domenica 28 settembre 2014

#lavoro i costi di un #JobsAct davvero con protezioni universali #articolo18

 

 

Quanto costa sostituire all’articolo 18 e all’insieme delle tutele differenti in base a tipologia di lavoro e impresa un sistema universale di tutele di chi abbia perso il lavoro, qualsiasi lavoro sia e qualunque sia il datore?

Il dibattito su “articolo 18 sì, articolo 18 no” si sta “arricchendo” di un’argomentazione che, a ben vedere, non c’entra molto: considerare, cioè, alternativo alla tutela del reintegro per licenziamento illegittimo un sistema di tutele universali per i disoccupati, combinato di azioni di politica attiva (formazione e ricerca di lavoro) e passiva (ammortizzatori sociali).

Lo capisce chiunque che il licenziamento illegittimo resta comunque illegittimo, anche se al lavoratore licenziato il sistema giuridico di protezione possa offrire ostriche, champagne e suite da albergo a 5 stelle per anni, mentre gli si cerca un nuovo lavoro.

Sostanzialmente, si confonde il problema di un welfare zoppicante e diseguale, col problema della tutela da comportamenti arbitrari del datore di lavoro; ovviamente, le due cose non sono per nulla collegate tra loro, ma i sofismi sono necessari, per far passare messaggi e slogan di natura solo politica e nulla aventi a che fare con la questione della tutela da licenziamento illegittimo.

Fissato quanto sopra, vediamo, comunque, di comprendere a quali condizioni sia possibile riformare drasticamente il welfare o, comunque, la protezione dei lavoratori che perdano il lavoro.

Nell’editoriale di domenica 28 settembre, Eugenio Scalfari, dopo aver espresso l’opinione che l’articolo 18 invece di essere eliminato andrebbe esteso ai lavoratori delle imprese con meno di 15 dipendenti, osserva: “Si dice però, anche da autorevoli fonti internazionali, che la giusta causa o discriminazione che sia costituisca un ostacolo contro l'aumento della competitività. Ammettiamo che sia cosi e poiché la competitività è una condizione per attirare investimenti, allora bisogna abolire l'articolo 18 per tutti e sostituirlo con tutele economiche e sistemi di formazione per favorire nuovi reimpieghi. L'America è su questo terreno il Paese più moderno e più reattivo che conosciamo. Ma le risorse da mobilitare sono molto più cospicue di quelle di cui si parla. Non si tratta di due o quattro miliardi; per compensa re chi perde il lavoro ce ne vogliono a dir poco dieci volte tanto e il periodo di sostegno non può essere limitato ad un anno”.

Allora, il problema è: 2 o 4 miliardi, oppure da 20 a 40 miliardi all’anno per riformare il sistema della protezione nei confronti di chi perda il lavoro?

Già nel primo caso, l’Italia farebbe una fatica tremenda a reperire le risorse necessarie; non ne parliamo se dovesse essere necessario un impegno da 20-40 miliardi.

Questo nodo, tuttavia, è il centro del problema. Perché se sul piano teorico l’idea di sostituire all’articolo 18 (protezione nel lavoro e nell’azienda) un sistema di politiche attive e passive molto efficiente ed universale (protezione nel mercato del lavoro) può essere interessante e stimolante, la proposta di riforma che si vorrebbe attuare col Jobs Act, per essere davvero efficace e non ridursi ad una finzione o all’ennesima segmentazione dei diritti, deve necessariamente risolvere prima il problema finanziario, poi quello tecnico e giuridico. Inutile, infatti, applicare un’ottima idea a solo una frazione dei circa 6 milioni tra disoccupati e sfiduciati di cittadini italiani: sarebbe la conferma che l’intero disegno di riforma ha solo scopi politici ed ambizioni di efficacia nulle per i lavoratori.

