di opinione o condivisione o meno dell’agire dell’ente ispezionato e si fonda su pareri “creativi” che, per quanto sul piano astratto o teorico risultino accattivanti e condivisibili, non aderiscono per nulla alle norme. Ma, un controllo di regolarità dovrebbe basarsi, come rilevato all’inizio, sulla conformità/difformità dell’azione alla norma “positiva”, cioè posta, esistente, rinvenibile a priori, non interpretata o “suggerita” da soggetti privi, per altro, del potere di vincolare l’interpretazione sul piano giuridico.

Si potrebbero fare allo scopo tantissimi altri esempi, ma sarebbe, forse, sterile. Di fatto, è evidentissimo il cortocircuito che l’assenza di controlli preventivi esterni ha cagionato.

Non c’è da stupirsi, dunque, della voglia di “sanatoria”. Anche per ulteriori aspetti irrimediabilmente paradossali. Una delle contestazioni mosse dal Mef al comune di Roma riguarda il mancato adeguamento dei contratti collettivi decentrati alla riforma Brunetta, sicchè essi sarebbero decaduti col primo gennaio 2013 con la conseguenza della totale illegittimità dei pagamenti delle somme di salario accessorio connesse a tali somme.

L’ispezione, però, non tiene conto che tutti i comuni che hanno provato ad adeguare i contratti decentrati nel corso del lasso di tempo stabilito dall’articolo 65 della legge 150/2009, l’.1.1.2010 e il 31.12.202, si sono dovuti confrontare con una quantità oceanica di ordinanze o decreti o sentenze dei giudici del lavoro che hanno condannato per comportamento antisindacale moltissime delle amministrazioni che avessero tentato di applicare da subito la riforma, avvalendosi anche della circolare 7/2010 della Funzione pubblica. La quale è stata oggetto quasi di scherno in alcune decisioni dei giudici del lavoro, che hanno affermato espressamente di non ritenersi vincolati a tenere in conto le circolari, visto che i rapporti di lavoro sono regolati solo da leggi o contratti e che spetta comunque al giudice l’interpretazione e non ad una fonte interna quale la circolare. Di fatto, queste sentenze e l’interpretazione dei sindacati, secondo la quale l’adeguamento andava fatto solo dopo il 31.12.2012 e non prima, hanno spiazzato moltissimi enti, impedendo radicalmente di stipulare contratti di adeguamento prima dell’1.1.2013. Quegli enti che hanno provato a farlo, nell’impossibilità di ottenere il consenso sindacale, mediante l’atto unilaterale introdotto proprio dalla riforma Brunetta, si sono visti anche essi coinvolti in ricorsi per comportamento antisindacale, con esiti molto altalenanti nelle varie sentenze emesse dai giudici del lavoro.

Insomma, una confusione ed un caos devastanti. Incrementati anche dall’ulteriore circostanza che moltissime volte i contenuti dei contratti decentrati border line o in più marcata violazione di regole e vincoli, sono frutto del rapporto perverso politica-sindacati. Chiunque conosca le vicende delle contrattazioni, sa perfettamente che i sindacati se vedono opposti dalla delegazione tecnica di parte pubblica dei no a richieste in effetti non accogli bili (la più classica: progressioni orizzontali per tutti, senza selezione), usciti dalla sala della trattativa, entrano nella stanza del sindaco, per avviare una trattativa politica e non più sindacale, basata sul consenso politico. Dalla quale derivano, poi, contrasti complessissimi tra delegazione trattante di parte pubblica e politica, che talvolta finiscono bruscamente, talaltra con la sapiente immissione nella delegazione trattante di dirigenti “a contratto” cooptati dai politici e molto sensibili ai loro desiderata, in modo da accogliere del tutto o mediare sulle richieste dei sindacati, sì da giungere a contratti o clausole piuttosto fuori canoni e regole.

