giovedì 28 gennaio 2016

Cosa insegna il caso Cev

L’indagine sul Consorzio Energia Veneto (Cev) ed i suoi vertici dovrebbe fornire preziosi insegnamenti a chi ritiene che per problemi complessi siano sempre disponibili soluzioni semplici.

Nel caso di specie, la questione complicata e delicata si chiama revisione della spesa o, per chi ama gli inglesismi, spending review, che qualche Solone molto ben informato, proveniente da istituzioni internazionali, ha ritenuto di poter contribuire a perseguire mediante l’ideona della riduzione delle stazioni appaltanti a sole poche decine. Allo scopo, secondo il progetto, di ottenere:

  1. riduzione dei costi;

  2. maggiore trasparenza;

  3. lotta alla corruzione.


Come è noto, questa idea, per quanto potesse da subito apparire bislacca, ha avuto talmente tanto seguito, che è stata realizzata, attraverso la complessa, intricata, involuta, ingarbugliata, di difficile e lunga attuazione ed ancor più inesplicabile comprensione normativa scaturente dall’articolo 9 del d.l. 66/2014, convertito in legge 89/2014.

E così, ci ritroviamo con 34 “soggetti aggregatori” che dovrebbero riuscire a debellare la corruzione, ridurre i costi, semplificare l’azione amministrativa.

Sono passati solo pochi mesi da quando il Cev, indicato tra questi soggetti aggregatori è entrato nella bufera, esattamente perché la sua attività di soggetto aggregatore, secondo quanto emerge dall’inchiesta, non avrebbe:

  1. consentito di ridurre i costi;

  2. assicurato maggiore trasparenza;

  3. eliminato la corruzione.


Al contrario, secondo le indagini (ovviamente, il tutto è ancora da dimostrare) il consorzio null’altro sarebbe stato se non una scatola vuota, ma utile assai per convogliare le risorse di migliaia di comuni relative agli appalti dell’energia esclusivamente verso aziende i cui assetti proprietari sono tutti quanti riconducibili ad alcuni vertici amministrativi del consorzio.

Insomma, il Cev pare abbia posto in essere una mega truffa, un sistema scientifico di turbativa d’asta, per mettere fuori gioco i concorrenti dagli appalti che ha gestito per conto delle amministrazioni che si sono affidate alla sua funzione di centrale unica, in modo da far aggiudicare gli appalti alle sole ditte di riferimento. Un vero e proprio “cartello” anticoncorrenziale, travestito con la veste nobile di “soggetto aggregatore”.

Occorre dare atto all’Anac che con la deliberazione del consiglio 22 luglio 2015, n. 58, ha inserito il Cev tra i 34 “soggetti aggregatori”, ma con riserva: si legge nella delibera che l’inserimento del Cev nel consorzio è sottoposto alla “condizione che venga effettuata la modifica statutaria volta ad eliminare la possibilità, anche solo in linea teorica, della partecipazione di privati nella compagine sociale e di qualsiasi vocazione commerciale dello stesso”.

Insomma, all’Autorità anticorruzione qualcosa non tornava. Ma, non è evidentemente bastato. Del resto, rispetto ai contenuti dell’indagine in corso sul Cev, la modifica statutaria richiesta dall’Anac sarebbe servita davvero a poco: il problema non sarebbe stato tanto quello della partecipazione di privati nella compagine sociale (ovviamente da evitare, per scongiurare conflitti di interessi), quanto, piuttosto, quello di rendersi conto che il Cev avrebbe potuto essere solo uno strumento per convogliare gli appalti verso specifiche ditte, pur non essendo queste direttamente coinvolte nell’accordo consortile.

Allora, cos’è che insegnerebbe la vicenda? Molto. In primo luogo: l’Anac non è infallibile. Ha certo paventato che qualcosa nel Cev non andasse esattamente per il verso giusto, ma non ha avuto gli strumenti per comprendere esattamente cosa; dunque, lo ha inserito tra i 34 soggetti aggregatori che dovrebbero salvare la Patria dai problemi degli appalti, sia pure con riserva.

In secondo luogo: proprio perché le autorità e le istituzioni amministrative dispongono comunque di poteri di indagine ed istruttori limitati, per combattere i reati occorre l’apporto irrinunciabile della magistratura e delle forze di polizia, capaci di rilevare davvero i reati.

In terzo luogo: la funzione di prevenzione della corruzione ovviamente non può giungere al punto di cancellare totalmente dal sistema conflitti di interessi e comportamenti che subordinino l’interesse pubblico a quello di pochi privati. Tuttavia, dovrebbe risultare evidente che proprio per queste ragioni non appare del tutto producente confidare in strumenti miracolistici, in grado di per sé di ottenere obiettivi come l’assoluta riduzione del rischio di reati nella gestione degli appalti o la riduzione dei costi.

