Destano moltissime perplessità
le indicazioni fornite dall’Anac nell’aggiornamento 2016 del Piano Nazionale
Anticorruzione posto in consultazione in questi giorni.
Il documento elaborato dall’Autorità
finisce con ogni evidenza per travalicare il suo specifico ambito di competenza
e sfocia verso una lettura della rotazione collegata funzionalmente in modo del
tutto forzato e apodittico con la riforma della dirigenza delineata dalla legge
124/2015, così da creare un circuito perverso di precarizzazione e soggezione
della dirigenza alla politica. Più ancora di quanto la legge 124/2015 di per sé
non disponga.
Le premesse da cui parte l’Anac
sono condivisibili: “Per quanto riguarda
i dirigenti la rotazione ordinaria è opportuno venga programmata e sia prevista
nell’ambito dell’atto generale approvato dall’organo di indirizzo politico,
contenente i criteri di conferimento degli incarichi dirigenziali che devono essere
chiari e oggettivi. Il PTPC di ogni amministrazione deve fare riferimento a
tale atto generale (come, ad esempio, la Direttiva ministeriale che disciplina
gli incarichi dirigenziali) ove vengono descritti i criteri e le modalità per
la rotazione dirigenziale. Ciò anche per evitare che la rotazione possa
essere impiegata in modo poco trasparente, limitando l’indipendenza della
dirigenza. Per il personale dirigenziale, la disciplina è applicabile ai
dirigenti di prima e di seconda fascia, o
equiparati”.
Come si nota, l’Anac appare
consapevole che il potere degli organi politici di attribuire gli incarichi
dirigenziali espone qualsiasi procedimento ad azioni “poco trasparenti”,
ledendo l’autonomia dei dirigenti. Detto in parole meno diplomatiche, si pone
un rischio estremamente forte di condizionare l’assegnazione degli incarichi
non alla valutazione delle specifiche competenze, bensì all’appartenenza “militante”
ad un partito o ad una cerchia. Appartenenza capace di garantire la
reiterazione degli incarichi e anche prospettive di “carriera” ben più
interessanti.
Si tratta di una preoccupazione
eccessiva? Fatti di cronaca passati e recenti indicano il contrario. Andiamo ai
fatti recentissimi: il crollo del Lungarno a Firenze ed avvaliamoci delle
considerazioni di Peter Gomez nell’articolo pubblicato su Il Fatto Quotidiano
del 28 maggio 2016 dal titolo “La voragine non dipende da Renzi. La trasparenza
sì”.
L’articolo torna a ricordare
come in Publiacqua, ente addetto alla manutenzione dell’acquedotto di Firenze,
abbiano svolto funzioni nell’ambito del consiglio d’amministrazione, incaricati
come “manager” da parte del primo cittadino del capoluogo toscano, una serie di
persone caratterizzate da legami strettissimi di vicinanza politica e di
parentela, che dopo l’esperienza nell’ente hanno anche fatto “salti” molto alti
in politica o nelle istituzioni.
Osserva, dunque, in modo
caustico (e troppo generalizzante) Gomez: “Ma
il punto non sono le amicizie, i matrimoni o la militanza politica. Per come
vanno le cose in Italia, è inevitabile che nei posti di comando di una
partecipata specializzata in rifornimenti idrici ci finiscano degli
incompetenti”.
Un tratto caratterizzante della
vicenda di Firenze è che dei molti componenti gli organi di governo della
Publiacqua di esperienza manageriale e tecnica nella materia idrica non ne
avevano nessuna. Il presidente, del resto, per fare un solo esempio è passato
dalla carica di vertice dell’azienda dell’acqua alla direzione de L’Unità.
Non vi è dubbio alcuno che il
direttore de L’Unità abbia svolto le proprie funzioni in Publiacqua con coscienziosità
e la migliore capacità: certo è, però, che agli occhi di chi non conosca
esattamente le capacità della persona risulta molto strano che un giornalista
possa avere le capacità tecnico-manageriali che, pure, il primo cittadino di
Firenze gli riconobbe.
