La vicenda delle 181 correzioni
al codice dei contratti è la plateale conferma che in Italia si fa un gran
parlare di “merito”, “valutazione”, “managerialità”, ma, alla fine, gli
incarichi di vertice, sempre conferiti a soggetti esterni ai ruoli delle
amministrazioni, non pagano mai dazio per eventuali inefficienze anche
conclamate.
Il problema, in sé e per sé,
però, non sta tanto nei 181 errori. Questi, in fondo, sono dettagli utili
soprattutto per fare “colore” e consentire ad esperti in inchieste sulla
mala-amministrazione svolte soprattutto in superficie, come Stella&Rizzo,
di pubblicare sapidi articoli di critica, senza riuscire minimamente a cogliere
il cuore del problema. Soprattutto perché si tratta di inchieste
prevalentemente rivolte alla “pancia” dei lettori.
Sul punto, bisogna ammettere che
ha ragione chi sta pian piano riuscendo a ritagliarsi sempre più l’ambito ruolo
di protagonista nei media e nei convegni dedicati al codice: il consigliere
Michele Corradino. Egli spiega nell’intervista rilasciata al Corriere della
sera del 23 luglio (“I 181 errori nel codice appalti «Una pessima figura ma
avevamo molta fretta»”): “la maggior
parte degli errori erano di natura formale, quasi irrilevanti, tipo parole
unite, mancanza di spazi, una punteggiatura sbagliata. Vero anche che ci sono
sati numeri sbagliati. Ma niente che risultasse incomprensibile o che facesse
cambiare senso alle norme”.
Certo, vedere 181 correzioni dà
sicuramente molto fastidio. Infatti, non si è trattato di scrivere una lettera
(“signorina, veniamo noi con questa mia a
dirvi, - addirvi una parola -, che, scusate se sono poche, ma 700 mila lire ;a
noi ci fanno specie che quest'anno - una parola - c'è stata una grande moria
delle vacche, come voi ben sapete”), o un tema di esami di maturità, bensì
una legge dello Stato. Sarebbe sicuramente da pretendere che, come minimo,
sulla Gazzetta Ufficiale si pubblicassero leggi almeno scritte bene: non tanto
nel senso che siano scritte in buon italiano, fluente e chiaro (magari…), ma
quanto meno proprio editate, digitate in modo non approssimativo. Così da dare
la prova che qualcuno, le norme, oltre a scriverle le legga e rilegga, per
capirle, provare a limarle e fare quello che un tempo era il preziosissimo e
sempre più dimenticato lavoro di rafting
normativo.
Il problema vero, però, è che il
d.lgs 50/2016, anche se emendato dei 181 errori, rimane quello che è: una norma
astrusa, incompleta, che non semplifica affatto la disciplina degli appalti,
soprattutto perché rimane sospesa nel limbo della successiva attuazione. La
quale, a sua volta, con le celeberrime ormai Linee Guida dell’Anac si sta
trasformando in un’esercitazione di ricerca universitaria, fatta di
considerazioni ed indicazioni talora contorte, talaltra ridondanti, altre volte
ancora criptiche ed apodittiche, tali, comunque, da rendere l’attuazione della
riforma nebulosa e, quindi, da un lato difficile da applicare; dall’altro poco
efficace.
