Nelle bozze di Def (Documento di
economia e finanza) approvato nei giorni scorsi dal Governo c’è un grande
assente: una tabella come quella che si riporta, tratta dalla nota di
aggiornamento al Def 2015, approvata lo scorso ottobre:
Tra ottobre 2015 e aprile 2016,
intanto si è preso atto di un cambiamento di scenario non di poco conto: la
previsione di crescita del Pil (prodotto interno lordo) si abbassa dall’1,6% di
qualche mese fa all’1,2% indicato dal Def attuale. E, visto che regolarmente le
previsioni di crescita sono sempre troppo ottimistiche, anche questa
indicazione è da prendere con molta prudenza.
Il fatto è che, al di là delle
indicazioni dal tono non poco propagandistico che accompagnano la gran parte
delle “riforme” che si attendono da 20 anni, il loro apporto complessivo ad un
miglioramento concreto della situazione finanziaria del Paese appare poca cosa.
Il Def 2015, pur astenendosi di
presentare un quadro chiaro del conto della PA, contiene la seguente tavola
posta ad illustrare gli effetti di lungo periodo delle riforme “copernicane”:
Come si nota, restando a quanto
di specifico interesse del mondo della pubblica amministrazione, si immagina
nel 2020 (da qui a 5 anni) un effetto di spinta sul Pil dello 0,4%. Poiché ogni
punto di Pil corrisponde a circa 16 miliardi di euro, lo 0,4% corrisponderebbe
a circa 6,4 miliardi di effetti benefici delle riforme riguardanti la pubblica
amministrazione, destinati a raddoppiare nel 2025 e a triplicare in un periodo
ancora più lungo.
Non è dato reperire nel
Documento il meccanismo concreto attraverso il quale conseguire da qui al 2020
tale miglioramento alla finanza pubblica dovuto alle riforme e, in particolare,
ovviamente, a quella connessa alla legge 124/2015. Nel paragrafo “Riforma della
Pubblica Amministrazione e modernizzazione del Paese” vi è una descrizione
(meglio dire, un’esaltazione) della legge 124/2015, senza alcuna correlazione “causa
effetto” tra la riforma-Madia e gli effetti finanziari previsti.
Qualcosa di più si capisce
andando a cercare dati e informazioni sull’unica voce della spesa pubblica
realmente sotto controllo e in discesa costante, il lavoro pubblico. Si legge
nelle bozze di Def 2016: “Nel settore del
pubblico impiego è stato rafforzato il blocco del turn-over per il periodo 2016-2018
nella misura del 25 per cento dei risparmi derivanti dalle cessazioni (al netto
degli effetti fiscali e contributivi pari a 23 milioni nel 2016, 81 milioni nel
2017 e 164 milioni nel 2018). Sono state, inoltre, limitate e ridotte le
risorse per il trattamento economico accessorio degli addetti (36 milioni
annui)”.
Il quantitativo di risparmi
derivante dal blocco del turn-over fino al 2018 (ma, quanti sono disposti a
scommettere che non vada oltre negli anni?) e dalla riduzione per il
trattamento accessorio dei dipendenti non è, comunque, rilevantissimo.
Sta di fatto, comunque, che con
queste cifre, un fatto risulta evidente: il “rilancio” della contrattazione
collettiva dovrà necessariamente fare i conti con risorse scarsissime. I famosi
300 milioni stanziati dalla legge di stabilità per i rinnovi nel settore
statale appaiono oggettivamente già un “lusso”. Per altro, i sindacati che
spingono per il “rinnovo subito” forse non hanno ben chiaro un elemento
decisivo: a fronte dell’irrisorio incremento contrattuale, scatterebbe l’operatività
delle famose tre fasce introdotte dal d.lgs 150/2009. Questo significa che ad
almeno un quarto dei dipendenti pubblici non sarà riconosciuto più alcun
trattamento collegato al risultato. Nel solo caso degli enti locali, i 159
milioni circa destinati al risultato (dati Conto annuale 2014) verrebbero spesi
solo per il 75%, con un risparmio ulteriore della spesa pubblica pari a 39,75
milioni circa. Dunque, anche se il Def e, in realtà nessuno, lo dice, dal
rinnovo dei contratti deriverebbero cifre di risparmio sulla spesa di personale
piuttosto significative.
Sorge, allora, il dubbio che il
contributo alla finanza pubblica derivante dalle riforma della PA possano
derivare dalla strategia della riduzione delle stazioni appaltanti. Il Def ci
informa che “tale approccio consente di effettuare
meno gare per le categorie merceologiche, con una maggiore standardizzazione
delle procedure di acquisto, e di realizzare minori differenze di prezzo per
l’acquisto degli stessi beni e servizi, con conseguenti possibili risparmi, senza
compromettere la qualità dei servizi. Alcuni risultati su questo fronte sono
già stati conseguiti: la rilevazione effettuata nel 201513 - sugli acquisti
realizzati nel 2014 - segnala una complessiva riduzione dei prezzi unitari di acquisto
per 20 categorie merceologiche, individuate nel paniere tra quelle più comunemente
utilizzate dalle amministrazioni. Inoltre, grazie alla forte interazione tra i
vari comparti dello Stato, il MinSalute, l’ANAC e tutti i soggetti
territoriali, si sono concentrati gli acquisti di 19 categorie di beni e
servizi, soprattutto di carattere sanitario, attraverso 33 centrali di acquisto”.