Il problema della “trasparenza”
cui si riferisce il Gomez è proprio questo: sarebbe fondamentale che la
selezione dei manager pubblici, ma lo stesso vale per i dirigenti pubblici,
avvenga in modo da non lasciare dubbi sull’opacità e, in particolare, il dubbio
che la nomina sia fondata non sulla valutazione delle competenze, bensì in
relazione alle appartenenze.
Il rimedio a questo rischio,
ricorda Gomez, dovrebbe consistere nel giudizio degli elettori: i sindaci, ma
tutti gli organi politici, dovrebbero essere spinti ad incaricare dirigenti e
manager capaci e competenti, così da non essere punti dagli elettori al momento
delle votazioni, nel caso di gestioni inefficienti. Ma, osserva ancora Gomez, “non è così e l'esperienza ce lo dimostra.
Per questo dal 1994 nel Regno Unito esiste un Commissario per le nomine
pubbliche, indipendente dal governo e nominato dalla Regina. Il suo compito non
è quello di scegliere gli amministratori, ma di sorvegliare sui criteri di nomina
che devono seguire un processo corretto, aperto e trasparente. Al ministro (o
al sindaco), cui spetta la parola finale, viene fornita una rosa di nomi da un
gruppo di esaminatori - tra i quali è sempre presente un Indipendent Public
Appointments Assessor - che ha valutato i candidati secondo criteri di merito,
probità e competenza. Tutta la procedura è documentata e il Commissario può
effettuare investigazioni a sorpresa. Controlli di questo tipo, destinati a
sfociare in un rapporto presentato ogni anno in Parlamento, evitano alla base
il rischio di vedere arrivare nei Cda degli incompetenti forti solo della loro
tessera di partito”.
La questione appare particolarmente
centrata e riguarda il sistema di regolazione dell’assegnazione degli
incarichi, che non può essere lasciato in mano esclusivamente al king maker politico, il quale inevitabilmente
finisce per utilizzare criteri politici e non tecnici.
Occorre un metodo per
controllare l’operato del soggetto che dispone del potere di nomina, per
scindere una dipendenza eccessivamente stretta tra nominante e nominato. Del
resto, è proprio il piano nazionale anticorruzione ad evidenziare i rischi
connessi a nomine ed incarichi lasciati alla sola discrezionalità (se non
arbitrio) della politica.
Conclude Gomez: “è sbagliato prendersela col Renzi sindaco
per il caso Publiacqua. Ma è invece giusto protestare perché il Renzi premier,
nella riforma Madia della Pubblica amministrazione, un Commissario alle nomine
pubbliche di stampo inglese nonio ha previsto”.
Anzi, esattamente all’opposto,
la riforma ha accentuato a dismisura il potere della politica di condizionare
la dirigenza, sia attraverso l’espansione del potere di nomina, solo
formalisticamente mediato da commissioni qualificate come “indipendenti” ma di
nomina politica, che potendosi limitare a fornire rose di candidati, saranno
certamente indirizzate ad inserire nelle rose esattamente quei soggetti graditi
alla politica, che, per altro, potrà continuare a reclutare al di fuori dei
ruoli unici creati i “dirigenti a contratto”, senza nemmeno concorsi. In più,
la riforma mira a limitare fortemente la durata degli incarichi, determinando
una precarizzazione formidabile della dirigenza, così da aumentare il potere di
ingerenza e condizionamento della politica. Sicchè il sistema della riforma
Madia oltre a non contenere alcuna forma di controllo sulle nomine, finisce per
sublimare il metodo selettivo in base al quale si fa carriera e si può puntare
su incarichi reiterati e anche divaricatissimi dalla propria esperienza
personale in misura direttamente proporzionale all’appartenenza politica.
Torniamo, allora, all’Anac e
alle indicazioni relative alla rotazione. Afferma l’ipotesi di aggiornamento
del PNA: “Negli uffici individuati come a
più elevato rischio di corruzione, sarebbe preferibile che la durata dell’incarico
fosse fissata al limite minimo legale. Alla scadenza, la responsabilità
dell’ufficio o del servizio dovrebbe essere di regola affidata ad altro
dirigente, a prescindere dall’esito
della valutazione riportata dal dirigente uscente”.
