Il disegno di legge di stabilità approvato (in un testo come sempre non consolidato e non ancora conosciuto) dal Governo conferma un elemento che mettiamo in rilievo da tempo immemore: la centralizzazione degli appalti è un sostanziale flop, se non un vero e proprio bluff.
Da quando si è insediato, senza successo, Carlo Cottarelli nello scomodo e soprattutto poco produttivo scranno di “supermegaultracommissario alla spending review”, si è levato in cielo il canto, senza alcun controcanto, che lauda la riduzione delle centrali d’acquisto da 30.000 a sole 35, come sicura e semplice modalità per risparmiare miliardi e miliardi.
Il disegno di legge di stabilità fornisce la definitiva prova che gli slogan, come sempre, finiscono per scontrarsi duramente con la realtà e che per questioni complicate non esistono soluzioni semplici. Altrimenti, sarebbe sin troppo facile per chiunque governare ed amministrare.
Un primo elemento utile per dimostrare quante parole al vento sono state pronunciate in merito alla “razionalizzazione” degli appalti che deriverebbe dalla riduzione delle stazioni appaltanti discende dalla quantificazione dei risparmi previsti dalla manovra 2016: sui circa 5,5 miliardi di “tagli” alla spesa, si stima che dall’opera delle mitiche 35 stazioni appaltanti ne deriverebbero 1,5, se va bene.
Allora, fermiamoci un attimo a verificare quale sia la spesa per appalti (forniture e servizi) nella PA. La risposta la fornisce la nota di aggiornamento al Def dello scorso settembre. La spesa per “consumi intermedi” ivi indicata è la seguente: 134.063 milioni nel 2014; 129.905 milioni nel 2015; 132.002 milioni nel 2016; 133.984 milioni nel 2017; 135.139 milioni nel 2018 e 137.916 nel 2019.
Come si nota, a parte la riduzione del 2015 (ancora da verificare), la spesa per i contratti pubblici lungi dal diminuire, si prevede che continui gradualmente ad aumentare per esplodere tra il 2018 e il 2019.
Alla storia, dunque, che con le 35 centrali uniche di committenza si possano ottenere chissà quali risparmi non crede nemmeno il Governo. Il fatto è che il Def (documento di programmazione finanziaria) non lo conosce e non lo legge quasi nessuno, mentre lo slogan della riduzione delle centrali di appalto come strumento per ridurre la spesa pubblica viene sbandierato ai quattro venti di continuo, sicchè passa per vero e possibile.
Tra l’altro, il risparmio di 1,5 miliardi sui 132 previsti nel 2015, corrisponde all’1,14% del totale. Cioè, il grado di efficienza delle 35 centrali sarebbe dell’1,14%!
Che il tutto sia nel suo complesso uno specchietto per le allodole e che anche lo stesso irrisorio risparmio immaginato dal disegno di legge di stabilità risulti scritto sull’acqua lo dimostrano altre importanti circostanze.
Una è la determinazione 11/2015 dell’Anac (ne abbiamo già parlato sul n. 35/2015 de La Settimana degli Enti Locali), con la quale si esclude dal campo di azione delle 35 centrali di appalto praticamente la metà degli appalti di servizi e forniture: quelli indicati dall’Allegato IIB al codice dei contratti.
Considerando che il sistema di centralizzazione degli appalti nel suo complesso finisce per non contemplare gli appalti di lavori sotto la soglia comunitaria, già senza la legge di stabilità 2016 a ben vedere la “centralizzazione” appare piuttosto limitata.
Ma, lo stesso disegno di legge di stabilità inferisce altri colpi violentissimi alla “centralizzazione”. Infatti, prevede di modificare le “famigerate” disposizioni riguardanti gli obblighi dei comuni di avvalersi delle centrali, distribuite tra articolo 33, comma 3-bis, del d.lgs 163/2006 e articolo 23-ter, comma 3, del d.l. 90/2014, convertito in legge 114/2014. In particolare, il disegno di legge intaccherebbe il comma 3 ultimo citato, estendendo a tutti i comuni, e non solo più a quelli con popolazione superiore ai 10.000 abitanti, la possibilità di procedere autonomamente alle acquisizioni di beni, lavori e servizi di importo inferiore ai 40.000 euro.
