sabato 21 giugno 2014

#RiformaPA la #dirigenza di proprietà della politica

La “rivoluzionaria” riforma della pubblica amministrazione, approvata (?) lo scorso 13 giugno dal Consiglio dei Ministri, non è ancora nota, se non per indiscrezioni e stralci.

Il fatto è che il testo della riforma risulterà noto all’inizio della penultima settimana del mese di giugno, a circa una decina di giorni dalla sua presentazione in Consiglio dei Ministri.

Ma, in effetti c’è da chiedersi cosa sia stato presentato nella seduta del Consiglio dei Ministri, quale testo, con quali contenuti.

Sui giornali si dà, ormai, per scontato che un testo di decreto legge possa essere esaminato dal Consiglio dei Ministri ed ivi approvato, per essere, tuttavia, “limato” nei giorni successivi dai Ministeri e, anche, rivisto a seguito della presentazione al Presidente della Repubblica, come se, sostanzialmente, il Consiglio dei Ministri si limiti ad approvare i “titoli” della norma, agendo, nei fatti, alla cieca.

Certo, è un po’ strano che il Presidente del Consiglio, molto insistente nella sua prima campagna per le primarie del Pd, persa, con il Freedom Of Information Act, la trasparenza, l’efficienza, la comunicazione, permetta che una norma così importante come quella che “rivoluziona” la pubblica amministrazione, sia approvata dai componenti del Governo senza che essi stessi ne conoscano l’esatto contenuto.

In effetti, su Il Fatto Quotidiano del 20 giugno, Stefano Feltri nell’articolo titolato “Renzi&Madia = Caccia al decreto: la riforma della Madia non si trova più” scrive: “Chi decide cosa c'è scritto in un decreto legge? "Il presidente del Consiglio e i ministri", risponde l'ingenuo. Sbagliato. In teoria c'è un pre-Consiglio dei ministri in cui si affrontano i dettagli tecnici e poi si lascia ai ministri il compito di prendere le decisioni politiche, scegliendo tra opzioni coerenti e definite. Ma nell'epoca di Matteo Renzi i pre-Consigli o non si fanno o discutono cose diverse da quelle che poi entrano in Consiglio. Venerdì sera i dirigenti dei vari ministeri coinvolti hanno cercato di parlare con la responsabile dell'ufficio legislativo, Antonella Manzione, ma lei era già tornata a Firenze, dove è stata capo dei vigili urbani (e per quello Renzi l'ha voluta). Niente, non si sa cosa è stato approvato. Nel caos di questi mesi, ogni ministero manda dei pezzi di provvedimenti all'ufficio legislativo di Palazzo Chigi che poi li assembla e riformula come crede, nessuno - neppure Renzi o il suo braccio destro Graziano Delrio - ha il pieno controllo politico della scrittura delle norme, per la gioia dei lobbisti e professionisti dei commi che hanno maggiore facilità a influenzare qualche dirigente pubblico che un ministro o un premier”.

Insomma, se queste notizie fossero vere, l’impressione che i Ministri non conoscano la riforma, che francamente ha destato la stessa titolare di Palazzo Vidoni Marianna Madia, sarebbe fondata su una prassi volta a considerare l’operato dell’amministrazione pubblica come un qualcosa di “proprio” o “proprietario”.

Le disposizioni di legge, in altre parole, ma, c’è da presumere, la gestione amministrativa, le decisioni e gli atti, sembrano il frutto di un processo decisionale autoreferenziale, nell’ambito del quale solo pochi “adepti” possono intervenire, agendo, comunque, in modo da isolare il centro dall’esterno.

Dunque, si dà per scontato che un Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, responsabile della verbalizzazione delle sedute consiliari, verbalizzi che il Consiglio ha approvato un decreto legge, del quale però non si conosce il contenuto. E si ammette che un capo ufficio legislativo tratti come “affare proprio” le iniziative di legge.

