La cronaca dei giorni scorsi ci riporta la notizia dell’arresto dell’ex presidente dell’Autorità per la vigilanza su contratti e gli appalti pubblici dovuta a corruzione nelle procedure di vigilanza sulle Soa e dell’indagine in corso per abuso d’ufficio nei confronti di un altro ex presidente della medesima authority.
Sì, stiamo parlando esattamente dell’Avcp: quella del sistema demenziale dell’Avcpass che inchioderà le procedure per decenni e delle mille delibere e pareri che alterano lo scibile umano sulla gestione degli appalti; quella i cui costi vengono pagati dalle imprese appaltatrici e (in minor parte) con il “contributo” per le gare d’appalto. Quella del Simog, del Cig. Quella che avrebbe dovuto creare un chiaro sistema di qualificazione, sanzionare le imprese non in regola, dare indicazioni sulla semplificazione delle procedure.
Non aggiungiamo “quella che avrebbe dovuto vigilare sulla corruzione” perché non è mai stato uno specifico compito dell’Authority.
L’Avcp, ora, non c’è più, assorbita dall’Autorità nazionale anticorruzione, per effetto del d.l. 90/2014.
I rovesci giudiziari (sui quali, comunque, non ci si pronuncia essendo tutto alle prime fasi) degli ex vertici dell’Authority sembrano quasi una specie di spot sulla lungimiranza del Governo, che l’ha disciolta pochi giorni prima delle decisioni della magistratura.
Eppure, la cosa inquieta molto, moltissimo. Fa comunque specie vedere indagati per corruzione o abuso d’ufficio, due tra i più odiosi reati contro la pubblica amministrazione, i vertici di un soggetto che avrebbe avuto comunque il compito di indicare la retta strada per amministrare il complesso e difficilissimo settore degli appalti.
Moltissime domande, a questo punto si aprono. Quella sull’effettiva utilità delle autorità è in piedi da lunghissimi anni. E’ noto che dalle authority non sia derivato nessun beneficio su concorrenza, privacy, servizi pubblici, tariffe, appalti, ma molte poltrone, tantissimi costi, convegni e, soprattutto nomine ad un tempo trampolini di lancio o comodi approdi per carriere ai margini della politica, in attesa di entrare pienamente nel dorato mondo, o come sistema per uscirne senza troppi scompensi.
Poi, c’è la domanda sulla reale “indipendenza” dei soggetti chiamati a farne parte. Non esiste, in Italia, un sistema di individuazione dei presidenti e componenti di questi soggetti che lasci fuori, almeno una volta, i partiti. Le designazioni sono di chiarissima espressione partitica e spesso coinvolgono o hanno coinvolto nomi che, non certo casualmente, si trovano coinvolti in modo più o meno diretto in governi e maggioranze. Il caso di Catricalà, ex presidente antitrust e poi ministro e sottosegretario alla presidenza del consiglio è eclatante, come quello di Pizzetti, ex presidente dell’autorità per la privacy, oggi consulente giuridico del Ministro Delrio, in particolare nella disastrosa riforma delle province. Vi sono, poi, i casi opposti, come Vegas, passato dalla funzione di politica attiva alla presidenza della Consob, o come l’ex giornalista e direttore generale della Rai, Meocci, entrato proprio nell’autorità per gli appalti non si capisce bene in base a quale specifica competenza tecnica in materia.
Nomine politiche e porte girevoli così oliate tra politica ed autorità che dovrebbero essere indipendenti proprio dalla politica dovrebbero rendere perfettamente evidente che le autorità di indipendente spesso hanno soltanto il nome.
Quando, poi, i vertici di questi soggetti, come nel caso dell’Avpc, sono coinvolti addirittura in casi di corruzione o reati di altra natura contro la pubblica amministrazione, al di là della circostanza che la responsabilità penale è esclusivamente personale, qualche domanda dovrebbe porsi circa la responsabilità di chi esercita il potere di nomina. Responsabilità che, ovviamente, non è di natura penale. Eppure, esisterebbe o dovrebbe esistere anche la cosiddetta culpa in eligendo, appunto la responsabilità di incaricare in ruoli delicate persone che, alla fine dei conti, non sono in grado di svolgere efficacemente il loro ruolo.