La situazione di Roma e delle altre grandi città ci impartisce alcune lezioni. Il caos è indotto spessissimo da norme e regole generiche, mal concepite e mal congegnate. I rapporti tra politica e dirigenza debbono permettere a questa di avere la più ampia possibile autonomia dalla prima, se la si vuole davvero forte e in grado di gestire le relazioni sindacali come datore privato, evitando spese non consentite. La presenza di soggetti come i “city manager”, che dovrebbero assicurare altissimi livelli di efficienza ed efficacia nella gestione, non serva assolutamente a nulla, non certo ad evitare il caos come a Roma, Firenze ed altri enti. I controlli successivi non possono, ovviamente, impedire il compimento di irregolarità, ma aprono pagine non meno caotiche e difficili da gestire. I tentativi di recupero delle somme sono complicatissimi, perché pretenderli indietro dai lavoratori, se già percepite, risulta sostanzialmente impossibile; vi è il problema della prescrizione e della totale assenza di sintonia tra giudici del lavoro e giudici contabili su medesimi temi.

Come rimediare, allora? Di fronte a questa situazione semplicemente pazzesca, occorrerebbe prendere atto definitivamente del totale fallimento della cosiddetta privatizzazione del rapporto di lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche. Lo strumento della contrattazione, che era stato dipinto negli anni tra il 1998 e il 2000, come la soluzione per un’amministrazione più efficiente, moderna, manageriale ed aperta ai bisogni del cittadino non ha sortito alcun risultato di questa natura, ma l’esatto opposto.

Allora, occorrerebbe passare dalla teoria ai fatti. Una vera riforma della PA dovrebbe:

a) passare dall’abolizione di fatto della contrattazione, dovuta al suo blocco risalente al d.l. 78/2010, alla decisione di ripubblicizzare il lavoro pubblico;

b) la questione del costo del lavoro pubblico, infatti, non può essere rimessa ad una contrattazione tra parti, perché ha troppa incidenza sulla politica economica nazionale, visto che rappresenta quasi il 20% della spesa pubblica totale;

c) infatti, i Governi sempre più spesso adottano norme che bypassano totalmente la contrattazione: ne sono esempio i “tetti” agli stipendi, decisi, come si vede, per legge e non, come pure prevederebbe il d.lgs 165/2001, attraverso i contratti;

d) formalizzare una relazione con i sindacati di sola consultazione, anche in questo caso rendendo “legale” un comportamento che dal 2009 ad oggi è divenuto sempre più esplicito ed evidente sul piano “fattuale”;

e) fissare al livello centrale le regole per l’incentivazione, con norme chiare e valide per tutti;

f) eliminare la contrattazione decentrata e trasformare la gestione degli incentivi in una funzione attuativa delle prescrizioni generali, sulla base di piattaforme informatiche e kit, che consentano anche il controllo preventivo sulla correttezza della gestione.

Oppure, se si ritengano troppo drastiche queste proposte (molte delle quali, nella realtà, renderebbero “legge” ciò che nei fatti è ormai “prassi”), mantenere la contrattualizzazione del rapporto di lavoro, ma:

a) imponendo ai contratti di stabilire regole procedimentali dettagliate e precise, fornendo legislativamente all’Aran (che però pare si voglia abolire) o ad altro soggetto il potere di emettere interpretazioni autentiche vincolanti sulle questioni interpretative;

b) fissando modi vincolanti di costituzione delle risorse, attraverso una piattaforma informatica messa a disposizione da Aran o Mef, che controlli la correttezza degli importi;

c) attivando un organo di controllo preventivo sulla regolarità dei contratti decentrati e delle loro clausole, impedendone la sottoscrizione, sul modello del procedimento di contrattazione nazionale;

d) chiarendo una volta e per sempre l’ultrattività: se un contratto dell’anno precedente non sia sostituito da un nuovo contratto, si applica quello precedente;

e) fissando criteri univoci e drastici per stabilire come quantificare le risorse “variabili”; per esempio, indicando che esse non possano superare una certa percentuale delle stabili o della spesa di personale e che, piuttosto di essere connesse ad attività “nuove”, il che è evidentemente poco credibile, sia riferito solo a progetti di incremento della produzione effettivamente misurabili: produzione di un numero maggiore di controlli sulle Scia, per esempio.

A patto di giungere a trasformazioni come queste o diverse e migliori, una “sanatoria” sarebbe a questo punto auspicabile, ma non nei termini dell’articolo 4 del decreto “salva-Roma”, che sconta problemi interpretativi e di applicazione non minori della congerie di norme e brevemente qui analizzata.