Ora, il Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio è un soggetto politico. Che non si preoccupi troppo della cura degli aspetti amministrativi “formali” (che noia la verbalizzazione di atti completi e trasparenti…) può anche essere comprensibile, considerando che i soggetti politici ritengono sempre dominante la “discrezionalità” politica su ogni aspetto.

Meno giustificabile è che a trattare questioni importanti come i testi legislativi quasi fossero patrimonio “personale” proprio e del referente politico sia un dirigente scelto ad personam dal Presidente del Consiglio.

Per quanto la nomina dell’attuale Capo dell’ufficio legislativo sia avvenuta intuitu personae (come intuitu personae era stato l’incarico di direttore generale assegnatole, lei capo della Polizia Municipale, come direttore generale, ma almeno si tratta di un dirigente di ruolo) e, dunque, sia palese il rapporto fiduciario tra Presidente del Consiglio e il capo dell’ufficio legislativo da egli scelto, resta pur sempre vigente quanto prevede l’articolo 98 della così noiosa Costituzione: “i pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione”.

I poco moderni e conservatori padri costituenti avevano un’idea della dirigenza pubblica e del modo di gestire l’amministrazione parecchio distante, sempre che le notizie di stampa riportate siano reali, da quelle che il quadro sin qui descritto lascia intravedere.

La dirigenza non ha lo scopo di costruire una sorta di cerchio magico ad uso esclusivo del titolare di un potere, a discapito degli stessi principali collaboratori (i Ministri), degli uffici che dovrebbero collaborare, della linearità dell’azione amministrativa, della trasparenza.

Si dirà che l’importante è raggiungere l’obiettivo. In fondo, quando il decreto legge sarà andato in Gazzetta Ufficiale, tutto bene, l’iter, anche se tortuoso, comunque sarà concluso e la trasparenza delle decisioni assicurata.

Il fatto è che se qualsiasi comune o società o condominio deliberasse in questo modo, senza che il testo della deliberazione sia conosciuto ai collegi competenti e fosse, invece, fissato nei suoi contenuti a proprio piacimento dal titolare del potere verbalizzante o di assemblaggio, sicchè il suo contenuto definitivo fosse determinato e noto solo alla fine, qualche problema o indaginetta per falso ideologico (come minimo) sorgerebbe.

Immaginiamo se simile modo di agire fosse adottato da un segretario comunale, che consentisse che i contenuti delle proposte di deliberazione delle giunte e dei consigli fossero noti solo a se stesso e al sindaco e occultati a tutti, fino alla pubblicazione finale. Il risultato sarà anche stato raggiunto, ma il modo di procedere è evidentemente totalmente scorretto, illegittimo e proprio di un sistema “proprietario” di intendere l’amministrazione. Esattamente quello che l’articolo 98, comma 1, della Costituzione vorrebbe evitare.

Non pare, allora, un caso che proprio sui segretari comunali la “rivoluzionaria” riforma della PA abbia concentrato la propria attenzione. Prima con la proposta di abolizione nei famosi 44 punti della lettera ai dipendenti. Poi, sempre che le bozze circolate sui testi della riforma siano corretti, attraverso un modo meno impattante: non l’abolizione dei segretari, ma la loro riconduzione a dirigenti locali come gli altri, nell’ambito del ruolo unico.

Di fatto, un’abolizione vera e propria: infatti, si perderebbe l’accezione del segretario comunale come “status” figura infungibile, che si trasformerebbe in “incarico dirigenziale”, come tale assegnabile a qualsiasi dirigente locale, esattamente allo stesso modo col quale il ruolo di capo dell’ufficio legislativo di Palazzo Chigi è stato affidato ad un comandante di polizia municipale.

E’ chiaro che in tal modo il potere della politica di crearsi una dirigenza “propria” aumenta a dismisura. E per propria si intende una dirigenza incaricata intuitu personae, in relazione, evidentemente, alla capacità di assicurare piena fedeltà, più che gestione rispettosa delle regole e dell’interesse non di parte, ma della Nazione.

