Ma, molte delle indicazioni fornite dall’articolo si rivelano piuttosto ottimistiche ed imprecise, anche alla luce dei contenuti della bozza di accordo.
Innanzitutto, appare non corretto già il titolo e gran parte dell’articolo, basato su di esso. La stima di un trasferimento “imminente” di 30.000 dipendenti (più della metà dei 56.000 e non, come erroneamente riportato nell’articolo, 60.000 in servizi) appare del tutto priva di fondamento.
Occorre considerare che la legge 56/2014 ha lasciato alle province parecchie delle funzioni “fondamentali” che da sempre esse svolgono:
- a) pianificazione territoriale provinciale di coordinamento, nonché tutela e valorizzazione dell'ambiente, per gli aspetti di competenza;
- b) pianificazione dei servizi di trasporto in ambito provinciale, autorizzazione e controllo in materia di trasporto privato, in coerenza con la programmazione regionale, nonché costruzione e gestione delle strade provinciali e regolazione della circolazione stradale ad esse inerente;
- c) programmazione provinciale della rete scolastica, nel rispetto della programmazione regionale;
- d) raccolta ed elaborazione di dati, assistenza tecnico-amministrativa agli enti locali;
- e) gestione dell'edilizia scolastica;
- f) controllo dei fenomeni discriminatori in ambito occupazionale e promozione delle pari opportunità sul territorio provinciale.
A queste, va aggiunta l’edilizia scolastica.
Poi, vi sono altre funzioni “eventuali”, che in realtà sono molto richieste dai comuni:
- - predisposizione dei documenti di gara,
- - stazione appaltante,
- - monitoraggio dei contratti di servizio
- - organizzazione di concorsi e procedure selettive.
Ma, altre funzioni si potrebbero aggiungere ai sensi dell’articolo 1, comma 90, della legge: il subentro delle province ad enti e società che svolgono nel bacino provinciale servizi pubblici a rilevanza economica.
Non è finita qui: ovviamente, le province, rimanendo in vita, visto che non risultano affatto abolite, dovrebbero continuare a svolgere attività fondamentali per l’organizzazione e, dunque, resterebbero come minimo:
- - le segreterie generali;
- - gli uffici di presidenza;
- - gli uffici per la gestione delle risorse umane;
- - i servizi per la gestione dei flussi documentali e degli archivi;
- - i servizi di controllo interno;
- - gli uffici relazioni col pubblico;
- - gli uffici finanze e tributi;
- - gli uffici del patrimonio;
- - gli uffici per la garanzia della sicurezza;
- - gli uffici per la garanzia della privacy;
- - gli uffici dei servizi tecnologici ed informatici.
In una provincia “media”:
gli uffici di “per il funzionamento organizzativo” non impiegano meno del 20% dei dipendenti;
nella viabilità (lavori su strade) sta circa il 18% dei dipendenti;
nella programmazione circa l’8%;
nell’ambiente ed ecologia, circa il 12%;
nei trasporti il 2% circa;
nell’edilizia scolastica un 5% circa.
Rimanendo molto prudenti, il 65% circa dei dipendenti provinciali (36.400 sui 56.000 in servizio) non potrebbero materialmente muoversi dalle amministrazioni.
Dunque, potenzialmente potrebbero andare via 19.600 dipendenti, poco più della metà della fantasmagorica cifra di 30.000 lanciata dal Messaggero.
Ma, anche qui le cose non sono affatto semplici. Di questi 19.600 circa 7.700 sono addetti ai servizi per il lavoro e, dunque, operano nei centri per l’impiego.
Ora, proprio la materia del lavoro non è oggetto della disciplina della legge Delrio, in quanto il suo riordino rientra, invece, nel futuro Jobs Act, nel quale si prevede di costituire un’Agenzia nazionale per il lavoro, verso la quale si pensa, ovviamente, di far confluire i dipendenti dei servizi per il lavoro provinciali.
Ma, cosa afferma la bozza di accordo Stato Regioni in proposito (sia pure indirettamente)? “si conviene che lo Stato e le Regioni, per le funzioni che rientrino nell’ambito di applicazione di disegni di legge o disegni di legge delega o di deleghe già in atto relativi a riforme di settori organici, sospendono l'adozione di provvedimenti di riordino fino al momento dell’entrata in vigore delle riforme in discussione. Fino a tal giorno le funzioni predette continuano ad essere esercitate dalle province o dalle città metropolitane a queste subentrate”. Come dire che, per lo specifico caso dei servizi per il lavoro, finchè non sia attuato il Jobs Act con l’Agenzia (se va bene, siamo già nel 2016), non se ne fa niente e i 7.700 addetti provinciali restano nelle province.