In Italia non si fa altro che prestare l’attenzione sul potere di “nomina” degli organi di governo che, effettivamente costituisce uno degli strumenti più potenti per creare e mantenere il consenso, come dimostra, purtroppo, la vicenda della legge “elettorale”, che in realtà continua ad essere configurata come un mandato in bianco che i cittadini lasciano ai leader politici, in grado, così, appunto di “nominare” chi credono nel Parlamento. Ma, sistemi di cooptazione di questa natura sono estesi a tantissimi altri organi ed enti. E li si vuole estendere sempre di più, andando ad incidere non solo sul livello politico e parapolitico (quello, appunto, degli incarichi in aziende e società pubbliche, o nei vertici di enti, authority), ma anche su quello operativo. Da qui, l’interesse estremo per l’estensione a dismisura della possibilità di “nominare” mediante cooptazione i dirigenti della pubblica amministrazione, il che consente la creazione di veri e propri corpi omogenei di natura politica, posti a fare “blocco” sempre più per la conservazione del consenso, che non propriamente per la gestione dell’interesse generale.
Non si può, ovviamente, fare di tutta l’erba un fascio e vedere in ogni atto di nomina e cooptazione un intento illecito, per quanto il numero dei casi di malaffare connessi spessissimo a nomine di questa natura certamente non faciliti.
Sta di fatto, però, che l’assenza di una qualsiasi forma di responsabilità anche solo morale, se non politica, in capo a chi nomina ed incarica, fa sì che fenomeni ormai di sistema, non possano essere validamente combattuti.
L’assenza totale di una regolazione delle “porte girevoli” tra politica ed organi che dovrebbero essere totalmente terzi e di garanzia (Amato è giudice costituzionale e Patroni Griffi, inventore del decreto legge di riforma delle province, bollato come incostituzionale senza tanti complimenti dalla Consulta, è in predicato per entrare a sua volta come giudice della Corte) non favorisce per nulla l’autonomia e l’indipendenza, né garantisce da disinvolti modi di gestire, né crea alcun vincolo di controllo-responsabilità tra nominante e nominato, portati a ragionare come fossero parte di un’unica marmellata, indistinguibili nei ruoli, se non per mera formalità.
L’assenza di controllo e responsabilità può fare sì, allora, che determinati soggetti e le loro azioni sfuggano del tutto ad ogni ragionevole modo di operare. L’Inps, per esempio, considera il Durc un proprio “feudo” e le proprie banche dati inaccessibili, indisponibili a qualsiasi cooperazione con qualsiasi altra. L’Avcp ha costruito col mondo delle Soa un rapporto certamente poco trasparente, complice un Legislatore che obbediente allo slogan del “privato è bello” ha ceduto anni fa al fascino della certificazione della qualità delle imprese lasciata in mano a privati (e si accinge a ripetere lo stesso devastante errore di attribuire funzioni pubbliche di regolazione ai privati nel mercato del lavoro e dell’economia). E, sempre l’Avcp, agendo come fosse sciolta da qualsiasi obbligo di rendicontazione, ha investito spese ingentissime in un sistema informativo, quello dell’Avcpass, che spacciato per semplificazione, comporterà oneri procedimentali gravosissimi.
La nomina dei cooptati, senza nessun tipo di responsabilità in capo al nominate, costituisce un problema enorme per l’efficienza e la legalità dell’azione amministrativa. Parlare, allora, di rilancio della lotta alla corruzione, che dovrebbe derivare anche dall’abolizione dell’Avcp, fermi restando questi meccanismi di totale subordine dei vertici tecnici degli enti e delle amministrazioni alla politica, risulta sostanzialmente solo un esercizio verbale, che difficilmente potrà portare a risultati concreti.
Non c’è, allora, da stupirsi troppo se l’Avcp abbia di fatto un bilancio fallimentare della propria gestione e della propria attività, al di là di qualsiasi aspetto legato a vicende personali di natura penale dei suoi ex vertici.