Ora, per comprendere quali siano le grandezze in gioco, forse è il caso di riferirsi ai Paesi che vengono sempre considerati come “modello” in questi mesi: la Germania e la Danimarca. Che si possa prendere a riferimento la Danimarca pare cosa a dir poco assurda, tanto diversa è dall’Italia: solo 5,6 milioni di abitanti (meno della somma tra disoccupati e sfiduciati italiani) e nemmeno 150.000 disoccupati ufficialmente registrati. Questi due soli dati dovrebbero far capire che la Danimarca non andrebbe in alcun modo presa in considerazione, eppure, siccome ha varato la flexsecurity, parola inglese e dunque “arcana”, al provincialismo italiano piace molto e, quindi, la Danimarca viene considerata un modello.

Tornando alle valutazioni sui costi, riferiamoci ai dati ufficiali, sintetizzati dall’Unione delle Province Italiane nel documento consegnato alla Camera dei Deputati presso la XI Commissione (Lavoro pubblico e privato) “Indagine conoscitiva sul la gestione dei servizi per il mercato del lavoro e sul ruolo degli operatori pubblici e privati”, che riporta quanto emerge dalle analisi statistiche di Eurostat e dati Ocse.

spese politiche attive e passive

La tabella è impietosa, per l’Italia, nel confronto con tutti i Paesi considerati. Ma guardiamo il confronto con Germania e Danimarca:

  1. a) in quanto all’investimento in personale e servizi adibiti alla ricerca di lavoro per i disoccupati l’Italia, con un numero di disoccupati quasi 24 volte superiore a quello della Danimarca, spende quasi 3 volte meno; spende, comunque, 17,6 volte meno della Germania;

  2. b) in quanto alle politiche “attive” incentrate sulla formazione e l’incentivazione ad assumere i disoccupati, l’Italia spende un miliardo in più della Danimarca (sempre con un numero di disoccupati di 24 volte superiore, però) e quasi 2,5 volte meno della Germania;

  3. c) in quanto alle politiche passive, cioè sussidi, l’Italia spende in proporzione moltissimo di più rispetto a Danimarca e Germania.


Si constata che la Danimarca concentra la gran parte della propria spesa in personale e servizi pubblici per la ricerca di lavoro, nonché in politiche attive per la formazione, rispetto ai sussidi; la Germania spende circa 20 miliardi per servizi e politiche attive, contro 26 per sussidi; l’Italia circa 5 miliardi tra sussidi e politiche formative e attive, e 21 miliardi per sussidi.

Scopriamo, dunque, che per provare ad avvicinarci ai modelli di Germania e Danimarca, l’Italia dovrebbe riequlibrare le prime due voci di spesa e portare la somma di quella per personale e servizi e per politiche formative ed attive intorno ai 16 miliardi, con un incremento rispetto a quella attuale, dunque, di 12 miliardi.

Da subito, dunque, verifichiamo che la spesa necessaria per provare ad estendere le tutele universali non può essere contenuta tra i 2 e i 4 miliardi. Simile limitazione di spesa non è minimamente sufficiente a garantire servizi ed obiettivi paragonabili ai Paesi modello. Cominciamo a comprendere, dunque, che Scalfari ha ragione.

Ma non basta: diamo uno sguardo ai dati Ocse elaborati dall’Upi nel documento presentato al Parlamento (la tabella confronta i dati con Germania e Francia, ma quest’ultimo Paese non lo vogliamo considerare:

Ocse spese lavoro Italia Germania e Francia

Complessivamente, dunque l’Italia:

  1. a) spende per il complesso delle politiche del lavoro (attive e passive) 20 miliardi in meno della Germania;

  2. b) per le sole politiche attive 7 miliardi in meno della Germania;

  3. c) per i soli servizi per l’impiego 8,5 miliardi in meno della Germania;

  4. d) ad ogni disoccupato riserva per servizi di ricerca al lavoro 74 euro, dunque 1626 euro in meno;

  5. e) fa “curare” ad ogni operatore dell’orientamento 200 disoccupati, contro i 30 della Germania.


