Il nuovo codice degli appalti non è ancora entrato
in vigore, ma da subito si sono scatenati aruspici e vaticinanti, che prevedono
miracolosi effetti da una riforma, che per altro è imposta dall’Europa.
Infatti, si tratta di un recepimento di una direttiva che se non avvenisse
entro il 18 aprile determinerebbe l’autoapplicazione della direttiva medesima.
Primo mito: si tratta di una
delle “riforme” del Governo per rilanciare l’Italia. Anche no,
proprio
perché, come rilevato poco sopra, non è una riforma spontanea, ma “spintanea”
indotta dalla Direttiva 2014/24/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del
26 febbraio 2014 e da approvare entro il 18 aprile. Dunque, stiamo arrivando
con buon ritardo e al limite del tempo massimo.
Secondo mito: si rilanciano i
cantieri. E’ come per la riforma del lavoro, il Jobs Act: si vuol far
credere che il lavoro aumenti, o i cantieri delle opere pubbliche si rilancino,
perché si modificano le regole giuridiche.
E’, invece, ovvio che non sia
così. Il rilancio dei cantieri non dipende per nulla dalle regole degli
appalti. Certo, più chiare ed “asciutte” esse sono, meglio è, allo scopo di
ridurre il contenzioso ed i margini di incertezza. Ma, i cantieri si rilanciano
solo se aumentano gli investimenti pubblici, cioè se vi sono risorse
disponibili, non per effetto del codice dei contratti.
Basta dare un’occhiata al Def
(documento di economia e finanza), tuttavia, per rendersi conto che gli
investimenti pubblici sono in costante diminuzione per capire che si tratta di
un falso mito.
Terzo mito: si tratta di un
codice molto più snello grazie alla soft regulation. Il codice dei
contratti ancora vigente per pochi giorni conta 253 articoli del d.lgs 163/2006
contro i 217 della riforma… Non sembra che si tratti di una riduzione troppo
significativa. Certo, se aggiungiamo anche gli articoli del regolamento di
attuazione, il dpr 207/2010, allora non c’è storia.
Ma, siamo sicuri che con la soft
regulation affidata all’Anac le regole saranno meno di prima? C’è un’esperienza
di soft regulation oggi già vigente: riguarda la riforma della contabilità,
affidata non più solo alla legge ma ai “prinicipi contabili”, allegati al d.lgs
118/2011 ed aggiornati da un’apposita commissione tecnica.
Ebbene, dove prima v’erano poche
decine di articoli posti a disciplinare la contabilità degli enti locali, per
esempio, oggi vi sono pagine e pagine di regole contorte, astruse,
contraddittorie, non sintetizzabili, di “principi contabili”, che rendono
sovrabbondante e farraginosa la disciplina.
Il rischio che l’Anac possa
produrre, tra linee guida, pareri, delibere, Faq, una quantità inestricabile di
grida manzoniane è elevatissimo. Verificare, per credere, la quantità
spaventosa di questi atti già presenti sul sito dell’Autorità.
Quarto mito: si riducono le
stazioni appaltanti. Anche no, se sotto i 40.000 e i 150.000 euro si
potranno continuare a realizzare gare in autonomia anche da parte dei piccoli
comuni.
Si apre, al contrario, il rischio
di un frazionamento “furbetto” degli appalti, anche indotto dall’obbligo di
suddivisione in lotti.
Quinto mito: con le centrali
uniche di committenza si risparmia. Ma, sempre il Def dice altro: la spesa
pubblica per acquisizione di beni e servizi è prevista in costante aumento da qui
al 2019. Segno che i numeri non sono troppo d’accordo con le enunciazioni.
Sesto mito: l’offerta
economicamente più vantaggiosa assicura più qualità. Intanto, se fosse vero
che obiettivo del nuovo codice è risparmiare, l’estensione dell’offerta
economicamente, considerata utile per evitare ribassi selvaggi, dovrebbe
sortire l’effetto opposto (quindi occorrerebbe che gli agiografi della riforma
si mettessero d’accordo sui suoi effetti).
In realtà, comunque, la qualità
della prestazione richiesta all’appaltatore dipende dalla qualità della
progettazione, non dal criterio di gara. Se un progetto è fatto bene, nel
dettaglio, con la scelta di tecniche e materiali all’avanguardia, efficienti e
rispettosi dell’ambiente e del valore del lavoro, non si vede quale necessità
vi sia dell’offerta economicamente più vantaggiosa, che avrebbe poco da
specificare e migliorare rispetto a previsioni progettuali puntuali e di
qualità.
Settimo mito: aumenta la
qualità della progettazione. Ma, se la qualità della progettazione aumentasse
davvero grazie al codice, non si capisce perché l’estensione parossistica
dell’obbligatorietà dell’offerta economicamente più vantaggiosa.
Ottavo mito: le procedure sono
più snelle. In realtà, le procedure disciplinate dalla riforma sono identiche
a quelle già esistenti. Si spinge un po’ di più sulla digitalizzazione, che
aiuta, nella realtà, a controllare il flusso procedurale.
In ogni caso, ai fini
dell’esecuzione del contratto, stati di avanzamento, certificati di pagamento,
controlli, registri e verifiche, non c’è digitalizzazione che tenga: i tempi di
realizzazione delle prestazioni sono quelli legati dalla tecnologia e dalle
leggi della fisica spaziotemporale.
Nono mito: si riducono le
varianti. Le varianti sono in funzione della qualità della progettazione.
Se realmente questa fosse di migliore qualità, per mettere la parola fine alle
varianti, agli aumenti di costo, al contenzioso e ai rischi connessi di
corruzione, la soluzione sarebbe semplicissima: vietarle proprio del tutto.
Decimo mito: si qualificano le
stazioni appaltanti. In realtà, sarebbero da qualificare i progettisti.
In effetti, appare certamente
giusto spingere perché anche le amministrazioni pubbliche abbiano un rating di
qualità. Ma, il problema della qualità degli appalti, lo abbiamo ripetuto allo
sfinimento, non è risolto dal modo con cui si fa la gara, utile semmai per
evitare contenzioso, bensì nella buona progettazione.
La riforma del codice, a questo
proposito, che fa? Azzera la possibilità di incentivare i progettisti della PA,
inducendo a rivolgersi, dunque, ai professionisti privati, che, ovviamente,
ringraziano molto.
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