La sanatoria dovrebbe essere semplice e di immediata applicazione e basata su questi elementi:

1. la fissazione per legge dell’importo delle risorse decentrate di parte stabile, parametrato ad una percentuale della spesa corrente o della spesa di personale, nonché alla dimensione e tipologia degli enti in modo che:

a. qualora l’importo delle risorse indicato per legge risulti superiore a quello effettivamente presente negli enti, sia considerato corretto quello esistente negli enti;

b. laddove, al contrario, il livello delle risorse decentrate di parte stabile dell’ente risulti superiore allo “standard” nazionale, occorra ridurlo, anche intervenendo su istituti fin qui considerati “fissi”, come la progressione orizzontale o la retribuzione di posizione di quadri e dirigenti;

2. la già ricordata possibilità di ancorare gli incrementi della parte variabile ad una certa percentuale massima della spesa corrente o di personale o della parte stabile del fondo, al ricorrere di ulteriori requisiti:

a. rispetto del patto di stabilità;

b. assenza di qualsiasi parametro di deficitarietà dell’ente;

c. necessario agganciamento ad obiettivi di miglioramento della produttiva collettiva, misurabili in quantità (con esclusione di indicatori come relazioni finali);

3. divieto assoluto per tre anni,

a. di effettuare assunzioni a tempo indeterminato, ad eccezione dei disabili;

b. di attivare consulenze esterne;

c. di assumere dirigenti a contratto;

4. chiusura della procedura ispettiva attraverso un “ravvedimento operoso” dell’ente, comportante una riduzione della spesa corrente riferita esclusivamente alle spese per il funzionamento (organi di governo, staff, servizi interni come copisteria, luce, gas), per un periodo di tre anni;

5. procedimento di responsabilità amministrativa estremamente semplificato, volto ad applicare una sanzione contabile a coloro che siano stati riconosciuti responsabili attivi della stipulazione delle clausole contrattuali irregolari, pari ad una certa percentuale delle indennità, se amministratori, o dello stipendio (compresa la parte variabile) se dipendenti.

6. azzeramento dei fondi e loro nuova costituzione, secondo nuove regole normative.

Se non si adottano decisioni su questa tipologia di linea, sarà difficile uscire dalla situazione di confusione creata certo da gestioni poco attente, ma dovuta anche a regole poco chiare e a discutibili mezzi di controllo solo successivo.

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(1) Quali criteri potrebbero essere seguiti per la corretta applicazione della disciplina dell'art. 15, comma 5, del CCNL dell'1/4/1999, con il conseguente incremento delle risorse decentrate variabili in relazione all'accertato incremento quantitativo e qualitativo dei servizi istituzionali?

Il comportamento degli enti nella specifica materia oggetto del quesito, risente senza dubbio delle condizioni organizzative locali, dai contenuti del regolamento degli uffici e servizi e dalla complessità e dal numero delle strutture.

E' evidente, infatti, che non sono ipotizzabili criteri di identico contenuto in enti di ridotte dimensioni ed in enti metropolitani.

I nostri suggerimenti, quindi, sono rivolti a favorire una maggiore sensibilizzazione dei datori di lavoro locali su questa specifica problematica, cui è certamente collegato un diffuso interesse di tutte le parti coinvolte (classe di governo, dirigenza, sindacato, personale) per la possibilità di incrementare le risorse decentrate variabili di cui all'art. 31, comma 3 del CCNL 22.1.2004.

CONDIZIONI PER L'ATTUAZIONE DELLA DISCIPLINA

Ricordiamo che l'incremento delle risorse può realizzarsi legittimamente, solo qualora siano verificate in modo rigoroso (e siano quindi oggettivamente documentate) le condizioni poste dalla citata disciplina. La sussistenza di tali condizioni costituisce, tra l'altro, uno degli aspetti qualificanti del controllo sui contratti decentrati da parte dei collegi dei revisori.

Prima condizione: più risorse per il fondo in cambio di maggiori servizi

Attraverso la disposizione dell'art. 15, comma 5, gli enti possono "investire sull'organizzazione".

Come in ogni investimento, deve esserci un "ritorno" delle risorse investite. Nel caso specifico, questo "ritorno dell'investimento" è un innalzamento – oggettivo e documentato – della qualità o quantità dei servizi prestati dall'ente, che deve tradursi in un beneficio per l'utenza esterna o interna.