Tanto più se, poi, il bacino di scelta dei politici, come proprio nel caso degli enti locali pare avverrà, si estenda all’aberrante percentuale di selezione diretta di dirigenti esterni del 30% (percentuale più volte considerata eccessiva e, dunque, incostituzionale dalla Consulta, in merito a leggi regionali tendenti a largheggiare con la dirigenza fiduciaria).

E, ancor più, se nel bacino si fanno rientrare anche soggetti che non sono nemmeno mai stati selezionati per concorso, ma che beneficeranno della possibilità di divenire dirigenti di ruolo, pur non essendosi mai presi briga e disturbo di pagare una tassa concorsi, inviare un’istanza, fare la trasferta e presentarsi alle prove selettive.

Si tratta dei direttori generali che, alla data del 21 giugno, sembra siano destinati a transitare nel ruolo unico della dirigenza locale, purchè abbiano svolto tale funzione nel quinquennio antecedente alla vigenza dell’istituzione del ruolo unico. La crema, dunque, della dirigenza “fiduciaria” e “proprietaria”, quella selezionata proprio per la vicinanza politica, tanto è vero che molte volte l’incarico di direttore generale è stato assegnato per svolgere la funzione di “assessore aggiunto” e destinatari ne sono stati soggetti notoriamente e dichiaratamente parti in causa dell’attività politica. In totale contrasto con gli articoli 97 e 98 della Costituzione, che in maniera conservatrice, antirivoluzionaria e testardamente contraria alle innovazioni nella PA insistono col pretendere selezioni concorsuali per i dipendenti pubblici e loro posizione di terzietà dalla politica.

Tra l’altro, appare abbastanza curioso e strano che si preveda per soggetti, i direttori generali, mai passati attraverso un concorso pubblico, la loro immissione nel ruolo unico, cosa che, corrisponde nei fatti, ad una loro assunzione a tempo indeterminato.

Per quanto, infatti, intento della riforma sia far licenziare i dirigenti privi di incarico, si prevede che i dirigenti inseriti nei ruoli unici (dello Stato e degli enti locali) siano a tutti gli effetti dipendenti a tempo indeterminato, a condizione di ottenere e mantenere incarichi dirigenziali.

Infatti, nel futuro, per accedere ai ruoli unici saranno previsti concorsi annuali, oppure corsi-concorsi appositamente svolti. Nel frattempo, i dirigenti di ruolo, quelli cioè assunti per concorso, saranno inseriti nei ruoli.

L’ingresso dei direttori generali esterni negli enti locali appare un chiaro e odioso privilegio per costoro, oltre ad un’evidente disparità di trattamento. Infatti, si assicura un posto a tempo indeterminato a chi è stato chiamato espressamente per la sola durata del mandato del sindaco e del presidente della provincia, senza alcun intento né possibilità che la funzione di direttore generale possa considerarsi a tempo indeterminato, proprio perché esclusivamente connessa al mandato politico. In questo modo, si consente a chi non ha mai concorso per i ruoli pubblici, di competere con i dirigenti di ruolo nell’assegnazione degli incarichi, aumentando dunque le possibilità che i dirigenti di ruolo ne restino privi, con penalizzazioni economiche ed il rischio di licenziamento. Ancora, i direttori generali verrebbero di fatto stabilizzati ex lege, senza nemmeno prendersi l’ulteriore disturbo della partecipazione ad un concorso pubblico con riserva di posti o interamente riservato (a seconda che si utilizzi l’articolo 35 del d.lgs 165/2001 o l’articolo 4 del d.l. 101/2013), come, invece, deve fare qualsiasi altro dipendente pubblico precario.

Un non senso, una chiarissima disparità, figlia evidentemente dell’intento di costituire una dirigenza “di parte” e non imparziale né separata dalla politica, in spregio alla Costituzione e finalizzata ad un’accezione proprietaria della dirigenza, intesa come proprietà della maggioranza al potere.

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