La sentenza 205/2016 è il
benvenuto che dà la Corte costituzionale nella riforma delle province che non
c’è. Quella che dovrebbe ripartire funzioni, dotazioni organiche e risorse
finanziari delle province tra i vari enti subentranti, ma che non ha svolto
questo compito, perché impedita a ciò dall’assurda legge 190/2014.
Benvenuti, dunque, nel mondo
irreale che la Consulta costruisce, pur di non vedere le macroscopiche
illegittimità costituzionali dell’articolo 1, comma 418 e seguenti, della legge
190/2014 e fare salva una delle peggiori riforme mai prodotte dall’ordinamento,
preludio in piccolo dell’ancor peggiore riforma della Costituzione prossima
ventura.
Vale, dunque, la pena di commentare
i passaggi fondamentali di una decisione oggettivamente stupefacente per il
modo con cui ricostruisce la vicenda e soprattutto la conclusione non tanto
giuridica, quanto operativa, tratta, del tutto contraria (purtroppo) alla
realtà dei fatti.
In un primo decisivo passaggio,
la sentenza ricostruisce in sintesi la riforma operata dal Parlamento, su input
del Governo, motivando il rigetto dell’istanza proposta dalla regione Veneto di
dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’articolo 1, comma 418, della
legge 190/2014, la norma che ha strozzato finanziariamente le province,
imponendo loro un prelievo forzoso dai bilanci di 1 miliardo nel 2015, 2
miliardi nel 2016 e 3 miliardi (a regime), nel 2017: “La riduzione della
spesa corrente disposta dal comma 418 si inserisce, come già sottolineato,
nel complesso disegno di riforma delle province e delle città metropolitane,
avviato con la citata legge n. 56 del 2014, «in attesa della riforma del titolo
V della parte seconda della Costituzione e delle relative norme di attuazione»
(comma 51). Al contempo essa è diretta a perseguire il più generale
obiettivo di miglioramento dell’efficienza della spesa pubblica, come risulta
confermato dall’ultimo periodo del comma 418, ove è previsto che l’ammontare
della riduzione per ciascun ente è determinato «tenendo conto anche della
differenza tra spesa storica e fabbisogni standard» . La legge n. 56 del 2014
ha inciso sull’assetto delle province e delle città metropolitane sotto il
profilo organizzativo e sotto quello funzionale: con riferimento in particolare
alle prime, riformandone gli organi politici e prevedendo la gratuità dei
relativi incarichi (comma 84); individuando le loro funzioni fondamentali
(comma 85) e stabilendo che le altre funzioni debbano essere riallocate dallo
Stato e dalle regioni in base all’art. 118 Cost. (comma 89), con conseguente
passaggio delle risorse finanziarie e umane connesse alle funzioni trasferite
(commi 92, 96, lettera a, e 97, lettera b). Entrambe le innovazioni sono
destinate, fra l’altro, a produrre una rilevante diminuzione della spesa
provinciale”.
Abbiamo enfatizzato in grassetto
le affermazioni fondamentali di questo stralcio della sentenza, che già di per
sé rivelano il clamoroso errore di prospettiva commesso dalla Consulta.
La legge 190/2014 si inserisce, è
vero, nel processo di riforma delle province, ma non ha affatto la funzione di
collegarsi e coordinarsi con le previsioni della legge 56/2014. Esattamente al
contrario, la legge 190/2014 blocca il percorso avviato dalla legge Delrio,
impedendo proprio il “conseguente passaggio delle risorse finanziarie e umane
connesse alle funzioni trasferite”, di cui parla la Consulta.
E’ inspiegabilmente sfuggito ai
giudici della Corte che la legge 190/2014, imponendo l’insostenibile prelievo
forzoso di risorse alle province, non ha consentito di costituire appunto
quell’insieme di risorse (specie di carattere finanziario), che sarebbero state
necessarie per traslare dalle province agli enti destinatari l’esercizio delle
funzioni non fondamentali.
