Da qualche giorno Il Messaggero,
quotidiano caratterizzato da uno spesso filo diretto col Governo, ha iniziato
ad applicare la solita tecnica preliminare all’adozione delle riforme.
Diffonde, cioè, a mezza bocca, alcuni contenuti delle idee alla base delle
norme, per due obiettivi:
1)
iniziare la propaganda per persuadere l’opinione
pubblica che le scelte da compiere, almeno negli obiettivi generali, sono
obbligate;
2)
verificare, mentre le regole sono ancora da scrivere,
quali reazioni suscitano nell’opinione pubblica.
Dunque, da giorni è filtrata la
notizia che, tra i vari contenuti della riforma della dirigenza, sarebbe stato
deciso anche quello connesso alla prolungata assenza di incarichi per i
dirigenti stessi. I dirigenti restati privi di incarico, informano i boatos
governativi fatti filtrare attraverso il quotidiano romano, resteranno al
massimo per sei anni “a disposizione” del ruolo unico, con lo stipendio
praticamente dimezzato e soggetto al taglio annuale del 10%, con l’obbligo di
partecipare ogni tre mesi ad almeno 10 “interpelli”, cioè procedure per
ottenere nuovi incarichi dirigenziali. Alla scadenza dei sei anni, scatterebbe
il licenziamento. Oppure, un’ancora di salvataggio: la “retrocessione” da
dirigente a funzionario (non si è capito ancora se questa potrà essere un
rimedio esteso a tutti o conseguenza solo di assenza di incarichi dovuta a
valutazione negativa)[1].
Le veline governative in questo
caso appaiono abbastanza fondate, perché sono piuttosto in linea con i criteri
per la riforma, definiti dalla legge delega 124/2015.
Per convincere l’opinione
pubblica di quanto giusto, corretto moderno e manageriale sia prevedere che
dirigenti pubblici, facenti parte di un ruolo nazionale unico, possano stare
privi di incarico anche a prescindere da una valutazione negativa e percepire
per ben sei anni uno stipendio, sia pur dimezzato, per non fare nulla nel
frattempo, Il Messaggero del 19 giugno cita un esempio ovviamente considerato “virtuoso”:
quello di Invitalia spa.
L’articolo, a firma di Lorenzo
Salvia, è intitolato “Se il dirigente
torna quadro. A Invitalia le prove di riforma” ed è un vero e proprio
distico elegiaco mirato a celebrare trionfalmente, tra squilli di tromba
intervallati da arpeggi e danze, la virtuosissima gestione del rapporto di
lavoro di Invitalia.
Ed ecco la narrazione: “Il decreto attuativo della riforma Madia che
riscrive le regole per i dirigenti, tuttora allo studio, prevede proprio questa
possibilità: ai dirigenti che, trascorsi sei anni senza incarico, diventeranno
licenziabili sarà offerto anche un piano B: la possibilità di mantenere il
posto ma retrocedendo al rango di quadro. Con stipendio più basso e
responsabilità minori. In realtà nel settore pubblico c'è già chi ha aperto la
strada”. E chi l’ha aperta? Ma Invitalia, ovvio.
E cos’è Invitalia? L’articolo lo
spiega: “l'Agenzia per l'attrazione degli
investimenti e lo sviluppo d'impresa, controllata dal ministero dell'Economia,
quella che si sta occupando anche del rilancio di Pompei e dell'area di Bagnoli”.
Ora, l’accoppiata “agenzie-dirigenti”
dovrebbe suscitare qualche legittimo dubbio sulla circostanza che qualsivoglia
agenzia possa essere considerata d’esempio nella gestione dei dirigenti e delle
loro carriere. Ovviamente, non per essere malevoli in modo preconcetto sulle
agenzie, bensì per il dettaglio non trascurabile che la Corte costituzionale
con la notissima sentenza 37/2015 ha considerato incostituzionali le norme che
hanno provato a fare da sanatoria della prassi delle Agenzie delle dogane,
delle entrate e del territorio, di incaricare come dirigenti, senza concorsi,
propri funzionari interni.
Quindi, qualche larvato sospetto
sulla circostanza che un’agenzia possa effettivamente essere considerata d’esempio
(si scusi chi scrive: per dimostrare competenza e managerialità occorreva
scrivere “una best practise”) per la
gestione dei dirigenti appare più che giustificata.
Soprattutto, per altro, per
quanto riguarda Invitalia. No, non perché essa sia stata coinvolta in sentenze
relative agli incarichi conferiti ai dirigenti. Bensì, perché, appunto, è un’agenzia
e, soprattutto, è una società di capitali.