Spiace sempre citare se stessi,
ma questo è quanto si ebbe modo di affermare (in www.lavoce.info : “Codice
degli appalti nuovo, ma complicato come prima”) il 3 maggio, pochissimi giorni
dopo la pubblicazione del codice: “A uno
sguardo semplicemente di carattere tecnico, sembra che il codice dei contratti
riformato debba essere visto per quello che è: una riforma molto complessa e
articolata, che richiederà qualche tempo
per essere attuata e compresa. È, dunque, difficile immaginare che dal nuovo codice possano derivare subito
effetti mirabolanti, quali il rilancio degli appalti e dell’edilizia in grande
stile. E non solo per la qualità oggettivamente tutt’altro che eccelsa
della riforma, come evidenziato in modo tranciante dal Consiglio di Stato nel
suo parere; ma, soprattutto, perché per rilanciare attività che presuppongono
ingente spesa pubblica, occorre la disponibilità delle risorse connesse. Non basta modificare le regole procedurali
per il rilancio degli appalti, quando gli investimenti restano al palo e se
le regole sulla spending review impongono (non è ancora chiaro con quale
efficacia) di diminuire e non aumentare la spesa per acquisti di beni e
servizi. Lo ha insegnato, del resto, lo stesso Jobs act: per modificare
l’andamento di un mercato (in quel caso, del lavoro) non è sufficiente
modificare le regole giuridiche, ma occorrono investimenti e crescita economica!”.
Sembra, a chi scrive, che i
problemi a ormai 3 mesi dal “lancio” del codice siano esattamente sempre quelli
evidenziati sopra:
a) il
d.lgs 50/2016 non ha semplificato proprio nulla;
b) la
sua completa attuazione sta richiedendo tempo; molto tempo;
c) gli
appalti non sono stati assolutamente rilanciati, ma, al contrario, hanno subito
un calo formidabile in questi primi mesi d’attuazione.
Allora, critiche un po’ meno
populiste e più attente a norme e fatti, dovevano forse partire da questi dati,
per poi giungere a provare a comprendere di chi sia la responsabilità di quanto
accaduto.
Ci proviamo noi, e torniamo all’intervista
del consigliere Corradino, magistrato del Consiglio di stato e componente del
Consiglio dell’Anac, per sottolineare la giustificazione alla scrittura del
codice: “avevamo fretta”.
Corradino, lo ribadiamo, è un
magistrato amministrativo. Oggettivamente, ci viene molto difficile immaginare
che, nel compimento del suo alto lavoro, abbia mai preso in minima considerazione
la circostanza che un atto amministrativo non fosse da considerare illegittimo perché
redatto in tutta fretta dall’ente di turno. Eppure, per esempio, negli enti
locali non manca assolutamente la spinta a segretari, dirigenti e funzionari, a
correre, fare di fretta, elaborare atti senza respiro e troppo spesso, proprio
per questo senza ragione. Mai viste sentenze, però, che considerino la
circostanza della “fretta” quale elemento per sanare eventuali illegittimità.
Al contrario, non mancano sicuramente casi in cui errori di battitura, mancanza
di spazi, parole unite e punteggiatura errata hanno attirato gli scandalizzati
e disgustati strali dei magistrati amministrativi, pronti, con le loro
sentenze, ad espungere dall’ordinamento giuridico simili brutture.
Il Corradino probabilmente ha
preso coscienza della differenza non da poco che intercorre tra il giudicare,
con i tempi sicuramente più dilatati richiesti dalla delicatezza del ruolo del
giudice, ed il “fare”. La fretta, spesso, ci si mette di mezzo e non consente
una resa ottimale. Una presa di coscienza, questa, che se fosse propria di
tutti coloro che operano nelle attività di giudizio e controllo o indirizzo non
sarebbe male. Per giudicare, controllare o indirizzare, non sarebbe male,
prima, un adeguato “praticantato”, col quale conoscere esattamente cosa
significhi la fretta, la pressione del politico, la minaccia del mancato
rinnovo dell’incarico, la carenza di personale e mezzi, la presenza di mille
cavilli che rendono impossibili le procedure e gli impegni di spesa, il tutto
con buona pace della “cultura del risultato” e della “managerialità”.
Ma, al di là di questi aspetti
anch’essi in qualche misura di colore, ciò che davvero sconforta rispetto alle
dichiarazioni del Corradino è proprio la mancanza di volontà di prendere atto
che è proprio l’impostazione del codice a renderlo complicato e inefficace, a
nulla rilevando, a tale proposito, gli errori formali.
