La sciagurata riforma Delrio è della scorsa primavera, giunta alla conclusione di una campagna populista e demagogica, totalmente condivisa da ogni forza politica, come mai si era vista prima. Non ci voleva un genio, né che passassero mesi, per capire che si sarebbe andati verso la bancarotta delle province.
La riforma Delrio, infatti, pur se approvata mistificando che da essa sarebbero derivati chissà quali risparmi, non ha previsto nemmeno un centesimo di minori risorse. E ciò era inevitabile: perché prevedendo semplicemente lo spostamento delle funzioni provinciali dalle province ai comuni o alle regioni, l’effetto finanziario era pari a zero, visto che nel suo corpo la legge Delrio prevede lo spostamento, insieme alle funzioni, del personale, delle entrate e delle connesse spese.
Di fatto, dunque, la legge Delrio è stata soltanto una fonte di caos indicibile, un esproprio dell’elettorato attivo del corpo elettorale, senza aver espresso alcun segno di minima utilità finanziaria.
Occorreva, quindi, correggerla. Ma, non si poteva farlo evidenziando la sua totale inutilità. Lo si è fatto e lo si farà, dunque, con altri mezzi: i tagli forfetari e lineari. Un primo assaggio lo si è avuto col d.l. 66/2014, che ha tagliato di netto 444,5 milioni alle province, 100 dei quali a forfait come risparmio per “costi della politica”, cioè indennità e gettoni di presenza di presidenti, assessori e consiglieri, che invece sarebbero costati, a seguito di altri tagli ai “costi della politica” da parte di Tremonti nel 2011, di 35 milioni.
Ma, il Sottosegretario Delrio, sulla scorta di mal interpretati e datati studi sulle spese provinciali, si era sbilanciato, affermando che dalla “sua” riforma si sarebbero ricavati risparmi dai 2 ai 3,5 miliardi. Non era affatto vero, come, appunto, dimostrato dal testo della “sua” legge.
Allora, l’unico modo per dare ragione all’autoreferenzialità dell’artefice del disastro delle province era prevedere un taglio forfettario esattamente di 3 miliardi, cosa che puntualmente stabilisce il disegno di legge di stabilità, graduandolo in un taglio da 1 miliardo nel 2015, 2 nel 2016 e 3 nel 2017. Che porterà la spesa delle province da circa 9,5 miliardi del 2014 a solo 6 nel 2017, considerando i tagli di circa 585 milioni previsti a regime dal citato d.l 66/2014.
Tutte queste cose era facilissimo prevederle. Ma, solo nel 2014 il presidente dell’Anci casca dal pero e si rende conto che già il taglio da 1 miliardo per il 2015 non perfino alle città metropolitane di scongiurare il default già appunto col 2015. Eppure, Delrio e gli altri conformisti estimatori della “grande riforma” delle province magnificavano l’istituzione delle città metropolitane, sottolineando che “finalmente” entravano nel nostro ordinamento, come fossero chissà quale panacea. Tanto erano agognate, le città metropolitane, che nemmeno il tempo di farle nascere e già le si porta dritte verso il dissesto! A riprova che la legge Delrio è solo una mistificazione.
Se, però, finalmente qualcuno appare svegliarsi dal grande sonno, le soluzioni proposte o immaginate sono, come troppo spesso accade, ancora peggiori del problema.
Il sito on-line de La Repubblica il 4 novembre riportava queste dichiarazioni: “”Il taglio di 1 miliardo per città e province rischia di far partire in default questi nuovi enti", dice invece in Commissione il presidente dell'Anci, Piero Fassino, secondo il quale "così la manovra è insostenibile". Stesso allarme lanciato da Chiamparino, che parla di "rischio effetto domino" perchè questi enti hanno competenze che hanno bisogno di risorse”. E ancora, riportando dichiarazioni dell’Unione province italiane: “Con 1 miliardo di tagli lo Stato manda in dissesto Province e Città metropolitane". L'unica possibilità per evitare il blocco dell'erogazione dei servizi e l'esubero del personale - si legge nel documento consegnato - è spostare, da subito in legge di stabilità, quelle funzioni che la Legge Delrio toglie dalla gestione delle Province: formazione professionale, trasporto pubblico locale, centri per l'impiego, cultura, turismo, sociale, agricoltura. Solo concentrando sulle funzioni fondamentali le risorse e il personale necessario a svolgerle, potremo continuare a garantire la manutenzione delle strade, la sicurezza nelle scuole, gli interventi di contrasto al dissesto idrogeologico, l'assistenza ai comuni”.
In grassetto la soluzione immaginata. Che conferma, tuttavia, come chi ha l’ingrato compito di curarsi dei problemi istituzionali non ha mai l’esatta idea di cosa stia parlando.