Nell’articolo de Il Messaggero
non è scritto in maniera esplicita, ma lo si capisce: infatti, esso riporta
anche dichiarazioni di Domenico Arcuri, per la sua qualità di “amministratore
delegato” dell’agenzia: e, come è noto, la figura dell’amministratore delegato
è presente nelle società, ma non nelle amministrazioni pubbliche. Lo stesso
autore dell’articolo, in chiusura, poi afferma: “Il decreto che mette a regime questo meccanismo (cioè la retrocessione
dei dirigenti, nda) prevede un percorso
ancora lungo. Dovrà essere creata una commissione che selezionerà i dirigenti,
ci saranno bandi periodici per i posti disponibili. E, infine, la possibilità
di retrocedere solo ai dirigenti che per sei anni non sono riusciti a trovare
un incarico. Forse faranno prima a muoversi le altre società pubbliche. Se lo vorranno”.
In effetti, andando a cercare
sul sito di Invitalia, si ha la conferma: essa è la “Agenzia nazionale per
l'attrazione degli investimenti e lo sviluppo d'impresa SpA”, ed ha tra i
potenziali suoi clienti, appunto, pubbliche amministrazioni, a conferma che è
qualcosa di diverso da esse. Infatti, per esempio, non applica la normativa
pubblicistica sull’anticorruzione, ma, invece, la disciplina privatistica della
legge 231/2001.
Essere coscienti che Invitalia è
una società e non una pubblica amministrazione è fondamentale per comprendere
che l’articolo in commento rappresenti esclusivamente un’opera di propaganda e
che i sistemi di gestione del personale ivi indicati non possono in alcun modo
estendersi ad una pubblica amministrazione.
Entriamo meglio nel dettaglio. L’articolo
riporta quanto segue, appunto allo scopo di illustrare l’esempio di Invitalia: “Dal 2015 sono stati 10 i dirigenti che, di
fronte all'ipotesi del licenziamento, hanno accettato di tornare a lavorare come quadri. Con il taglio del loro
stipendio l'azienda ha risparmiato mezzo milione di euro l’anno. Ma il punto
non è questo: «Se l'operazione si fa solo per risparmiare qualcosa allora è
inutile», dice l'amministratore delegato
di Invitalia, Domenico Arcuri. Il vero obiettivo è favorire quel ricambio
generazionale che serve ad adattare
l'azienda in un mondo che cambia ogni giorno”.
E’ evidente da queste dichiarazioni
che i dirigenti della società Invitalia sono reclutati al proprio interno,
mediante percorsi di carriera di tipo privatistico, senza quindi acquisire la
qualifica, ma solo l’incarico.
In effetti, l’autore dell’articolo
prosegue e chiarisce: “Per capire. Nel
2007 Invitalia aveva 103 dirigenti,
uno ogni 13 dipendenti. Adesso i dirigenti sono scesi a 57, uno ogni 22. Ma dei dirigenti in pianta organica solo la metà
viene dal passato. Mentre 26 sono stati promossi
negli ultimi anni. C'è stato un ricambio, un adattamento. C'è stata, soprattutto, la possibilità di
crescita per chi era ai primi gradini della carriera. Mentre, in parallelo,
l'agenzia ha pure allargato il suo campo di attività. Invitalia è una società pubblica ma è fuori dal perimetro della pubblica
amministrazione in senso stretto. Ed è stato proprio questo margine di
manovra a consentirle l'operazione ricambio”.
Ecco che finalmente si può
comprendere meglio il tutto. L’articolo porta a preclaro campione di quello che
dovrebbe essere il meraviglioso “cambiamento” della PA quello che qualsiasi
inchiesta non potrebbe non definire un vero e proprio baraccone, infarcito di
dirigenti a dismisura, ben 103 fino a 9 anni fa, 10 volte di più circa della
media dei dirigenti presenti in ciascuna provincia, ente sul quale si è
scatenata, come noto, la tempesta populista-riformista.
Ancora oggi, i dirigenti sono un
vero e proprio esercito, 57. Non si ha modo di comprendere come questi siano
stati assunti. Ma non si ha ragione di dubitare di quanto scritto nell’articolo:
si tratta verosimilmente di incarichi assegnati a tempo determinato a
dipendenti dell’ente, che sono stati fatti progressivamente crescere di
carriera.
Infatti, accedendo al portale di
Invitalia, nella sezione “società trasparente”, ove sono pubblicate le
procedure di “selezione” del personale, non c’è traccia alcuna di reclutamenti
per dirigenti.
Non c’è da stupirsi. Invitalia,
come rilevato, non è una pubblica amministrazione, ma una società per azioni.
