domenica 10 agosto 2014

#riforma del #Senato: vulnus alla #democrazia, al di là dei sofismi #Costituzione

Le parole contano. E’ per questa ragione che sulla riforma del Senato si stanno profondendo oceani di parole, tendenti a dimostrare significati della riforma piuttosto contrastanti con la realtà concreta.

In molti osservano che uno tra gli esiti esiziali della riforma è la creazione di un Senato di “nominati” e non più elettivo. Il che è una tra le tanti argomentazioni che consiglierebbero, se proprio si deve rinunciare al bicameralismo perfetto, di abolire del tutto la “camera alta”.

Coloro che si dicono favorevoli alla riforma osservano che i nuovi senatori non sono “nominati”, ma “eletti”.

Ora, poiché le parole contano, è chiaro che limitandosi allo stretto significato delle parole, entrambe le posizioni sono sbagliate.

I nuovi senatori non saranno “nominati” in senso tecnico, per la semplice ragione che saranno eletti dai consigli regionali, che li eleggeranno tra i componenti dei consigli medesimi e sindaci dei rispettivi territori.

Allo stesso modo, tuttavia, se i nuovi senatori non saranno tecnicamente “nominati”, non si potrà dire che essi saranno sic et simpliciter “eletti”, perché si deve precisare che saranno eletti “di secondo grado”, in quanto non eletti a suffragio universale dal popolo sovrano, ma da organi delle regioni, cioè i consigli regionali.

Allora, poiché le parole contano, occorre dire in maniera molto semplice le cose come stanno: i senatori non saranno eletti dal popolo sovrano a suffragio universale.

Così stando le cose, chiarito il senso delle parole, occorre però capire qual è il senso e la sostanza della riforma. E verificare se, al di là del significato proprio delle parole, sul piano sostanziale si tratti di “nomina” o di “elezione”.

Ebbene, il Senato continuerà, sia pure con una serie di limitazioni, a concorrere all’esercizio del potere legislativo.

Tale potere, è bene ricordarlo, è quello che viene direttamente ascritto all’esercizio della sovranità popolare. La divisione del potere legislativo da quello esecutivo è stata la lunghissima e tremenda battaglia che le classi borghesi e popolari hanno sostenuto contro le oligarchie al potere, allo scopo di permettere al popolo, e non al sovrano o a pochi oligarchi, di controllare ed indirizzare l’attività del potere esecutivo. Il popolo è “sovrano” perché legiferando e controllando l’azione dell’esecutivo è dal popolo che promana l’indirizzo della politica generale dello Stato.

Ora, il popolo esercita la sua sovranità nelle forme e nei limiti della Costituzione. Uno dei limiti dell’esercizio della sovranità è il principio di rappresentanza. Non è possibile, per Nazioni grandi e strutturate, l’esercizio della democrazia diretta nell’agorà delle poleis greche.

Tra le forme dell’esercizio della sovranità c’è proprio il processo di selezione dei rappresentanti del popolo, mandati in Parlamento per rappresentarlo ed esercitare, per conto del popolo sovrano, il potere legislativo.

E’ perfettamente evidente, allora, che se una delle due camere non è eletta a suffragio universale direttamente dal popolo, l’esercizio della sovranità non risulta vincolato a “forme e limiti” fissati dalla Costituzione, ma viene proprio e radicalmente cancellato.

I senatori, infatti, non essendo eletti da popolo sovrano, non saranno rappresentanti del popolo sovrano, ma rappresentanti dei consigli regionali che li eleggono. Da questo punto di vista, dunque, non sono “eletti”, ma “nominati”, in quanto selezionati da un elenco chiuso, al quale i consigli regionali attingeranno, per altro ovviamente attenendosi alle indicazioni delle segreterie dei partiti. Formalmente saranno elezioni, sostanzialmente solo un processo per sanzionare una scelta predeterminata dai leader di partito.

Poiché le cose stanno così, non si capisce come sia possibile attribuire al Senato il potere di legiferare, visto che si tratta di un’assemblea creata su basi elettive che non trovano radicamento in alcun mandato diretto del popolo sovrano.

Vale poco dire che i senatori saranno eletti tra personale politico comunque a sua volta già eletto dal popolo. I consiglieri regionali ed i sindaci sono, sì elettivi, ma hanno chiesto la loro elezione a corpi elettorali ben diversi dal popolo sovrano italiano, eterogenei e sulla base di programmi ed impegni di natura locale. Al momento dell’elezione del sindaco i cittadini del comune lo scelgono per il programma di governo del comune, non per quello da svolgere nel Senato, non essendo nemmeno possibile immaginare per i cittadini se poi quel sindaco sarà eletto in Senato. E perché i cittadini del comune di Milano, per esempio, dovranno godere del privilegio di avere il proprio sindaco come senatore e non quelli, sempre per esempio, di Torino? Perché gli interessi di un comune in un certo lasso di tempo saranno direttamente presenti in una delle due assemblee legislative, e quelli di altri comuni no?

E’ evidente che la riforma del Senato, sotto questo punto di vista (ma è uno solo dei tanti gravissimi difetti) è un rattoppo antidemocratico.

Nulla vale affermare, come molti fanno, che anche il Presidente della Repubblica non è eletto direttamente dal popolo sovrano. Verissimo. Ma, il Presidente della Repubblica è (dovrebbe essere) organo neutrale, di garanzia del rispetto della Costituzione; non esercita nessuno dei tre poteri (legislativo, esecutivo e giudiziario), per quanto partecipi in alcune misure al loro esercizio. Dunque, il legame diretto tra Presidente della Repubblica e popolo sovrano, in una Repubblica parlamentare, non è necessario e non deve esservi. E’ richiesto solo in una Repubblica presidenziale, nella quale il Presidente della Repubblica, non a caso, è eletto proprio dal popolo sovrano (vedi in Francia; negli Usa il sistema elettorale è un po’ più arcaico e complesso, per la presenza della figura dei grandi elettori).

Dunque, sarebbe il caso di non fare sofismi e presentare le cose come stanno, per consentire a chi vuol capire, di capire quale tipo di riforma sia stata approvata nella prima delle 4 letture previste: una riforma che comporta un passo indietro nella democrazia molto, molto pronunciato.

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