Occorre, in altre parole, che l'investimento sull'organizzazione sia realizzato in funzione di ("per incentivare") un miglioramento quali-quantitativo dei servizi, concreto, tangibile e verificabile (più soldi in cambio di maggiori servizi e utilità per l'utenza).

Prima di pensare a incrementi del fondo, è necessario pertanto identificare i servizi che l'ente pensa di poter migliorare, attraverso la leva incentivante delle "maggiori risorse decentrate", nonché i percorsi e le misure organizzative attraverso le quali intervenire.

Seconda condizione: non generici miglioramenti dei servizi, ma concreti risultati.

L'innalzamento quali-quantitativo dei servizi deve essere tangibile e concreto.

Non basta dire, ad esempio, che l'ente intende "migliorare un certo servizio" o "migliorare le relazioni con l'utenza" oppure che è "aumentata l'attività o la domanda da parte dell'utenza". Occorre anche dire, concretamente, quale fatto "verificabile e chiaramente percepibile dall'utenza di riferimento" è il segno tangibile del miglioramento quali-quantitativo del servizio.

Ad esempio:

§ minori tempi di attesa per una prestazione o per la conclusione di un procedimento;

arricchimento del servizio, con la previsione di ulteriori facilitazioni e utilità per l'utente (ad esempio: oltre al servizio tradizionale un nuovo servizio per rispondere alle esigenze di utenti portatori di bisogni particolari);

§ nuovi servizi, che prima non venivano prestati, per servire nuovi utenti o per dare risposta a nuovi bisogni di utenti già serviti;

§ aumento delle prestazioni erogate (ad esempio: più ore di vigilanza sul territorio, più ore di apertura al pubblico, più utenti serviti);

§ impatto su fenomeni dell'ambiente esterno che influenzano la qualità della vita (ad esempio: grazie all'intensificazione dei controlli, riduzione di comportamenti illegali; grazie al miglioramento del servizio, riduzione di fenomeni di marginalità sociale).

Terza condizione: risultati verificabili attraverso standard, indicatori e/o attraverso i giudizi espressi dall'utenza.

Per poter dire – a consuntivo – che c'è stato, oggettivamente, un innalzamento quali-quantitativo del servizio, è necessario poter disporre di adeguati sistemi di verifica e controllo.

Innanzitutto, occorre definire uno standard di miglioramento. Lo standard è il termine di paragone che consente di apprezzare la bontà di un risultato. Ad esempio: per definire lo standard di una riduzione del 10% dei tempi di attesa di una prestazione, occorre aver valutato a monte i fabbisogni espressi dall'utenza e le concrete possibilità di miglioramento del servizio.

Lo standard viene definito a partire da:

§ risultati di partenza, desumibili dal consuntivo dell'anno precedente;

§ risultati ottenuti da altri enti ("benchmarking");

§ bisogni e domande a cui occorre dare risposta;

§ margini di miglioramento possibili, tenendo conto delle condizioni strutturali ("organizzative, tecniche e finanziarie") in cui l'ente opera.

In secondo luogo, è necessario misurare, attraverso indicatori, il miglioramento realizzato. Le misure a consuntivo vanno quindi "confrontate" con lo standard, definito a monte.

Per misurare il miglioramento realizzato, l'ente può anche avvalersi di sistemi di rilevazione della qualità percepita dagli utenti (ad esempio: questionari di gradimento, interviste, sondaggi ecc.).

Quarta condizione: risultati difficili che possono essere conseguiti attraverso un ruolo attivo e determinante del personale interno.

Non tutti i risultati dell'ente possono dare luogo all'incremento delle risorse decentrate di cui all'art. 15, comma 5.

Devono essere anzitutto risultati "sfidanti", importanti, ad alta visibilità esterna o interna.

L'ottenimento di tali risultati non deve essere scontato, ma deve presentare apprezzabili margini di incertezza. Se i risultati fossero scontati, verrebbe meno l'esigenza di incentivare, con ulteriori risorse, il loro conseguimento.

Secondo, il personale interno deve avere un ruolo importante nel loro conseguimento.

Devono cioè essere "risultati ad alta intensità di lavoro", che si possono ottenere grazie ad un maggiore impegno delle persone e a maggiore disponibilità a farsi carico di problemi (per esempio, attraverso turni di lavoro più disagiati). Viceversa, risultati ottenuti senza un apporto rilevante del personale interno già in servizio (per esempio: con il ricorso a società esterne, a consulenze, a nuove assunzioni ovvero con il prevalente concorso di nuova strumentazione tecnica) non rientrano certamente tra quelli incentivabili con ulteriori risorse.