Quando nel corso dell’intervista
la giornalista gli obietta che errori o non errori, nel primo mese gli appalti
sono diminuiti dell’80% rispetto all’anno prima, il consigliere Corradino dà
prova di come Anac e, probabilmente, intero Governo stiano leggendo in modo
totalmente errato la riforma e le sue conseguenze, rispondendo: “La flessione, in realtà, comincia già dal
novembre 2015, poi, con l’arrivo del nuovo codice e delle nuove linee guida è
peggiorata. Secondo me per due motivi: c’è una parte della burocrazia portata
ad applicare una certa procedura che conosce e vuole continuare a seguire per
paura dei giudici penali, dei giudici contabili, degli aggiustamenti; e poi c’è
una parte dell’imprenditoria che non accetta il fatto che adesso cambia davvero
tutto…”.
In breve, insomma, la diagnosi
appare quella sempre, molto italiana, del gombloddo
di forze esterne o della “burocrazia”, sempre pronte a boicottare le magnifiche
leggi che, altrimenti, se così non fosse, produrrebbero solo ricchezza,
benessere, eliminazione totale di corruzione e criminalità ed altre mirabilie.
Ragionare così, significa
trincerarsi nella torre d’avorio e sostenere che è il mondo a non comprendere.
Negando qualsiasi contatto col mondo stesso e, quindi, qualsiasi propria
responsabilità.
Qui tocchiamo il tema del
titolo: a Gian Antonio Stella forniamo (sebbene già in molti vi abbiano
provveduto) uno scoop. Non è per niente anonima la mano che ha scritto gli “strafalcioni”
del codice. E’ stata istituita allo scopo una commissione tecnica apposita, con
decreto del Ministero delle infrastrutture 9 luglio 2015, n. 235, composta da
ben 19 “esperti”, presieduta – come Gian Antonio Stella ha avuto grande cura di
non scrivere – da Antonella Manzione, capo del dipartimento degli affari
legislativi della presidenza del consiglio, della quale anche il consigliere
Corradino era componente insieme a molti altri magistrati amministrativi e capi
di gabinetto o di affari legislativi di ministeri.
Ebbene, nessuno di costoro è
qualificabile come l’anonimo, sordo e grigio “burocrate” che ha invocato
Stella, uno di quegli altri “burocrati” che, secondo il Corradino, boicottano
la riforma.
Stiamo attenti alle date. La
direttiva dellìUnione Europea per la riforma della disciplina degli appalti è
la 24/2014, del 26 febbraio 214; la commissione di “esperti” è stata composta
nell’estate del 2015, oltre un anno dopo; la legge 11/2016, la legge-delega da
cui è derivato il codice, è stata approvata a gennaio 2016; il codice dei
contratti, il d.lgs 50/2016, è stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale il 19
aprile, il giorno dopo la scadenza del termine ultimo, che era il 18 aprile,
nonostante tutta la “fretta” di cui parla il Corradino.
Ora, vista la cronologia dei
fatti, è davvero credibile che gli estensori della normativa avessero fretta?
Probabilmente sì, certo non è dipeso dalla commissione di esperti se il Parlamento
ha dato il via libera a quasi 2 anni dall’approvazione delle direttive europee
e, dunque, a tempo già abbondamentemente ed inutilmente consumato.
Sta di fatto, però, che la
commissione era già all’opera da molto prima. E, comunque, nessuno ammette che
il vero errore è di metodo: sarebbe bastato adottare il nuovo codice ponendo in
essere un semplice “copia e incolla” delle direttive europee, lasciando alle
linee guida il compiuto di dettagliare la normativa, o rinviando a decreti
legislativi delegati norme di completamento.
La cosa avrebbe assicurato
linearità di scrittura, vista la chiarezza estrema delle direttive europee
(ormai sconosciuta alle nostre leggi), ed assenza di errori, oltre che facilità
di attuazione, sia pure nelle more di una disciplina di adeguamento all’ordinamento
tipico italiano.