D’improvviso, rispunterebbero fuori 8.100 centrali d’acquisto, intente a gestire migliaia e migliaia di procedure d’appalto, sia pure di valore limitato. In barba a qualsiasi sogno di centralizzazione.
E non finisce qui. Il disegno di legge demolisce in un altro punto essenziale l’edificio malcerto della “centralizzazione”, laddove prevede che fino al 31 dicembre 2016 (data che si può essere certi sarà continuamente prorogata) per le categorie merceologiche per le quali è obbligatorio utilizzare le convenzioni Consip (si pensi all’articolo 1, comma 7, del d.l. 95/2012, convertito in legge 135/2012) sarà possibile derogare all’obbligo medesimo, a condizione che le amministrazioni effettuino le acquisizioni o da altre centrali di committenza, oppure a seguito di procedure di gara autonomamente gestite che prevedano corrispettivi inferiori del 10% rispetto a quelli resi disponibili nelle convenzioni Consip e delle altre centrali di committenza.
Dunque, salta anche un caposaldo della spending review dell’era Monti, l’obbligo di utilizzare le convenzioni Consip per un certo lotto di forniture e servizi.
La norma contenuta nel disegno di legge di stabilità ha un che di incredibile: in sostanza, ammette che i prezzi di Consip e cugine possano, di per sé, non essere congrui nel mercato, visto che dà per scontata la possibilità di ottenere prezzi più bassi ancora del 10% mediante gare ad evidenza pubblica. Per altro, chiunque conosca il sistema, sa perfettamente che gestendo gare di appalto con i prezzi Consip a base d’asta, fioccano ribassi rilevantissimi.
Il disegno di legge è quasi la certificazione di un sistema che per un verso non funziona, per altro verso è estremamente velleitario e lascia estremamente perplessi sulle vere ragioni alla base della scelta di costituire 35 centrali d’acquisto.
E’ lecito chiedersi a cosa servano, se gli appalti di lavori pubblici di limitata portata sfuggono completamente, se tutti i contratti sotto i 40.000 euro non sono contemplati, se intere categorie di appalti (servizi di formazione, legali, trasporto, alberghieri, collocamento, sociali, etc…) dell’allegato IIB non entrano nella gestione, se anche per le categorie merceologiche obbligatorie è possibile derogare.
Il sospetto che si tratti di una piccola o grande bufala, che ha sortito la costituzione di qualche altra decina di società pubbliche costose e poco efficienti viene ed è piuttosto forte.
D’altra parte, chi scrive da sempre ha espresso motivati e rilevanti dubbi sulla funzionalità dell’idea velleitaria di ridurre le centrali d’acquisto a poche decine.
In primo luogo, perché pretendere d’improvviso di passare da decine di migliaia di centrali (che non sono affatto 30.000 e oltre, ma circa 15.000; il computo di 30.000 considera non gli enti, ma i soggetti, dirigenti e responsabili di servizi che svolgono le procedure di appalto ) a sole 35 non è per nulla impresa semplice e questo lo capisce anche un bambino.
In secondo luogo, perché la meritoria ed utile esperienza della Consip insegna: la società opera quasi da 15 anni, ma non è mai riuscita ad estendere più di tanto il campo delle proprie convenzioni, limitate a pochissime categorie merceologiche. Non si vede perché le altre 34 società appena nate, dovrebbero riuscire a far meglio.