Non si mette in dubbio che i
prezzi unitari di acquisto possano essersi ridotti, grazie alle centrali di
committenza. Ma, il Def 2016 non chiarisce quale riduzione complessiva della
spesa per appalti vi sarebbe; né modifica o contraddice il dato della nota di
aggiornamento 2015 che, come si nota tornando alla prima tabella sopra, cresce
tra il 2015 e il 2016 di oltre 2 miliardi ed è prevista in costante crescita
ogni anno.
Le riforme della PA intanto
entrate in vigore, poi, hanno aiutato l’economia? Per esempio, tutte le “grandi
manovre” per sbloccare i debiti, quanto efficaci sono state? La bozza di Def
afferma: “Dall'1 luglio 2014 al 31
dicembre 2015 la piattaforma per il monitoraggio dei crediti commerciali verso
le pubbliche amministrazioni ha riscontrato che, a fronte di 21,5 milioni di
fatture registrate, per 129 miliardi,
sono state pagate 8,9 milioni di fatture per 60,5 miliardi, con un tempo medio di 46 giorni, che scende a 44 per
gli ‘enti attivi’. Gli enti qualificati come attivi sulla piattaforma (se intervengono
su oltre il 75% delle fatture registrate a loro indirizzate) sono 7.400. L’adesione
alla piattaforma di monitoraggio da parte di tutte le pubbliche amministrazioni
ha l’obiettivo di disporre delle informazioni di pagamento sul 90 per cento
delle fatture registrate entro la fine del 2016 e sul 99 per cento delle fatture
registrate entro il 30 giugno 2017. Considerando il numero delle amministrazioni
coinvolte e dei relativi servizi, il completamento dell’adesione al sistema e
alla programmazione delle attività d’implementazione dei servizi – in coerenza
con il piano di crescita digitale - dovrà avvenire entro dicembre 2016”.
Insomma, i debiti pregressi non
sono stati affatto azzerati, come pure era stato promesso in pompa magna. Al
contrario, i debiti sono tornati a crescere e oltre la metà del valore delle
fatture aspetta ancora di essere onorata.
Infine, la bozza di Def non
poteva sottrarsi dal compiere alcune valutazioni su una delle riforme più note
(e dagli effetti devastanti): quella riguardante le province, letta alla luce
della prova generale della “mobilità del personale”, futuro punto forte dell’attuazione
della legge 124/2015. Queste le considerazioni: “Alcune misure di razionalizzazione, rivolte in particolare al personale
della PA, sono state previste nella Legge di Stabilità per il 2016, anche al
fine di accelerare il passaggio del personale delle Province abolite. In particolare, per quanto riguarda i
processi di mobilità sarà assicurato il
pieno funzionamento a regime del Portale della mobilità, che nella prima
fase di esercizio si è focalizzato sull’identificazione dei percorsi di ricollocazione
del personale delle città metropolitane e degli enti di area vasta (ex
Province). Per favorire tali processi sono
state approvate le tabelle di equiparazione fra i livelli d’inquadramento previsti
dai contratti collettivi relativi ai diversi comparti di contrattazione del personale
non dirigenziale, che permetteranno la piena mobilità nella PA. Quanto al
personale complessivo, dai 41.205 dipendenti di province e città metropolitane
in servizio al primo gennaio 2015, cioè dall’entrata in vigore della normativa
sulle città metropolitane, sulle province, sulle unioni e fusioni di comuni, si
è passati ai 21.974 post riforma. La
riforma ha quindi consentito, tra il 2014 e il 2015, una riduzione stimata
della spesa pari a 1,5 miliardi per le province e le città metropolitane”.
Poche volte, in così poche
righe, si può assistere ad una serie così fitta di veri e propri strafalcioni.
Il primo riguarda l’abolizione
delle province. Che i media generalisti possano incorrere nell’errore,
grossolano e imperdonabile, di affermare l’abolizione delle province, è in
parte comprensibile, vista la propaganda di anni tendente alla loro abolizione.
Peccato, però, che la legge Delrio non le abbia abolite per nulla: appare,
allora, grave ed inaccettabile che sia un documento del Governo, promotore
della riforma delle province, ad incorrere nell’errore clamoroso di affermare
che le province sono state abolite.
Poi, si afferma che si farà in
modo – in futuro – di assicurare il pieno funzionamento a regime del portale
della mobilità. Un modo originale per dire lo stato delle cose a rovescia: il
portale non ha funzionato per nulla e, soprattutto, il sistema che ha
consentito alle amministrazioni di dichiarare quali posti fossero disponibili
per la mobilità, ha permesso alla gran parte di esse di tenere nascosti i dati.