Quinta condizione: risorse quantificate secondo criteri trasparenti e ragionevoli, analiticamente illustrati nella relazione da allegare al contratto decentrato.

La quantificazione delle risorse va fatta con criteri trasparenti (cioè esplicitati nella relazione tecnico-finanziaria) e ragionevoli (cioè basati su un percorso logico e sufficientemente argomentato).

E' necessario, innanzitutto, che le somme messe a disposizione siano correlate al grado di rilevanza ed importanza dei risultati attesi, nonché all'impegno aggiuntivo richiesto alle persone, calcolando, se possibile, il valore di tali prestazioni aggiuntive (ad esempio, il costo di una nuova organizzazione per turni di lavoro).

E' ipotizzabile anche che le misure dell'incremento siano variabili in funzione dell'entità dei risultati ottenuti: si potrebbero, ad esempio, graduare le risorse in relazione alla percentuale di conseguimento dell'obiettivo (risorse x per risultati effettivi pari allo standard, risorse x + 10% per risultati effettivi pari allo standard + 10%, risorse x + 20% per risultati effettivi pari allo standard + 20%; risorse zero per risultati inferiori ad una certa soglia predeterminata).

Infine, gli incrementi devono essere di entità "ragionevole", non tali, cioé, da determinare aumenti percentuali eccessivi del fondo o vistose variazioni in aumento delle retribuzioni accessorie medie pro-capite.

Ricordiamo che il contratto decentrato non ha titolo per stabilire l'incremento delle risorse variabili, la cui disponibilità deve essere decisa in sede di bilancio di previsione, sulla base del progetto di miglioramento dei servizi. Nella relazione tecnico finanziaria, da allegare al contratto decentrato, deve essere, invece, chiaramente illustrato, nell'ambito della specificazione e giustificazione di tutte le risorse stabili e variabili, il percorso di definizione degli obiettivi di miglioramento dei servizi e i criteri seguiti per la quantificazione delle specifiche risorse variabili allocate in bilancio, dando atto del rispetto delle prescrizioni dell'art. 15, comma 5, del ccnl 1/4/1999.

Sesta condizione: risorse rese disponibili solo a consuntivo, dopo aver accertato i risultati.

E' evidente che se le risorse sono strettamente correlate a risultati ipotizzati per il futuro, non è possibile renderle disponibili prima di aver accertato l'effettivo conseguimento degli stessi. E' necessario pertanto che le risorse ex art. 15, comma 5 siano sottoposte a condizione (in tal senso, occorre prevedere una specifica clausola nel contratto decentrato). La condizione consiste precisamente nel raggiungimento degli obiettivi prefissati, verificati e certificati dai servizi di controllo interno. La effettiva erogazione, pertanto, potrà avvenire solo a consuntivo e nel rispetto delle modalità e dei criteri definiti nel contratto decentrato.

Settima condizione: risorse previste nel bilancio annuale e nel PEG.

La somma che l'ente intende destinare ai sensi dell'art. 15, comma 5, del ccnl 1.4.1999 alla incentivazione del personale deve essere prevista nel bilancio annuale di previsione e, quindi, approvata anche dall'organo competente; si tratta, infatti, di nuovi e maggiori oneri, che non potrebbero essere in alcun modo impegnati ed erogati, senza la legittimazione del bilancio.

RIEPILOGO DEI PASSAGGI PER L'ATTUAZIONE DELLA DISCIPLINA

Per poter applicare correttamente la disciplina di cui all'art. 15, comma 5, suggeriamo, in conclusione, un semplice percorso, che prevede i passaggi di seguito indicati

Primo: individuare i servizi (e prima ancora: i bisogni degli utenti a cui i servizi intendono dare risposta) su cui si vuole intervenire per realizzare miglioramenti quali-quantitativi con le caratteristiche più sopra indicate.

Secondo: definire il progetto di miglioramento dei servizi, indicando gli obiettivi da conseguire, gli standard di risultato, i tempi di realizzazione, i sistemi di verifica a consuntivo (è auspicabile che si tratti di obiettivi indicati anche nel PEG o in altro analogo documento di programmazione della gestione).