Invece, si è inteso fare il
guazzabuglio che è venuto fuori, creando un misto malriuscito della copiatura mal
congegnata di alcune parti delle direttive (si pensi alla confusione estrema
fatta per i servizi sociali), dell’applicazione di istituti propri di diritto
interno (si pensi al Rup, all’appalto integrato, alle astruse discipline del
sottosoglia), demolendo la normativa di attuazione che però era necessario
completamento.
Il Corradino, l’Anac ed il
Governo si meravigliano che gli appalti si sono bloccati, ma invece di
analizzare retrospettivamente errori e perdite di tempo a loro solo imputabili,
se la prendono con i “burocrati”. Ma, si sono posti il problema che ad oggi è
praticamente impossibile capire come comporre le commissioni di gara? Hanno
bene inteso che l’estensione abnorme del criterio dell’offerta economicamente
più vantaggiosa impone di utilizzarla anche per servizi o lavori perfettamente
qualificabili, senza possibilità alcuna di miglioria, il che indurrà molti a
consentire varianti in fase di offerta, con buona pace del rilancio del
progetto esecutivo? Hanno inteso che, in questo momento, non c’è una
regolamentazione pubblicistica della contabilità nell’esecuzione dei contratti?
Si sono resi conto che le linee guida, sia pur non ancora efficaci, impongono
per i Rup requisiti ridondanti ed ultronei, tali da inchiodare l’operatività di
tante amministrazioni?
E’ evidente che la risposta a
tutte le domande retoriche fin qui poste è no. Qui, però, risiedono gli errori
di tempo, metodo e merito relativi al codice, che si trascineranno anche dopo
la definizione delle linee guida, che già adesso tutto appaiono, tranne la
panacea alle complicazioni del codice dei contratti.
Ma, per queste evidenti
inefficienze, per il fatto che il codice non ha sortito il “risultato”
immaginato, cioè il rilancio degli appalti, chi paga? I dirigenti a contratto
di matrice politica ai vertici dei vari uffici coinvolti nelle commissioni di
studio? I magistrati amministrativi inseriti nelle commissioni? I professori
universitari chiamati a loro volta a farne parte? No.
Gian Antonio Stella ha cercato
il responsabile in un funzionario, immaginando e dando al pubblico la certezza
che l’inefficacia delle norme dipenda dal cattivo burocrate che con le mezze
maniche sporca il perfetto lavoro del Parlamento e dei vertici.
Le cose non stanno affatto così.
Il lavoro normativo, ed i suoi risultati, sono nelle mani, certo, del
Parlamento, ma soprattutto dei gabinetti ministeriali e dei vertici
dirigenziali, composti a mani basse prevalentemente da soggetti reperiti fuori
dai ruoli ministeriali, in vario modo cooptati per evidenti affinità politiche.
Questi vertici, questa
dirigenza, che dovrebbe essere la prima a rispondere in quanto chiamata ad un
lavoro delicatissimo, invece, non è mai responsabile. Eventualmente, “paga”
solo se e nella misura in cui caduto il governo di turno, decada il relativo
incarico. Ma, di valutazioni negative, di rilievi sul merito delle scelte
compiute, mai l’ombra, mai la traccia. La fretta per questa dirigenza va bene
come scusa; del resto, se il prodotto è scadente e gli effetti sono il
contrario di quelli immaginati, possono sempre scaricare la colpa sulla “burocrazia”,
contando sul polverone che nella stampa viene fatto, guardando al dito dei 181
errori, invece che alla luna del modo davvero paradossale di aver gestito negli
scorsi 24 mesi il delicato compito di riformare gli appalti.
Intervento coraggioso e illuminante. Ma gli italiani ancora oggi credono piú al piazzista, al giornalista superficiale e tuttologo, al politico e alla sua corte di "esperti" che allo studioso che approfondisce, ragiona, opera e lavora nel campo.
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