In linea teorica, quindi, ad Invitalia non si applicano i noti vincoli per il
reclutamento e per la disciplina del rapporto di lavoro, discendenti dall’articolo
97 della Costituzione e dalle norme applicative: tra essi, il concorso pubblico,
la totale assenza dell’istituto della “promozione” di carriera, una volta che
sia stata eliminato l’istituto della “progressione verticale”, l’obbligo di
reclutare i dirigenti per concorso pubblico (da cui discende l’incostituzionalità
dei comportamenti delle Agenzie fiscali), l’inesistenza di un filone di
carriera, l’acquisizione fissa della qualifica di dirigente.
In altre parole, la normativa
vigente riguardante il rapporto di lavoro alle dipendenze della pubblica
amministrazione contiene disposizioni semplicemente opposte o, comunque,
inconciliabili con quelle delle società.
Pertanto, l’esempio di Invitalia
semplicemente non ha assolutamente nulla a che vedere con la pubblica
amministrazione e si rivela del tutto fuorviante: un mero tentativo di
propagandare come comportamento virtuoso una gestione del personale che non ha
davvero nulla a che fare con i principi pubblicistici, i quali, come è noto,
richiedono una dirigenza obbligata ovviamente ad attuare i programmi della
politica, ma non politicizzata ed autonoma. Ecco perché il “filtro” necessario,
secondo la Costituzione, del concorso ai fini del reclutamento: per evitare che
le assunzioni o gli incarichi dirigenziali siano frutto di una cooptazione
connotata politicamente.
Di tutto, quindi, si poteva
parlare per proporre degli esempi riguardanti la possibilità di “retrocedere” i
dirigenti, salvo che di Invitalia.
Per altro, sempre visitando il
sito di questa società, sempre nella sezione “società trasparente” ci si
accorge che essa nel reclutare i dipendenti agisce appunto come datore di
lavoro privato. Cioè, non assume mediante concorsi, bensì mediante la raccolta
di curriculum attraverso la sezione “lavora con noi”. In questa pagina (http://www.invitalia.it/site/new/home/lavora-con-noi/articolo19012416.html)
Invitalia evidenzia che acquisisce un certo numero di profili, effettua alcune
interviste su un numero ridotto (evidente preselezionato in base a qualche
criterio) e poi procede ai reclutamenti.
Dunque, nessun concorso, da
bravo datore privato. E, però, non dovrebbe funzionare esattamente così.
Invitalia sarà virtuosissima, certo, specie se lo afferma Il Messaggero. Ad una
società così virtuosa, quindi, si è certi che deve essere sfuggita per mera
distrazione la previsione contenuta nell’articolo 18, comma 2, del d.l.
112/2008, convertito in legge 131/2008, ai sensi del quale “Le altre società a partecipazione pubblica
totale o di controllo adottano, con propri provvedimenti, criteri e modalità
per il reclutamento del personale e per il conferimento degli incarichi nel
rispetto dei principi, anche di derivazione comunitaria, di trasparenza,
pubblicità e imparzialità”. Difficile che questi principi, imposti dalla
legge, possano essere rispettati mediante procedure in cui il datore si riserva
di acquisire, non si sa come, alcuni curriculum, di intervistare solo alcuni
richiedenti e di assumere, poi, chi meglio creda, senza uno straccio di sistema
comparativo, che, poi, è lo strumento imposto dai principi comunitari citati
dalla normativa.
Diciamo, dunque, che il
riferimento ad Invitalia non solo poteva, ma oggettivamente doveva essere del
tutto evitato e che l’articolo de Il Messaggero non aiuta sicuramente alla
comprensione della riforma.
La quale, puramente e
semplicemente, si pone il chiarissimo obiettivo di precarizzare la dirigenza
pubblica, sottoponendola a condizionamenti della politica formidabili. Sia perché
assoggetta dirigenti che hanno acquisito la qualifica e l’accesso ai ruoli
unici per concorso e non per cooptazione al valzer continuo di incarichi posti
sotto il controllo della politica (sia pure con lo “schermo” di commissioni di valutazione,
qualificate come “indipendenti”, che tali non potranno mai essere visto che
saranno di nomina politica), sia, soprattutto, esponendoli al rischio di
restare privi di incarico e vedere vanificato un percorso di carriera non “ottriato”
per gentile concessione dell’amministratore delegato di turno, ma realizzato
mediante concorsi. Rischio non attenuato, ma anzi aggravato, dalla previsione
di una “retrocessione” a funzionari, che costituisce un vulnus formidabile alla
professionalità.