Terzo: quantificare le ulteriori risorse finanziare variabili da portare ad incremento del fondo ai sensi dell'art. 15, comma 5 e definirne lo stanziamento nel bilancio e nel PEG; la quantificazione spetta esclusivamente all'ente e non deve essere oggetto di contrattazione (anche se, naturalmente, può "condizionare" il negoziato poiché si tratta pur sempre di una concessione fatta al Sindacato in cambio della quale l'ente dovrebbe ottenere a sua volta concessioni su altri fronti).

Quarto: stabilire nel contratto decentrato le condizioni alle quali le risorse ex art. 15, comma 5 possono essere rese disponibili; illustrare analiticamente nella relazione, allegata al contratto decentrato, i criteri seguiti per la quantificazione delle risorse.

Quinto: verifica e certificazione, a consuntivo, da parte dei servizi di controllo interno. dei livelli di risultato in rapporto agli standard predefiniti.

Sesto: eventuale erogazione delle somme, totale o parziale, in relazione ai livelli di risultato certificati dai servizi di controllo interno, secondo i criteri stabili nel contratto decentrato.

SUGGERIMENTI CONCLUSIVI

Da ultimo ci sembra importante precisare, che le risorse aggiuntive "variabili" di cui all'art. 15, comma 5 non possono essere automaticamente confermate e/o stabilizzate negli anni successivi, sulla base della semplicistica affermazione che l'ente raggiunge stabilmente e, in via ordinaria, un più elevato livello di servizi. In tal modo, infatti, si verificherebbe una (non consentita) trasformazione delle risorse da variabili a stabili, in contrasto con la disciplina del CCNL.

E' necessario, invece, che di anno in anno siano attentamente rivalutate le condizioni che hanno giustificato l'investimento sull'organizzazione. Ciò comporta che sia riformulato un nuovo e più aggiornato progetto di miglioramento dei servizi, che ridefinisca, per l'esercizio di riferimento, obiettivi importanti, credibili e sfidanti con le caratteristiche più sopra ricordate. Inoltre, è necessario che i risultati siano sempre verificati e certificati a consuntivo, sulla base di predeterminati standard.

In costanza di obiettivi da un anno al successivo - soprattutto quando emerge, sulla base dei risultati degli anni precedenti, che i livelli di servizio standard sono sistematicamente raggiunti, senza particolari difficoltà o margini di incertezza - è opportuno che gli stessi standard siano sottoposti a revisione e rivisti al rialzo. In sostanza, riteniamo che il ricorso all'art. 15, comma 5 (e a maggior ragione la riconferma delle risorse) debba avvenire in un contesto di obiettivi particolarmente difficili, sfidanti e impegnativi.

Un'ultima precisazione concerne gli enti di ridotte dimensioni. E' evidente che questi ultimi sono chiamati a dare attuazione agli adempimenti richiamati, in forme e secondo modalità opportunamente (e giustamente) semplificate. Anche il progetto di miglioramento dei servizi o gli stessi sistemi di controllo adottati a consuntivo, potranno quindi avere caratteristiche di maggiore semplicità (per esempio, dal punto di vista procedurale) rispetto agli enti di maggiori dimensioni.

2 commenti:

  1. Buonasera. I pareri dell’ARAN sono stati sempre chiari ed univoci. Quindi non credo si possa invocare la non chiarezza delle disposizioni. Lo afferma nel suo scritto quando precisa che gli ispettori del Mef si basano proprio su quei pareri. Lo scostamento da quei pareri, inoltre, non è motivato dai Comuni che non li hanno osservati. Se ne sono semplicemente fregati. Non possono essere esimenti, inoltre, nè la mancanza di controlli nè tantomeno gli improvvidi comportamenti “politici” di tante amministrazioni dedite al clientelismo. Ora invocare il solito ” chi ha avuto ha avuto chi ha dato ha dato, scurdammcc o’ passat sim italian paisà” mi sembra un invito a continuare nel precipizio.

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  2. L'Aran potrà essere chiarissima, ma non dispone di un potere nè di interpretazione autentica, nè di innovazione dei contenuti del Ccnl.
    L'articolo, poi, tutto dice tranne scordiamoci il passato. Basta leggere.

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