domenica 28 dicembre 2014

"Tutele crescenti"? ma quali? quante? #JobsAct #lavoro #licenziamenti

Tutele crescenti. Ma quali tutele? Nel testo dello schema di decreto legislativo in tema di contratto di lavoro a tutele crescenti, la parola “tutela” ricorre 3 volte; quella “licenziamento” 28 volte.

Non è un caso. Al di là, infatti, della titolazione del decreto legge, esso appare riferito in via esclusiva alla sola disciplina del licenziamento, come modifica al regime dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, unito alla disapplicazione dell’articolo 1, commi da 48 a 68, della legge 92/2012.

La sostanza è che nello schema di decreto si riscontra la sostanziale assenza di una disciplina delle tutele crescenti, come quasi del tutto assente è una rivisitazione delle politiche attive del lavoro, forse perché demandate ad un altro decreto legislativo, quello che dovrebbe far sorgere l’Agenzia Nazionale per l’Occupazione.

L’idea secondo la quale la tutela crescente si annidi esclusivamente nella crescita dell’indennizzo dovuto al licenziamento simmetrica alla crescita dell’anzianità non è certamente persuasiva.

E’ fin troppo evidente che non cresce la tutela, che resta la stessa, cioè l’indennizzo, ma cresce solo la sua misura.

Se si parla di “tutele crescenti” al plurale, è perché un contratto a tutele crescenti dovrebbe connettere all’anzianità, ma, meglio dire, all’investimento prolungato in formazione e produttività del lavoratore ed all’accertamento di una sua progressiva maggiore competenza e funzionalità per l’azienda, un insieme di tutele.

Non si deve dimenticare che per quanto asimmetrico, sbilanciato in favore del datore di lavoro, il contratto di lavoro è pur sempre corrispettivo. Non si può certo pretendere che il datore si vincoli a prezzo di veder vanificare investimenti e produttività, ma come il lavoratore investe il suo futuro nel lavoro aziendale, impegnandosi in competenza, dedizione e formazione, legandosi, dunque, all’attività svolta, allo stesso modo è corretto connettere questo investimento ad un impegno via via maggiore anche del datore.

Si può, allora, parlare di “tutele” solo se nel corso della vita professionale alla tutela dell’indennizzo dovuta al licenziamento, si affianchi anche un’ulteriore e diversa tutela, oppure più ulteriori e diverse tutele.

Infatti, l’idea del contratto a tutele crescenti proposta dai professori Boeri e Garibaldi era proprio questa. Dopo un primo triennio lavorativo nel quale la tutela sarebbe stata solo quella dell’indennizzo di importo direttamente proporzionale all’anzianità intanto maturata, conseguito il triennio si sarebbe aggiunta l’ulteriore tutela della reintegra prevista dalle norme vigenti.

Inoltre, il disegno di riforma era completato dalla configurazione di tale contratto come “unico”, sostitutivo, cioè, di ogni altra forma di inserimento del lavoratore nell’azienda, con forti limitazioni anche per il lavoro a tempo determinato e autonomo (e connessi problemi di configurazione dell’attività free lance).

E’ piuttosto evidente che il contratto a “tutele crescenti” regolato dal testo emanato dal Governo sia profondamente diverso dall’idea base di Boeri e Garibaldi. Così come è evidente che la tutela prevista è una sola, quella dell’indennità, al netto dei residui casi di reintegra nel caso di licenziamenti discriminatori, per altro sostanzialmente gli stessi previsti a seguito della riforma-Fornero.

Crescenti avrebbero potuto essere, ad esempio, proprio le politiche attive a beneficio del disoccupato, abbinate, magari, a politiche di welfare, sull’esempio della Germania, che abbina i minijob e risorse per sostenere l’affitto di casa (in Italia sarebbe necessario riferirsi ai costi anche dei mutui).

Invece, nulla di tutto ciò traspare da una norma posta solo a regolare le conseguenze del licenziamento, basandosi sostanzialmente sulla regola della monetizzazione dei diritti. Non si deve dimenticare, infatti, che l’indennizzo spetta anche laddove in giudizio si acclari l’illegittimità del licenziamento.

Da notare, ancora, come lo schema di decreto incida negativamente sul contratto di apprendistato, che poteva certamente qualificarsi come contratto per sua natura a tutele crescenti. L’entrata a regime della riforma, infatti, vanifica l’effetto del consolidamento del rapporto concluso il periodo formativo del triennio e l’aspettativa del lavoratore impiegato in imprese soggette all’articolo 18 di ambire appunto a quella tutela, dopo un periodo formativo impegnativo.

La definizione di contratto a “monetizzazione crescente” (cit. Mario Seminerio) in effetti appare la migliore per indicare l’effettiva portata della riforma.

Senza dimenticare di sottolineare che essa non ha nemmeno il pregio di risolvere i punti di incertezza relativa ai confini tra licenziamento discriminatori e disciplinare, né può impedire che i lavoratori cerchino di costruire le tutele in effetti mancanti, con la richiesta di configurare qualsiasi licenziamento come discriminatorio. Cosa, per altro, non facile ma possibile nel caso di licenziamenti economici che finiscano per colpire individualmente solo uno o pochi dipendenti.

 

 

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