Infatti, esso finisce per essere
un approdo paradossale ad un sistema che vuole realizzare un ruolo unico della
dirigenza, dal quale le amministrazioni dovrebbero obbligatoriamente attingere
per incaricare i dirigenti, ma che, evidentemente, non sarà il bacino unico di
reclutamento. Se, infatti, così non fosse, non vi sarebbe nemmeno da prendere
in considerazione l’ipotesi di dirigenti che per ben sei anni non vengono
incaricati. Questo può avvenire solo perché le pubbliche amministrazioni,
nonostante il ruolo unico, avranno ancora la possibilità di cooptare dall’esterno
i dirigenti a tempo determinato, spesso per ragioni di vicinanza politica.
E ciò è ancor più paradossale,
se si pensi che il ruolo unico sarà composto, escludendo la dirigenza medica,
di circa 30.000 dirigenti. Oggi, applicando l’articolo 19, comma 6, del d.lgs
165/2001, si fa estrema fatica ad ammettere che le pubbliche amministrazioni
risultino prive, al loro interno, delle professionalità dirigenziali necessarie
per svolgere attività che vengono affidate ad esterni; ma, comunque, in
presenza di dotazioni organiche ridotte (non nel caso di Invitalia, con decine
e decine di dirigenti…) è in astratto possibile anche darsi il caso dell’assenza
della specifica professionalità. Ma, in presenza di un ruolo di decine di
migliaia di dirigenti, quanto sarà credibile che un’amministrazione recluti
dirigenti esterni per comprovata assenza di professionalità?
La riforma propone, di fatto,
una sorta di percorso forzato verso il demansionamento di Stato nei confronti
di dirigenti non graditi alla politica.
E’ da tenere presente che l’assenza
di incarichi non discenderà, infatti, da valutazioni negative. Semplicemente, i
dirigenti che abbiano svolto le proprie attività a servizio di un certo ente
per il tempo massimo consentito senza passare per gli “interpelli” (4 anni più
due di rinnovo) si troveranno a prescindere privi di incarico. La riforma slega
completamente, infatti, la valutazione dei dirigenti sia dalla prosecuzione degli
incarichi, sia dalla stessa possibilità di ottenerne altri.
Paternalisticamente, lo Stato
che tratta da figliastri i dirigenti non allineati, consente loro di passare a
lavorare come funzionari, ma per altro senza nemmeno porsi il problema: presso
quali enti? Perché se i dirigenti apparterranno ad un ruolo nazionale e non
saranno, quindi, inseriti nelle dotazioni dei singoli enti, una volta che siano
demansionati a funzionari comunque si troveranno senza un datore di lavoro.
Cosa farà, allora, l’organo che si occuperà della questione della
ricollocazione dei dirigenti demansionati? Un collocamento obbligatorio verso
gli altri enti, anche a prescindere dai loro fabbisogni?
La riforma tanto esaltata e che
con l’esempio dell’Invitalia si vorrebbe configurare come utile e positiva,
così come configurata, porterà ad un caos gestionale irrisolvibile, oltre a
proporre l’assurdo di un demansionamento non dovuto né a crisi aziendale, né a
valutazioni negative. Per paradosso, poi, dirigenti privi di valutazioni
negative, ma rimasti senza incarico, saranno trattati (a quanto pare dai
boatos) proprio come dirigenti che risulteranno privati dell’incarico proprio perché
valutati negativamente: infatti, anche questi, pur in presenza di un
giustificato motivo soggettivo di risoluzione del rapporto, potranno chiedere
di essere demansionati. Sicchè, nel calderone dei dirigenti dequalificati
finiranno in modo indistinto coloro che non troveranno spazio negli incarichi, perché
mai selezionati dalle “commissioni indipendenti” (in realtà, dalla politica: le
commissioni si limiteranno a compilare “rose”, da sottoporre poi alla decisione
degli organi di governo e si può stare certi che in quelle rose non mancheranno
mai i candidati “graditi” da prima agli organi di governo stessi…) e coloro
colpiti da responsabilità dirigenziale e da licenziamento, per conclamata
incapacità operativa.
Prima di inneggiare a riforme
confuse e paradossali, presentando esempi per altro totalmente sbagliati e
fuori luogo, la stampa farebbe bene ad analizzare realmente i contenuti delle
norme, in chiave critica e propositiva. Ma, se il compito è fare da cassa di
risonanza alle iniziative di riforma, a prescindere dalla loro valutazione nel
merito, allora anche termini di paragone senza senso come quello proposto con
Invitalia hanno la loro funzione.
[1] Per una prima critica a
queste indiscrezioni, A. Ferrante, “Dirigenti, vil razza dannata” in http://www.linkiesta.it/it/blog-post/2016/06/17/dirigenti-vil-razza-dannata/24371/
Nessun commento:
Posta un commento