Del resto, immaginare che poche decine di soggetti possano fare fronte alle esigenze di acquisto di migliaia di amministrazioni e per importi complessivi di 135 miliardi l’anno circa, è vivere nel mondo dei sogni. E lo spiega bene un piccolo commento “di redazione” del Corriere della sera del 17/10/2015, dal titolo “I tagli delle centrali d’acquisto”: “Dalle riduzione delle centrali d'acquisto della pubblica amministrazione arriva buona parte dei (pochi) tagli alla spesa pubblica previsti dal governo. Ma nel disegno di legge di Stabilità c'è anche una misura m controtendenza. Per le forniture di beni e servizi fino a 40 mila euro potranno procedere da soli tutti i Comuni e non solo quelli al di sotto dei io mila abitanti, come previsto finora. L'obiettivo è non «intasare» le centrali d'acquisto per piccole gare”.
Si è, evidentemente, “scoperto” (con debito ritardo) che le centrali d’acquisto non avranno mai la forza, la quantità di risorse organizzative ed umane, necessarie per raggiungere l’impossibile obiettivo della reale riduzione degli uffici addetti agli acquisti.
Esse non potranno che concorrere alla razionalizzazione del sistema degli appalti, senza poter diventare i centri gravitazionali esclusivi.
Non occorreva molto a capirlo quando le idee erano ancora a livello di progetto astratto negli scritti di Cottarelli. E’ chiaro che scendendo nei dettagli operativi, man mano si è compresa la debolezza e velleità dell’impostazione. Senza, tuttavia, fare una reale marcia indietro, né cessare con la propaganda.
Purtroppo, le conseguenze di questo modo di operare sono la complicazione ulteriore del sistema; alle decine di migliaia di stazioni appaltanti non si sostituiranno, ma si aggiungeranno le 35 centrali d’acquisto e le regole per la ripartizione delle competenze si complicheranno sempre più.
Non solo: come viso prima, gli effetti sulla spesa pubblica saranno sostanzialmente nulli.
Inesistenti saranno anche influssi sul problema della legalità degli appalti, visto che, di fatto, essi resteranno in grandissima parte attestati presso i singoli enti.
Il tutto avrebbe potuto trovare una soluzione estremamente più semplice. E’ vero: coloro che pensano, come chi scrive, al ritorno ai controlli preventivi di legittimità sono visti come “nostalgici” di un sistema amministrativo passato e poco funzionale. Pare altrettanto vero che le “moderne riforme”, se sono come quelle delle centrali uniche d’appalto, non portano da nessuna parte.
Per avere uno strumento di controllo sia della spesa, sia della legalità degli appalti, può anche essere utile avere alcune centrali pubbliche capaci di intervenire sul mercato, per incidere sui prezzi correnti ed orientare, quindi, le basi di gara. Più importante ancora è, invece, la funzione di indagine sui prezzi, compito oggi dell’Anac, necessaria per imporre alle amministrazioni di fissare i propri computi estimativi rigidamente nel rispetto degli standard.
A quel punto, è sufficiente istituire presso le regioni o le prefetture o, perché no, nelle vituperate province, strutture di controllo, col compito di passare al vaglio bandi e progetti, prima della loro efficacia, allo scopo di verificare se siano rispettati i parametri di prezzo o gli strumenti di acquisto imposti dalla legge. Prevedendo che tali strutture siano funzionalmente dipendenti dalla Corte dei conti o dall’Anac e, dunque, totalmente indipendenti dalle amministrazioni, ed aggiungendo pesanti responsabilità per chi rediga bandi e progetti non idonei al controllo, il sistema potrebbe funzionare con minori costi e migliori risultati, magari provando così anche ad utilizzare in maniera più produttiva dirigenti ed esperti amministrativi presenti nelle PA, molte volte dispersi in incarichi ed impieghi di non percepibile utilità.
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RispondiEliminaIo sono uno dei 35000; nel mio comune (4000 abitanti) siamo in 4. Basterebbe che le procedure di gara siano affidate all'unico soggetto competente (Segretario comunale) che 35000 diventa di colpo 8000. In più si ripristinerebbe una sorta di controllo preventivo. Il Segretario comunale, infatti, oggi controlla a posteriori; sorteggia, dopo un anno, due o tre determinazioni dei responsabili di servizio che, ormai, hanno giá prodotto effetti.
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