Se le nomine continueranno ad essere una sorta di concessione feudale a fronte del quale il nominato deve giurare fedeltà assoluta al signore, l’efficienza, l’efficacia e la semplificazione della gestione saranno sempre e solo formule vuote.
Non solo. Ma si continueranno a compiere scelte del tutto irrazionali e sbagliate proprio nei campi più sensibili per la corruzione, come quello degli appalti.
Il d.l. 90/2014, esattamente lo stesso che con inusitata lungimiranza ha disciolto l’Avcp, è lo stesso che modifica in modo eufemisticamente demenziale, gli articoli 38 e 46 del codice degli appalti, con l’effetto di rendere la disciplina sul possesso dei requisiti non solo molto più confusionaria, ma anche più esposta proprio alla corruzione.
Secondo il nuovo comma 2-bis dell’articolo 38 del d.lgs 163/2006, dovrebbe avere fini di semplificazione la previsione secondo la quale:
a) la mancanza, l'incompletezza e ogni altra “irregolarità essenziale” delle dichiarazioni sostitutive di cui al comma 2 del medesimo articolo 38 obbliga il concorrente che vi ha dato causa al pagamento, in favore della stazione appaltante, della sanzione pecuniaria stabilita dal bando di gara, in misura non inferiore all'uno per mille e non superiore all'uno per cento del valore della gara e comunque non superiore a 50.000 euro, il cui versamento è garantito dalla cauzione provvisoria (ed in questo caso, la stazione appaltante assegna al concorrente un termine, non superiore a dieci giorni, perché siano rese, integrate o regolarizzate le dichiarazioni necessarie, indicandone il contenuto e i soggetti che le devono rendere);
b) nei casi di irregolarità “non essenziali”, ovvero di mancanza o incompletezza di dichiarazioni non indispensabili, la stazione appaltante non ne richiede la regolarizzazione, nè applica alcuna sanzione.
Il comma 2-bis, precisa, ancora, che in caso di inutile decorso del termine di cui al secondo periodo il concorrente è escluso dalla gara. E conclude stabilendo che ogni variazione che intervenga, anche in conseguenza di una pronuncia giurisdizionale, successivamente alla fase di ammissione, regolarizzazione o esclusione delle offerte non rileva ai fini del calcolo di medie nella procedura, nè per l'individuazione della soglia di anomalia delle offerte.
Ora, sarebbe, secondo le menti del Legislatore, semplificazione una norma che pone in un colpo solo questi problemi.
Il primo è individuare quali siano le irregolarità essenziali. Nessuno lo sa. Fin qui, ogni mancanza, incompletezza ed irregolarità tout court della documentazione di gara ha determinato l’esclusione dell’operatore economico, perché la parte documentale delle procedure è sempre fondamentale, non un semplice orpello burocratico. Stabilito che nel caso di irregolarità essenziali scatta la sanzione, ma anche il termine di 10 giorni per la loro regolarizzazione, fa passare il principio che col denaro si “compra” tutto sommato anche la regolarità della documentazione alle gare.
Molti operatori economici potranno essere indotti, intanto, a partecipare anche “in bianco”, pensando che poi si vedrà. Nel frattempo, la presunta semplificazione comporta:
a) la necessità di interrompere la gara;
b) l’obbligo di invitare i concorrenti a regolarizzarsi, attendendo 10 giorni;
c) l’obbligo di escutere la cauzione per la parte che garantisce la sanzione per l’irregolarità, attivando tutte le connesse procedure contabili ed amministrative;
d) l’obbligo di richiedere il ripristino della cauzione agli operatori economici coinvolti;
e) il rischio di andare incontro a vertenze per la quantificazione ed escussione della cauzione o per la qualificazione del termine dei 10 giorni come perentorio, piuttosto che ordinatorio, o per la corretta qualificazione dell’irregolarità come essenziale piuttosto che non essenziale;
f) il rischio di andare incontro a vertenze su iniziativa di ciascun concorrente, che ovviamente partecipando al procedimento vorrà dire la sua in merito alla sussistenza dell’essenzialità o meno della violazione.