E dire che l’Upi puntualmente aggiorna un report che fornisce dati piuttosto precisi sulle spese delle province (ecco uno stralcio dei dati aggiornati a marzo 2014 riferiti alle funzioni che sarebbero da “spostare”):
- - edilizia, funzionamento delle scuole e formazione professionale: 1,904 miliardi
- - sviluppo economico, mercato del lavoro: 943 milioni;
- - promozione della cultura: 168 milioni;
- - promozione del turismo e dello sport: 153 milioni;
- - servizi sociali: 235 milioni.
Ammettendo che della prima voce in elenco si spenda solo un sesto per la formazione professionale, cioè 317 milioni, la spesa per queste funzioni da “spostare” ammonterebbe, senza personale, a 1,816 miliardi. Poiché in queste funzioni opera circa il 40% del personale provinciale e visto che la spesa per il personale delle province è di circa 2 miliardi, alla spesa si debbono aggiungere non meno di 800 milioni, per un totale complessivo di 2,616 miliardi circa, cioè quasi l’intero ammontare del taglio a regime del 2017, previsto nel 2017.
Ai più attenti, allora, non dovrebbe sfuggire che questo veloce conto (al quale sfuggono non meno di altri 300-400 milioni tra spese per canoni e servizi generali connessi alle funzioni) mostra una simmetria quasi perfetta tra funzioni da trasferire e taglio imposto alle spese, dette funzioni resteranno senza le risorse per poterle esercitare.
Tradotto in altre parole, i comuni e le regioni o, comunque, qualsiasi altro ente dovesse subentrare alle province per svolgere le funzioni da “spostare”, dovrebbe esercitarle senza poter contare sulle risorse per sostenerle, contrariamente a quanto prevede l’articolo 119 della Costituzione, l’articolo 3, comma 3, lettera i), della legge 59/1997 e la stessa legge Delrio.
Ancora più chiaramente: per comuni e regioni, il subentro nelle funzioni provinciali da “spostare” determinerebbe un onere fresco e nuovo di circa 3 miliardi, non coperto da alcun connesso trasferimento di risorse.
Ma, se si stabilisse che le province dovrebbero comunque trasferire i finanziamenti per svolgerle, allora il taglio non sarebbe di soli 3 miliardi, bensì di 6: i 3 miliardi tagliati, più i circa 3 che sarebbero da trasferire a comuni e regioni. Ne resterebbero circa 3, con poco più della metà del personale, per svolgere le residue funzioni fondamentali.
Alla fine del gioco, la somma non sarà affatto zero. Il rischio molto fondato è che comuni e regioni faranno di tutto per evitare di svolgere le funzioni ex provinciali, consapevoli che incideranno molto negativamente sui propri bilanci; e se dovessero essere costrette a gestirle pretenderanno, ovviamente, di averle finanziate con ulteriori “espropri” a province e città metropolitane”, così da mandarle comunque in default, oppure incrementando per l’ennesima volta e in maniera pesantissima l’imposizione locale. Altrettanto fondato, però, sarà il rischio che data la sostanziale impossibilità di gestire le funzioni ex provinciale sul piano della sostenibilità finanziaria, esse semplicemente verranno lasciate senza presidio. Già un esempio lo ha dato la Regione Veneto, che ha ripreso la funzione di accoglienza ed informazione turistica, consentendo ad enti locali e privati, anche in raccordo tra di loro, di svolgerle, ma a proprie spese, senza che la regione stessa si obblighi a finanziarla neanche con un centesimo.
L’esito finale, dunque, della riforma Delrio è quello facilmente prevedibile anche mesi e mesi fa: caos istituzionale, disastri finanziari, tagli ai servizi, problemi infiniti nel trasferimento delle competenze e delle funzioni, problemi al limite dell’impossibilità gestionale legati alle sorti di 56.000 circa dipendenti delle province, molti dei quali rischiano il licenziamento, tra l’esultanza di chi crede che i problemi del Paese si risolvano con l’estensione dei licenziamenti e non con misure che servano a d incrementare i servizi e l’occupazione. Il tutto, per altro, per una spesa, quella delle province, pari, oggi ad un rapporto di 9,5 su 827 miliardi, cioè circa l’1,15% del totale della spesa pubblica. Che, infatti, nonostante la riforma delle province e le disastrose conseguenze sintetizzate prima, continuerà ad aumentare, a pressione fiscale invariata, come attestato dal Def, dall’Istat e dalla stessa Commissione Ue. Ne valeva davvero la pena?
L'ha ribloggato su Fabbrica Treviso.
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