sabato 10 ottobre 2015

Dimissioni per "scontrini"? Spese di rappresentanza: è ora di definirle in modo chiaro

Le dimissioni del sindaco di Roma, scatenate all’ultimo dalla pubblicazione delle fatture e scontrini dei ristoranti, dimostrano quanto sia necessario disciplinare una volta e per sempre e con chiarezza le “spese di rappresentanza”.

Il tema, che si dimostra estremamente sensibile. Occorre ricordare che nei mesi e negli anni passati interi consigli e giunte regionali sono cadute per questioni in tutto analoghe: i rimborsi delle spese riconosciute dalle leggi regionali per consentire i rapporti con i collegi elettorali e il dipanarsi delle attività politiche proprie di assessori e consiglieri.

Nella realtà, il continuo ricorrere di procedimenti giurisdizionali sia in sede penale che in sede contabile oltre a dare la sensazione di una diffusa illegittimità, dimostra anche e soprattutto l’inaccettabile vuoto normativo che perdura da anni sul tema.

La legge, infatti, menziona più volte le spese di rappresentanza, come, ad esempio, una delle più rilevanti manovre finanziarie degli ultimi anni: il d.l. 78/2010, convertito in legge 122/2010. L’articolo 6, comma 8, di tale norma dispone: “a decorrere dall'anno 2011 le amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate dall'Istituto nazionale di statistica (ISTAT) ai sensi del comma 3 dell'articolo 1 della legge 31 dicembre 2009, n. 196, incluse le autorità indipendenti, non possono effettuare spese per relazioni pubbliche, convegni, mostre, pubblicità e di rappresentanza, per un ammontare superiore al 20 per cento della spesa sostenuta nell'anno 2009 per le medesime finalità”.

Come si nota, la norma si limita a disporre l’obbligo di ridurre le spese di rappresentanza, ma in un caotico unicum con spese di altra natura, senza però aver definito in cosa consistano dette spese.

Il difetto maggiore è proprio l’assenza di una norma capace di indicare esattamente quale possa essere il limite di spesa “accettabile” entro il quale gli organi di governo risultino legittimati ad effettuare spese di rappresentanza e, soprattutto, quali siano le spese ammissibili.

Tutto questo, rende il sistema sfuggente e scivoloso, lasciato sostanzialmente all’interpretazione soggettiva. Secondo il sindaco di Roma dimissionario, ad esempio, è stato perfettamente possibile ed utile una spesa da 3.500 euro per una cena finalizzata a convincere un mecenate a donare 2 milioni alla Capitale, per restaurare alcuni monumenti. Ma, mancando un parametro qualsiasi per determinare se tale spesa sia effettivamente ammissibile e legittima, tutto rimane nella nebbia e scatena indagini giudiziarie magistratura contabile per verificare eventuali danni erariali, nonché della magistratura penale per chiarire la commissione ad esempio del reato di peculato.

Dal canto suo, proprio la magistratura fa moltissima fatica a fornire delle spese di rappresentanza una definizione capace realmente di indicare vincoli e limiti per la loro legittima erogazione.

Certo, l’articolo 16, comma 26, del d.l. 138/2011, convertito in legge 148/2011, dispone che “le spese di rappresentanza sostenute dagli organi di governo degli enti locali sono elencate, per ciascun anno, in apposito prospetto allegato al rendiconto di cui all'articolo 227 del citato testo unico di cui al decreto legislativo n. 267 del 2000”. Il decreto del Ministero dell’interno 23 gennaio 2012 che ha approvato lo schema del prospetto non contiene alcuna indicazione per determinare le spese di rappresentanza, limitandosi a rinviare ai regolamenti adottati dagli enti.

Ma, nemmeno i regolamenti sono sufficienti per un minimo di chiarezza di questa materia. Infatti, le sezioni regionali di controllo della Corte dei conti, cui deve essere trasmesso il prospetto, “autodeterminano” i principi in base ai quali stabilire se le spese rendicontate siano considerate ammissibili, riferendosi a concetti certamente condivisibili, ma talmente astratti da non potersi considerare come parametri per la misura a priori della legittimità della spesa. Infatti, si parla di necessità di finalizzare le spese a mantenere o accrescere il prestigio dell’ente verso l’esterno, ma nel rispetto dell’inerenza della spesa ai fini istituzionali. Ma, nella sostanza, cosa vuol dire? Una cena con un mecenate per convincerlo a finanziare progetti rientra in questo parametro? Le sezioni poi affermano che le spese devono essere “congrue” sia rispetto ai valori di mercato sia rispetto alle finalità per le quali sono erogate. Ma, poi, come si misura la congruità? Entro un minimo, un massimo, un confronto? La Sezione regionale di controllo della Lombardia, con delibera 443/2013 ha considerato non congrue spese di rappresentanza consistenti in addobbi floreali, manifesti, servizi fotografici affrontate dal comune interessato per la festività del 25 aprile, per la giornata delle Forze armate e per la giornata della riconoscenza; tutte spese non superiori ai 3.500 euro, ritenute non congrui, però, considerata la dimensione dell’ente locale e la finalità perseguita.

Ovviamente, il criterio della dimensione dell’amministrazione che eroga le spese non è disciplinato in nessuna norma di diritto positivo, mentre le valutazioni sui fini, se non fissate in diritto positivo, possono solo dare corpo a dibattiti infiniti, senza mai trovare un elemento certo.

Eppure, il diritto dovrebbe assicurare, appunto, certezza: un precetto (obbligo di fare o di non fare) chiaro, misure determinate o determinabili, così da orientare i comportamenti in modo lineare e, dunque, parametrare giudizi di incongruità sulle dimensioni preventivamente stabilite e non attraverso giudizi induttivi, espressi di volta in volta.

Sembra oggettivamente che tutto ciò sia spropositato. Sarebbe assolutamente necessario che il legislatore stabilisca quanto un sindaco può spendere, per quali destinazioni e quali voci, entro quali limiti. Come è possibile che la carta di credito intestata ad un sindaco possa accrescersi nel suo valore da 10.000 a 50.000 euro al mese? Non è evidente che occorre fissare un simile tetto in modo preventivo per tutti?

Non sarebbe, comunque, sbagliato creare un’area di libertà ed autonomia della spesa entro specifici limiti. E’ certamente opportuno che i sindaci limitino al massimo la spesa di denaro pubblico e la indirizzano verso attività utili per la collettività. Altrettanto chiaro è che chi impersona un ente rappresentativo, specie se intesse necessariamente relazioni di ogni genere con altre istituzioni, enti, imprese, associazioni, non può non avere quel margine di manovra per intessere ovvie relazioni sociali ed istituzionali, che richiedono spese per un catering, un omaggio, un servizio multimediale da pubblicare, una visita guidata.

E’ impensabile ingabbiare sempre tutto. Soprattutto in un ambito, come quello delle spese di rappresentanza o i rimborsi spese, che dà in maniera facilissima la stura al più becero dei populismi. In effetti, Marino, se davvero ha pagato cene non pertinenti al ruolo di un sindaco, ha sbagliato. Tuttavia, la caduta del sindaco di Roma rischia di passare come un “effetto scontrino”, mentre invece è l’epilogo quasi inevitabile di problemi e mali di ben altro e molto più grave genere.

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