Il tutto, parte dall’idea, francamente paradossale, che possano esistere, nella documentazione di gara, documenti o dichiarazioni “essenziali” o “non essenziali” o, comunque “non indispensabili”, specie se riferite alla pletora di dichiarazioni che garantiscono il possesso dei “requisiti generali” delle imprese, quelli, cioè, in assenza dei quali non è nemmeno possibile stipulare con loro il contratto o financo negoziare. Il che dovrebbe rendere evidente come qualsiasi dichiarazione di quelle di cui all’articolo 38, comma 2, del d.lgs 163/2006 sia “essenziale”.
Ma, allora, risulta evidente la potenziale e micidiale spinta alla corruzione che sta dietro a simili norme: accordi sotto banco sulle modalità di formulare il bando ai fini del pagamento della sanzione o dell’esclusione potrebbero proliferare, come anche sotterfugi interpretativi pelosi, per favorire di volta in volta quell’imprenditore, piuttosto che quell’altro, nelle “zone grigie”.
Evidente dovrebbe essere anche la folle complicazione gestionale posta dietro a questo modo di concepire il diritto, le regole e le procedure.
Si troppo facile è osservare che se occorre distinguere tra dichiarazioni essenziali e non, per evitare che sul tema si crei un contenzioso infinito, allora dovrebbe essere il legislatore a stabilire quali dichiarazioni rientrino in una categoria o in un’altra, per evitare appunto l’esplosione dei ricorsi al Tar e, soprattutto, contenere i margini infiniti di discrezionalità o arbitrio sottesi al sistema perverso che è stato creato.
Ancor più facile è concludere che laddove si ritenesse che per gli operatori economici produrre tutti i documenti e dichiarazioni imposti dalla norma (non dai cattivi burocrati, ma dalle leggi che produce la politica) fosse un peso da semplificare, allora si poteva modificare radicalmente la norma: non richiedere più alcuna dichiarazione sostitutiva che non fosse quella connessa al casellario giudiziale e rinviare esclusivamente nei confronti dell’aggiudicatario l’acquisizione dei documenti a comprova della sua posizione giuridica.
Qualcosa di simile era previsto nelle bozze della riforma della PA circolare nei giorni scorsi, ma tra le continue revisioni e il “testa o croce” in merito a quali norme tenere e quali riservare alla legge delega è saltato.
Con questo modo di legiferare, organizzare, nominare, tutto si fa tranne che lottare contro la corruzione o semplificare. Del resto, l’ultima parte del nuovo comma 2-bis dell’articolo 38, vera e propria cartina di tornasole del livello della legislazione, quando dispone che “ogni variazione che intervenga, anche in conseguenza di una pronuncia giurisdizionale, successivamente alla fase di ammissione, regolarizzazione o esclusione delle offerte non rileva ai fini del calcolo di medie nella procedura, né per l’individuazione della soglia di anomalia delle offerte” fa capire che in fondo, va bene tutto. Infatti, si indica che, una volta che l’operatore economico “disordinato” (per così dire) paghi e di regolarizzi nei 10 giorni, anche laddove intervenga successivamente una pronuncia giudiziale dalla quale si evinca che l’operatore andava comunque escluso, una volta ammesse le offerte quelle restano e non si deve ricalcolare l’anomalia.
Il che conferma, allora, che se deve valere tutto, tanto valeva limitare la procedura di gara a solo pochissime dichiarazioni e documenti, demandando solo alla fase dell’aggiudicazione la verifica dei requisiti, modificando, dunque, i principi operativi ed ammettendo che qualsiasi operatore economico può “negoziare” (partecipare alla gara), ma solo chi è in regola “stipulare”.
Invece, si resta sempre a metà del guado. Si cercano manager, ma si cooptano soggetti senza controllo. Si vuole indipendenza, ma si creano legami incompatibili con i più elementari principi anticorruazione. Si vuole semplificare, ma si aprono spazi e praterie alla discrezionalità, all’incertezza, ai ricorsi giudiziari.
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