Il numero, dunque, dei dipendenti trasferibili in tempi non biblici si riduce ancora: 12.700. Altro che 30.000.
Ma, ancora non è finita. Se le province dovessero attivare le funzioni “eventuali” viste sopra ed organizzare le due funzioni “fondamentali” sì, ma piuttosto nuove della “raccolta ed elaborazione di dati, assistenza tecnico-amministrativa agli enti locali” e del “controllo dei fenomeni discriminatori in ambito occupazionale e promozione delle pari opportunità sul territorio provinciale”, dovrebbero dedicare necessariamente alcuni dipendenti (e risorse) a tale fine. Difficile stimare quanti, ma per fare cifra tonda diciamo non meno di 1000. Il personale trasferibile si riduce a 11.700.
E non è finita: ci sono le 10 città metropolitane che ingloberanno le 10 province alle quali subentrano in toto, acquisendone il personale. Facendo una media di 400 dipendenti per provincia, 4000 dipendenti non saranno disponibili per il transito verso Stato, regioni o comuni: il personale trasferibile si riduce a 7.700 (più i 7.700 dei servizi per il lavoro, quando andrà in porto il Jobs Act).
Dunque, se va bene, interessati ai trasferimenti saranno, ma in tempi differenziati, non più di 15.000 dipendenti provinciali.
Ma, comunque, è tutto da vedere. Il grosso della partita sta, a quanto è dato capire, in mano alle regioni.
La bozza di accordo Stato-regioni, infatti, prevede: “lo Stato può e deve provvedere solo per le competenze che rientrano nelle materie di propria competenza legislativa esclusiva, ai sensi dell’art. 117 secondo comma Cost., mentre alle Regioni spetta di provvedere per tutte le altre attualmente esercitate dalle province”.
Ineccepibile, ovviamente. Ora, però, al netto delle funzioni fondamentali ed eventuali che restano alle province, quali sarebbero le funzioni sulle quali lo Stato può e deve intervenire per trasferire i dipendenti (patrimoni e risorse connesse) a sé o ai comuni, al netto della questione in stand by del lavoro? Ce lo dice sempre l’accordo: tutela delle minoranze, concessioni di acque pubbliche ed istruzione (solo per la sospensione delle lezioni in casi gravi e urgenti).
Si tratta di funzioni estremamente marginali e nemmeno esercitate da tutte le province e, comunque, alle quali sono destinati pochissimi dei 7.700 dipendenti circa (al netto dei Cpi) che potrebbero essere trasferiti.
Quindi, saranno proprio le regioni ad esercitare il ruolo-chiave nell’attuazione della legge Delrio. Le regioni dovrebbero individuare le funzioni entro il 31 dicembre 2014. Il processo di trasferimento non potrebbe che avvenire dopo. Quanto dopo, non si sa. Sarà tutto subordinato alle opzioni:
- a) trasferire il personale ai comuni; si capisce già che poiché i comuni sono 8.100 ed il personale da trasferire disponibile alle regioni (al netto dei dipendenti dei Cpi) 7.700, che tale scelta risulterebbe del tutto irrazionale;
- b) acquisire il personale da parte delle regioni, insieme con le funzioni; appare una delle soluzioni più razionali: si manterrebbe, infatti, in capo ad un ente sovra comunale la competenza a svolgere funzioni sovra comunali, anche se si allontana il centro decisionale dal territorio; è da precisare che la legge Delrio contiene il meccanismo per evitare che ai dipendenti provinciali eventualmente transitati in regione si applichino i contratti regionali, inspiegabilmente molto più “generosi” con i propri dipendenti, rispetto al resto del comparto regioni enti locali;
- c) lasciare le funzioni, o alcune, alle province, come ancora continua a consentire l’articolo 118 della Costituzione. Questa terza soluzione non è da scartare: il personale e le risorse da trasferire appaiono così limitati, che il rischio di acquisire l’onere gestionale ed operativo, senza poter disporre delle necessarie energie per poterlo fare, è molto forte, sì da scoraggiare la “regionalizzazione” dell’apparato provinciale.
Tutti questi scenari non tengono conto della circostanza che molti dipendenti provinciali potrebbero chiedere di andare per conto proprio in mobilità volontaria verso altre destinazioni, sicchè alla fine il numero dei trasferimenti potrebbe rivelarsi significativamente inferiore ad ogni stima.
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