Abbiamo letto bene: la
valutazione non dovrebbe servire a nulla, a giudizio dell’Anac, ai fini della
rotazione dei dirigenti.
Certo, la rotazione è
considerata come uno strumento di prevenzione della corruzione da parte della
normativa. Quindi, come strumento operativo potrebbe essere letto come modalità
autonoma ed indipendente di organizzare gli enti, la quale pretende comunque
una permanenza del dirigente nella sua posizione dirigenziale limitata nel
tempo.
E tuttavia: l’Anac possiede il
potere di fornire indicazioni che incidano direttamente sulla normativa in tema
di disciplina del rapporto di lavoro, sia legislativa, sia contrattuale? E’
noto a tutti che tale normativa fonda esattamente sugli esiti della valutazione
della dirigenza lo strumento principale per determinare l’attribuzione o la
conferma dei loro incarichi.
L’indicazione dell’Anac rivela
la tendenza sempre più accentuata dell’Autorità ad andare ben oltre i confini
della propria competenza e creare regole di diritto inesistenti. Nel caso di
specie, si tratta di reintrodurre, per via interpretativa, la rotazione
obbligatoria della dirigenza, un tempo presente nel d.lgs 29/1993, ma poi
eliminata per la piena consapevolezza che un tourbillon continuo di dirigenti
in molti enti non è minimamente ipotizzabile (dato il numero esiguo) e,
soprattutto, inficia in modo comprensibile il principio di continuità dell’azione
amministrativa ed esattamente le qualità in base alle quali i dirigenti si
pretende siano valutati ed incaricati: competenza, esperienza, risultati
raggiunti.
La scissione totale tra incarico
e valutazione ipotizzata dall’Anac è un vulnus inaccettabile ai criteri di
meritocrazia pur sbandierati ai quattro venti e anche una posizione
eccessivamente radicale: tra i risultati della dirigenza dovrebbe essere
normale, ai sensi della normativa anticorruzione, valutare anche la capacità
concreta di astenersi da conflitti di interessi. La rotazione, certamente
strumento fondamentale, dovrebbe essere, dunque, un’extrema ratio, da adottare
quando risultino evidenze di un’azione dirigenziale non perfettamente
trasparente o rispondente agli obiettivi di lotta alla corruzione, non una
modalità da attivare acriticamente, sempre e comunque.
Secondo l’Anac “Essendo la rotazione una misura che ha
effetti su tutta l’organizzazione di un’amministrazione, progressivamente la
rotazione dovrebbe essere applicata anche
a quei dirigenti che non operano nelle aree a rischio. Ciò tra l’altro sarebbe
funzionale anche ad evitare che nelle aree di rischio ruotino sempre gli stessi
dirigenti. La mancata attuazione della rotazione deve essere congruamente
motivata da parte del soggetto tenuto all’attuazione della misura”.
La radicalizzazione è ancora più
evidente in questa indicazione che va molto oltre le disposizioni della legge
190/2012, la quale prevede, invece, la rotazione solo nell’ambito delle aree a
rischio, come lascia comprendere la logica, prima ancora che il diritto. Non ha
evidentemente alcun senso coinvolgere nella rotazione chi opera in aree non
rischiose. D’altra parte, se è vero che in questo modo la rotazione finirebbe
per riguardare praticamente uno stesso lotto di dirigenti, altrettanto vero è
che se per combattere la corruzione è sufficiente evitare che il dirigente
resti in sella ad un ufficio per troppo tempo consecutivamente, come appunto
prescrive la rotazione, un periodo di “stacco” deve considerarsi congruo ai
fini degli obiettivi di tutela della legalità. Pena una rotazione estesa a
qualsiasi costo, che può minare alle fondamenta la razionalità organizzativa.
C’è da evidenziare all’Anac che
come va motivata congruamente la mancata rotazione, allo stesso modo va
motivata altrettanto congruamente l’attuazione di una rotazione radicale e
cieca, visti gli effetti potenzialmente negativi sull’organizzazione e la
qualità operativa di dirigenti che potrebbero vedersi spostati da una funzione
all’altra a prescindere dai risultati evidenziati e financo del proprio
bagaglio di competenze.