Una quantità enorme di posti disponibili non sono stati caricati nel sistema
impunemente, senza che nessuno abbia controllato o sanzionato. Il risultato è
che in mezza Italia, nelle province del sud, il numero dei dipendenti
provinciali in sovrannumero è risultato superiore al numero dei posti
disponibili. E ancora non è emerso l’altro dato devastante: il mismatching tra
profili e qualifiche inseriti in piattaforma e quelli posseduti dai lavoratori
in mobilità. Se il sistema così mal gestito verrà esteso a tutta la PA in
futuro, senza controlli e senza l’obbligo degli enti di conferire tutti i posti
vacanti in dotazione organica (come invece era stato più saggiamente disposto
dal d.l. 95/2012), saranno in tantissimi i dipendenti pubblici a trovarsi nelle
ambasce dei dipendenti provinciali del Mezzogiorno, compresi i tanti che hanno
contribuito a tenere nascosti i dati.
Infine, la bozza di Def afferma
che la riduzione del numero dei dipendenti delle province (che poche righe
sopra si racconta essere state abolite…) ha comportato circa un risparmio di
spesa pari a circa 1,5 miliardi, qualificando questo dato come “risultato
significativo in termini di contributo al risanamento delle finanze pubbliche”.
Insomma, il Def vuol lasciare intendere che la manovra sulle province abbia
lasciato conseguire un risparmio per le finanze pubbliche appunto di 1,5
miliardi.
In primo luogo, il dato fornito non
è in alcun modo credibile. Il Def afferma che i dipendenti provinciali sono
passati da 41.205 a 21.974; dunque hanno interrotto il rapporto di lavoro con
le province in 19.231. Ma, se dividiamo l’importo del risparmio enunciato, pari
a 1,5 miliardi per il numero di dipendenti che ha lasciato le province, risulta
una retribuzione media per ciascuno di questi lavoratori di euro 77.999,06: un
dato completamente fuori da ogni parametro, posto che il costo medio del lavoro
dei dipendenti provinciali è di circa 29.000 euro l’anno.
Ma, anche fosse corretto – il che
non è – il dato, comunque non risulta per nulla vera la suggestione secondo cui
la somma di 1,5 miliardi di euro sarebbe un risultato per le finanze pubbliche.
Al netto, infatti, di circa 4.000 dipendenti andati in pensione, i restanti
circa 16.000 sono stati trasferiti dalle province ad altre amministrazioni.
Quindi, le finanze pubbliche non hanno risparmiato affatto 1,5 miliardi; la
gran parte di questa somma, stimabile in realtà in non più di 600 milioni, è
stata semplicemente spostata dai bilanci delle province a quelli degli enti in
cui sono stati trasferiti.
Un chiaro esempio di fallimento di una riforma (sulle province) che è stata la più sbagliata e incomprensibile della storia repubblicana. Solo caos, disagi e disservizi...zero risparmio effettivo e come dice Oliveri..soldi che si spostano...prima pagava la provincia ora paga la regione...ad esempio. Credo che un governo come il nostro non doveva minimamente intaccare l'apparato dello Stato. Poi se la sono presa con le province come capro espiatorio buttando fumo alla gente. Altra gravità è che non si è tenuto nemmeno conto di migliaia e migliaia di lavoratori e loro famiglie, come del rispetto per lavoratori che hanno dato l'anima e il cuore e che invece si sono trovati alla gogna. E dei servizi ai cittadini? Nella mia provincia dove è andato tutto alla regione...un povero anziano dovrà farsi 300 km per andare al capoluogo di regione per una pratica. Inoltre come mai diverse regioni hanno riallocato tutto alle province mentre altre dormono a sette cuscini? Non c'è omogeneità e si lascia alla discrezione delle regioni..ci troveremo in un marasma amministrativo senza precedenti e privo di senso. Una riforma seria non lascia dubbi e incertezze. Credo che sia proprio un vero e proprio fallimento senza precedenti. Bocciata. Il prossimo governo ripristini le province che sono l'ente più operativo e vicino al territorio e riduca se non abolisca le inutili regioni.
RispondiEliminaGli "strafalcioni" evidenziati nell'articolo sono reali e ormai noti agli addetti ai lavori,ma nascosti accuratamente alla opinione pubblica.
RispondiEliminaAggiungo due considerazioni :risparmi sul personale ,se vi sono ,sono modestissimi e anzi il trasferimento di dipendenti dalle province alle regioni comporta un aumento di spesa (gli stipendi dei dipendenti delle regioni e loro agenzie sono superiori a quelli delle province);il vero risparmio per le casse dello stato è nel trasferimento di quasi tutte le entrate delle province al Ministero delle Finanze provocando per legge dello stato il dissesto delle province (molte sono già in questa condizione e entro il 2017 lo saranno quasi tutte),ma dato che in servizi da erogare rimangono (non è pensabile chiudere strade,ponti e scuole,ecc.)quello che viene definito risparmio nei documenti del Governo è in realtà un enorme futuro" buco" di bilancio.......
Paolo Valenti
È da precisare, tuttavia, che il trattamento economico dei dipendenti provinciali trasferiti alle regioni resterà invariato.
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