mercoledì 18 giugno 2014

#riforma #PA Il Medio evo del "signore" politico: l'autodafè supera la laurea

Nella puntata del 17 giugno scorso, il sottosegretario alla Funzione pubblica Rughetti, alla domanda della Gruber circa le obiezioni mosse da alcuni sull’opportunità di inserire nella riforma della PA la norma che consentirebbe ai sindaci di nominare nei propri staff con stipendi da laureati anche persone non laureate, non ha fatto una piega.

Né ha negato l’intento governativo (anche se l’indomani Il Fatto Quotidiano ha dato conto dell’intenzione del Governo di eliminare quella norma), né ha fornito argomentazioni tecniche o giuridiche o, quanto meno, di opportunità di simile disposizione. Si è semplicemente limitato a constatare che, in fondo, anche un non laureato può accedere, se la politica lo nomina, perfino a posti dirigenziali. E ha citato l’esempio del comune di Napoli, ove ha lavorato, ricordava, un direttore generale non laureato, operando, a suo dire, molto bene.

Nessuno pare si sia minimamente indignato per il messaggio odiosamente tracotante e gli effetti devastanti di un simile modo di ragionare.

Il sottosegretario Rughetti, che è stato per anni direttore generale dell’Anci, associazione nazionale dei comuni e dovrebbe conoscere piuttosto bene Costituzione e leggi, sa perfettamente che l’amministrazione pubblica non è, contrariamente alla vulgata, nemmeno lontanamente paragonabile ad un’azienda privata. Nella quale il proprietario si organizza come meglio ritiene ed è perfettamente libero di assegnare incarichi di vertice, come amministratore delegato o direttore generale, anche a persone non laureate, purchè in grado di conseguire gli obiettivi aziendali.

La pubblica amministrazione, i comuni, non sono proprietà dei politici o dei sindaci. La Costituzione e le norme che regolano l’accesso agli impieghi ed il rapporto di lavoro impongono, in modo diametralmente opposto al sistema privato, che per svolgere determinati incarichi, funzionario o dirigente, occorra la laurea come requisito obbligatorio, per la semplice ragione che, essendo la PA di tutti, si deve pretendere che vengano selezionati, per le attività da svolgere, i migliori possibili, sia in base a precisi requisiti professionali, sia per effetto di concorsi.

Rughetti, invece, ha rappresentato una visione che, lungi dall’essere alla base di una riforma che cambia verso in modo moderno ed efficiente, è quanto di più medievale e retrivo possa essere: al di là dei meriti, del percorso di studi e degli obblighi selettivi, è il “signore” feudale, cioè il politico di turno, che di volta in volta può creare senatore qualsiasi cavallo, o attribuire a non laureati incarichi, e connessi trattamenti economici, che dovrebbero spettare solo ai laureati.

E’ un messaggio devastante, in un Paese nel quale i laureati sono pochissimi, molti meno di quelli dei Paesi competitori, e nel quale hanno una difficoltà enorme nel trovare lavoro o, comunque, un lavoro adeguato rispetto al percorso di studi compiuto ed agli sforzi ed ai costi sostenuti per la propria formazione.

Nessuno, come detto, pare essersi indignato per l’affermazione, tra il sufficiente e il tracotante, di un sottosegretario della Repubblica che considera normale che un direttore generale di un comune possa essere scelto da un sindaco, pur non essendo laureato, in palese violazione delle norme che impongono in capo ai dirigenti pubblici il possesso del titolo di studio della laurea.

Nessuno ha fatto rilevare che l’esempio fatto, il direttore generale di Napoli indicato come molto bravo, probabilmente non era nemmeno molto calzante, considerando le tristemente arcinote estreme difficoltà amministrative che caratterizzano il comune di Napoli, rispetto alle quali l’operato del direttore generale evidentemente non ha apprestato alcun sufficiente rimedio.

Nessuno si è indignato, probabilmente perché la riforma della PA, fatta passare come inno alla modernità e all’efficienza, viene vissuta da molti con il più becero spirito italiano: cioè, l’occasione per ottenere posti ben remunerati e di potere non come risultato e frutto di sacrifici e studi, di esami e concorsi, bensì come “premio” per la fedeltà alla cordata politica ed al leader, prescindendo da investimenti nella formazione, puntando tutto sull’atto di vassallaggio. Con buona pace della meritocrazia e della riforma che “deve partire dalle persone” e con tanti saluti ai tanti figli dell’Italia che si sacrificano negli studi, ma si vedono superati per un “diritto divino” nei ruoli ai quali potrebbero e dovrebbero ambire da chi, senza titoli, ha il solo merito di saper fiutare il vento della politica.

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