L’Anac prosegue nel suo
ragionamento fondamentalista, ritenendo che i problemi della rotazione
evidenziati sopra possano essere superati dall’attuazione della legge 124/2015:
“Le questioni organizzative che si
pongono a proposito della rotazione della dirigenza sono di diverso tenore. Una
decisa influenza su di esse avrà l’effettiva adozione del decreto legislativo
di attuazione di quanto disposto dall’art. 11 della l. 124/2015, che prevede la
costituzione di ruoli unici per la dirigenza e soprattutto modalità di
affidamento degli incarichi dirigenziali attraverso un “interpello” al quale possono
rispondere tutti i dirigenti appartenenti ai ruoli. Tutto questo, in
prospettiva, potrà favorire la rotazione dei dirigenti fino a rendere
probabilmente ininfluente l’elemento della limitata disponibilità di dirigenti
nelle amministrazioni di piccole e medie dimensioni, potendo queste contare su
un mercato delle professionalità dirigenziali reso più ampio”.
Quanto suggerisce l’ipotesi di
PNA potrebbe, forse, favorire l’applicazione estensiva della misura
antocorruttiva della rotazione, ma, purtroppo, finisce invece per aumentare a
dismisura il rischio che i dirigenti, precarizzati all’inverosimile sia dalla
durata limitata degli incarichi, sia dai poteri estesi fino all’arbitrio di
nomina i capo ai politici, scelgano di schierarsi politicamente per assicurarsi
approdi sicuri, così vulnerando irrimediabilmente l’autonomia operativa ed i
principi di imparzialità e parità di trattamento. A cosa giova avere dirigenti
che ruotano, se poi il sistema immaginato li spinge ad agire, su qualsiasi
posto siano incardinati, non per attuare in modo tecnico e apolitico le direttive
amministrative, ma per assicurare alla politica quei “favori” da essa chiesti
nel momento in cui si attivi per garantire incarichi in serie?
Le indicazioni dell’Anac vanno
esattamente nella direzione della politicizzazione ed annullamento dell’autonomia
della dirigenza, che, pure, flebilmente il PNA vorrebbe non compromettere.
Accorta dottrina[1], a
proposito degli incarichi derivanti da “interpello” afferma: “Un simile strumento, tuttavia, funziona sin quando regge il principio del diritto
all’incarico: se non si viene accettati in una determinata posizione, oggi
l’Amministrazione ha comunque il dovere di trovare al dirigente una
collocazione. E deve farlo perché quel dirigente ha vinto un concorso e va
mandato a casa solo quando si renda colpevole di responsabilità gravi legate
alla sua performance o ad irregolarità contabili o disciplinari, con ripetuta
valutazione negativa. L’aspetto più
controverso della riforma della Ministra Madia dello scorso agosto impatta
pesantemente proprio sul nodo del conferimento, cancellando il diritto
all’incarico per il dirigente e prospettando, per chi resti senza contratto, il
collocamento in disponibilità e la fuoriuscita dai ruoli di appartenenza: in
parole povere, il licenziamento. Occorrerà naturalmente valutare cosa
prevedrà in dettaglio il decreto attuativo, al momento ancora in via di
definizione, ma il timore è che l’interpello possa diventare una sorta di
lotteria per una dirigenza fortemente precarizzata, dando vita ad un meccanismo
ad espulsione automatica di fatto slegato dalla adeguata valutazione del
singolo, che produrrà la corsa permanente all’interpello per tentare, in tutti
i modi ed ad ogni costo, di accaparrarsi una sedia. La possibile, grave
conseguenza é che, rendendo precari i dirigenti vincitori di concorso, si
istituzionalizzi la fidelizzazione per legge del dirigente al nominante
(politico o alto burocrate poco importa)”.
L’Anac probabilmente non si
rende conto che abbinare la rotazione al sistema degli incarichi immaginato
dalla riforma Madia appunto si ottenga il risultato paradossale di potenziare
la dirigenza “fidelizzata” per ragioni politiche, prescindendo dalla valutazione
e dunque dai risultati e dunque dalla competenza, istituzionalizzando il
giornalista che diviene presidente dell’acquedotto e poi consulente del
Governo; creando tutti i presupposti per conflitti di interesse endemici,
conseguenza di uno strumento, la rotazione, che invece vorrebbe evitarli.