La totale dèbacle degli investimenti dell’Italia nei servizi di ricerca attiva ed orientamento al lavoro per i disoccupati è ulteriormente dimostrata da questa tabella:

spese nei servizi per il lavoro Eurostat

Poche considerazioni finali. Se in Germania, con un totale di circa 3 milioni tra disoccupati e sfiduciati l’investimento complessivo in politiche del lavoro è di 47 miliardi, vuol dire che l’investimento pro capite è di 15.666 euro. L’Italia, invece, investe 27 miliardi riferiti a 6 milioni circa tra disoccupati e sfiduciati: la spesa procapite è di 4.500 euro.

Se volessimo, allora, copiare il modello tedesco, ma, soprattutto, investire quanto necessario per politiche del lavoro di protezione molto più ampie, dovremmo aumentare di circa 10.000 euro la spesa procapite, il che significa che moltiplicata per i 6 milioni tra disoccupati e sfiduciati dovremmo spendere circa 60 miliardi l’anno.

A questo punto, non resta che concludere che Scalfari aveva proprio ragione: la spesa necessaria per un sistema di protezione nel lavoro davvero capace di proteggere tutti impone una spesa aggiuntiva che va dai 20 ai 40 miliardi. L’oscillazione tra il vertice basso ed il vertice alto di questo fabbisogno dipenderebbe tutto dalla ripresa economica e dall’efficienza dei servizi per il lavoro.

Qui la seconda considerazione: guardando all’ultima tabella sopra riportata, comprendiamo quanto semplicemente ridicole e infondate siano le critiche ai Centri per l’impiego, sempre presi di mira come simbolo di inefficienza. Ma ci rendiamo conto che in Italia sono impiegati nei servizi pubblici per il lavoro appena 3 volte tanto gli addetti della mitica Danimarca, con un numero di disoccupati, oggi, oltre 20 volte maggiore? Capiamo che gli addetti dell’Italia sono meno di un decimo di quelli tedeschi, 10 volte meno di quelli del Regno Unito, 7 volte meno di quelli della Francia, meno persino di quelli della Spagna, della Svezia, del Belgio e dell’Olanda?

Tutto ciò, dovrebbe lasciar comprendere che le inchieste contro i Centri per l’impiego sono completamente fuori mira, al netto delle maggiori o minori efficienze con le quali possano essere gestiti. Visti i numeri e i dati riportati dall’Eurostat, si capisce perfettamente perché i centri per l’impiego italiani sono meno efficienti di quelli di altri Paesi: l’Italia in sostanza non investe in questo ambito, e pretende, però, che servizi lasciati senza risorse e strumenti competano con giganti che dispongono di dotazioni infinitamente superiori.

Dunque, altro passaggio fondamentale sarebbe quello di attivare un piano di rafforzamento epocale dei servizi pubblici, non di abbandonarli totalmente e sperare che siano i privati a condurre politiche di welfare che non potranno mai essere nella loro natura, visto che debbono cercare il business e non possono sostituirsi allo Stato nella redistribuzione della ricchezza e nel sostegno ai bisognosi.

D’altra parte, se volessimo cancellare i servizi pubblici per il lavoro ed affidarci solo ai privati, estendendo a tutta Italia l’idea delle doti della Lombardia, i conti sarebbero presto fatti: ogni disoccupato, in Lombardia, ha diritto ad una dote di circa 3000 euro, che viene utilizzata dall’agenzia privata per attivare le politiche; i disoccupati sono 3 milioni (non contiamo gli sfiduciati). Dunque, quanto dovrebbe spendere il bilancio dello Stato per finanziare la dote da spendere verso i privati? 9 miliardi, esattamente quanto spende la Germania per i servizi pubblici per il lavoro. Ma, questa cifra ascenderebbe a 18 miliardi, se i servizi venissero estesi, come apparirebbe giusto, anche agli sfiduciati.

In conclusione, gli aridi numeri e dati descrivono un quadro impietoso ma chiaro: al di là di ogni sofisma politico, ed a prescindere dalla questione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, per immaginare di realizzare il sistema universale di protezione del lavoro, che tutti oggi descrivono come alternativo all’articolo 18, occorrono investimenti pesantissimi. Altrimenti, resterà un’ottima idea dell’Iperuranio.

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