In quarto luogo: non è per nulla dimostrabile che la riduzione delle stazioni appaltanti metta meglio al riparo da reati e distorsioni nella gestione degli appalti. E’ certo vero che troppe stazioni appaltanti, specie se piccole e non professionalmente strutturate, espongono a rischi di contenzioso amministrativo e alla corruzione.

Altrettanto vero è, però, che i rischi di corruzione aumentano esponenzialmente all’aumentare del valore degli appalti, sì che conformano non tanto gli appalti ordinari dei comuni (asfaltature di strade, manutenzioni di scuole, opere, comunque, di limitata portata locale o servizi circoscritti), bensì contratti di portata elevatissima, come hanno insegnato i recenti casi Mose e Mafia Capitale.

L’aggregazione della committenza può rivelarsi, paradossalmente, un incremento del rischio: si riduce il numero delle persone dotate di potere decisionale e da corrompere, si eleva il valore delle fette di torta da distribuire col malaffare, si può incidere in modo fortissimo sulla concorrenza, creando oligopoli e cartelli, in grado di escludere dal mercato degli appalti le aziende non facenti parte del “giro”. Il caso Cev è assolutamente paradigmatico esattamente di questo tipo di rischi.

Occorre, allora, buttare il bambino con l’acqua sporca? Certamente no. Ma sarebbe necessaria una revisione profondissima del modo col quale si vogliano ottenere i due benefici della messa sotto controllo dei prezzi degli appalti, da un lato, e della lotta alla corruzione dall’altro.

Non occorrono affatto 34 soggetti aggregatori, che poi è difficile tenere sotto controllo ed evitare che si rivelino rimedio peggiore del male. Per conseguire i condivisibili ed irrinunciabili obiettivi enunciati prima bastano:

  1. la Consip spa, purchè essa riesca ad estendere e non di poco il ventaglio delle categorie merceologiche oggetto delle convenzioni;

  2. la creazione di un elenco amplissimo e continuamente aggiornato di prezzi di riferimento per le varie categorie merceologiche che, comunque, sfuggano al sistema delle convenzioni.


Un solo soggetto aggregatore è più semplice da controllare. E, se sufficientemente dotato, può garantire tantissime convenzioni. Le quali non dovrebbero nemmeno essere obbligatorie per le amministrazioni. Basterebbe semplicemente sottoporre a controllo preventivo di legittimità tutti i provvedimenti di indizione delle gare, per verificare:

  1. se vi siano ragioni tecniche perché il capitolato prestazionale possa essere diverso da quello delle convenzioni Consip e, in caso contrario, impedire l’appalto;

  2. che il provvedimento di indizione comunque utilizzi il prezzo della Consip come base di gara;

  3. che il provvedimento di indizione evidenzi che il risparmio prevedibile ulteriore rispetto al prezzo Consip, copra i costi amministrativi e gestionali della gestione della procedura di gara, tutto compreso.


E’ facile immaginare che i fautori della “modernità” considereranno l’idea di tornare ai controlli preventivi una borbonica ed antiquata idea, tale da far tornare indietro le lancette dell’orologio e creare ostacoli burocratici.

Non sembra, tuttavia, che la moderna scelta di aver eliminato del tutto i controlli preventivi abbia portato buoni frutti. E dell’idea dei soggetti aggregatori dice tutto l’inchiesta sul Cev.

Infine, un’ultima riflessione. Quanti dei comuni che hanno utilizzato il Cev avranno considerato tale strumento come modalità, prevista dal piano triennale anticorruzione, per ridurre il rischio connesso agli appalti? Probabilmente un bel po’. A riprova che lottare contro la corruzione si deve e misure siano necessarie, ma che di piani, di “analisi del contesto”, di “consultazioni degli stakeholders”, di “soggetti aggregatori”, si può morire. L’Italia doveva adottare una normativa anticorruzione perché in ritardo rispetto a tutte le altre Nazioni: ma ha prodotto una normativa farraginosa, eccessivamente burocratica, tanto che tra i disegni di decreti legislativi attuativi della legge 124/2015 si prevede, opportunamente, una drastica (ma ancora insufficiente) riduzione delle centinaia di adempimenti imposti dal d.lgs 33/2013 sulla trasparenza.

Visto che uno degli strumenti principali non solo della revisione della spesa, ma anche della lotta alla corruzione negli appalti, cioè l’insieme dei soggetti aggregatori, ha manifestato così presto le insite debolezze, prendersi una pausa e rivedere la normativa, rendendola meno irta di adempimenti e pagine e pagine da scrivere, e molto più utile e concreta (i controlli sono concretissimi e semplicissimi da mettere in pratica), appare ormai indispensabile.

 

 

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