E’ l’incontestabile
dimostrazione che di per sé gli strumenti sono sempre utili ed opportuni, ma il
contesto ed il modo con cui si utilizzano possono renderli esiziali.
Sì da spingere altra dottrina[2] verso
conclusioni coerenti, sì, con quanto sostiene l’aAnac ma ancora una volta,
totalmente da rigettare: “Le indicazioni
fornite dal Piano anticorruzione, unitamente alla riforma in atto della
dirigenza pubblica, imporranno alle amministrazioni di far ruotare
obbligatoriamente le proprie figure dirigenziali, anche negli enti in cui ne
sono previste poche, in quanto la fungibilità della posizione non andrà più
vista solo all’interno dell’ente, ma si aprirà su un ruolo dirigenziale ampio
su cui effettuare il successivo conferimento. In altri termini le
amministrazioni, saranno ormai vincolate dal citato obbligo di rotazione tale
che, se su una precisa posizione dirigenziale dovessero presentarsi diversi
candidati, sarebbe difficile da parte dell’ente confermare il proprio dirigente
che sia restato per un periodo superiore al massimo consentito (4 anni + 2 di
rinnovo motivato)”.
Si incorre, seguendo questa strada,
in una serie di errori. Il primo, consiste nel ritenere che vi sia un “massimo
consentito” alla durata di un incarico, visto nei 4 anni più due di riconferma.
Non è così: il “4+2” è il periodo massimo consentito di permanenza in un
incarico a seguito di un primo conferimento; nulla, assolutamente nulla, vieta
che a questo incarico ne consegua, nella stessa amministrazione, un ulteriore
di altri 4+2, se il dirigente partecipi al successivo interpello e ne risulti
vincitore.
L’idea suggerita dall’Anac, se
attuata come interpretata dalla dottrina da ultimo citata, finisce
effettivamente per creare una dirigenza condannata ineluttabilmente a periodi anche
lunghi di permanenza a disposizione degli albi, con retribuzioni ridotte e alle
soglie del licenziamento, perché parte dal presupposto di vietare ai dirigenti
di partecipare agli interpelli relativi a posti già ricoperti.
E’ assolutamente evidente che
proprio un simile modo di interpretare il combinato disposto tra riforma Madia
e normativa anticorruzione finisce per sortire clamorosamente il risultato di
una dirigenza portata a politicizzarsi e ad agire non per il perseguimento di
fini ed interessi generali, ma di parte. Ciò che è l’esatto opposto di quanto
dovrebbe scaturire dall’attuazione della normativa anticorruzione.
Appare francamente incredibile
che l’Anac, nell’elaborare l’ipotesi di PNA, si mostri come inconsapevole delle
conseguenze enormemente negative per l’organizzazione pubblica ed i cittadini
della lettura data al sistema della rotazione. Non si hanno, tuttavia, ragioni
per immaginare che l’Anac riveda questa posizione. Facile predire che avverrà l’esatto
contrario e che occorreranno anni per prendere atto delle conseguenze negative
della riforma impostata.
Il mio caso e'tipico ed attuale!Roma capitale mi chiede di partecipare alla 'interpello per un solo posto che viene dato ad altro collega,mi rimuovono da quello precedente di fascia 4 come direttore di municipio nel quale ero stato per solo 20 mesi, e mi si manda a ricoprire un incarico subapicale in terza fascia libero perché di grande pericolosità con appalti da fare per 64milioni di euro tutti attualmente in proroga.Nel frattempo ad altri dirigenti che non vengono fatti ruotare gli si affidano perfino alcuni interim.Dal punto di vista dell'anticorruzione vengo spostato in un ruolo ancora più esposto ma come direttore di direzione mi diminuisce di circa 20mila euro lo stipendio globale oltre la immoralità del trasferimento avvenuto solo per tre dirigenti su 168 con riduzione di stipendio.
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