Tanto è vero che il fallimentare
processo di trasferimento dei dipendenti provinciali in soprannumero attivato
proprio dalla legge 190/2014 (non dalla legge 56/2014) è andato in totale rotta
di collisione con l’iniziale previsione. L’articolo 1, commi 92 e 96, della
legge 56/2014 avevano previsto un trasferimento di “blocchi” di funzioni e
competenze comprensivi di patrimonio, personale e risorse finanziarie dall’ente
provincia all’ente destinatario, in modo da conservare intatta la dotazione
necessaria per gestirle. L’esproprio dei 3 miliardi a regime dalla capacità di
spesa delle province, invece, ha prodotto un incontrollato esodo del personale.
I circa 20.000 dipendenti provinciali dichiarati in soprannumero non sono
transitati dalle province ad altri enti restando, tuttavia, a svolgere le
funzioni provinciali traslate ad altri enti, ma assolutamente alla rinfusa:
alcuni verso i tribunali, la gran parte verso i comuni, ma in modo del tutto
isolato e disconnesso dall’esercizio delle funzioni provinciali. Infatti, nella
gran parte dei casi i comuni non sono subentrati alle province nell’esercizio
delle funzioni non fondamentali. Sicchè si è determinata una scissione assoluta
tra risorse umane e finanziarie, ed esercizio delle risorse, che solo la Consulta
non ha visto. Infatti, la sentenza prosegue affermando che “La legge n. 56
del 2014 ha previsto una “regìa” unitaria di tale complessa operazione di
riallocazione delle funzioni, sia dettandone direttamente un’analitica
disciplina (si veda, ad esempio, il comma 96), sia prevedendo successivi atti
statali diretti a stabilire i criteri di individuazione delle risorse da
trasferire (comma 92) e ad adeguare la legislazione sulla finanza degli enti
territoriali, nel rispetto del criterio secondo il quale «le risorse
finanziarie, già spettanti alle province ai sensi dell’articolo 119 della
Costituzione, dedotte quelle necessarie alle funzioni fondamentali e fatto
salvo quanto previsto dai commi da 5 a 11, sono attribuite ai soggetti che
subentrano nelle funzioni trasferite, in relazione ai rapporti attivi e passivi
oggetto della successione, compresi i rapporti di lavoro e le altre spese di
gestione» (comma 97, lettera b)”. Ma, nulla di tutto questo è realmente
avvenuto.
La cosa singolare, tuttavia, è
che la Consulta da un lato mostra di non aver percepito la rottura fortissima
imposta dalla legge 190/2014 all’iter della riforma immaginato dalla legge
Delrio, ma, dall’altro, apertamente coglie l’aspetto deteriore di detta legge,
quello che, appunto, ha determinato la svolta che ha inceppato il meccanismo.
Infatti, la sentenza continua affermando he “procedendo a rilento
l’attuazione di tale disegno riformatore, il legislatore ha impresso ad essa
una «spinta acceleratoria» (sentenza n. 159 del 2016), tramite l’art.
1, comma 421, della legge n. 190 del 2014, in base al quale «[l]a dotazione
organica delle città metropolitane e delle province delle regioni a statuto
ordinario è stabilita, a decorrere dalla data di entrata in vigore della
presente legge, in misura pari alla spesa del personale di ruolo alla data di
entrata in vigore della legge 7 aprile 2014, n. 56, ridotta rispettivamente,
tenuto conto delle funzioni attribuite ai predetti enti dalla medesima legge 7
aprile 2014, n. 56, in misura pari al 30 e al 50 per cento […]». Con la citata
sentenza n. 159 del 2016 questa Corte ha dichiarato non fondate le questioni di
legittimità costituzionale proposte da diverse regioni su questa disposizione”.
La Consulta, dunque, sa bene che
la legge 190/2014 non ha avuto per nulla l’intento di attuare le previsioni
della legge Delrio, ma di imporre in modo improprio una “accelerazione” alla
riforma, sia strozzando le province col prelievo forzoso ricordato prima, sia
attraverso l’ulteriore imposizione “in vitro” della riduzione forzata delle
dotazioni organiche, completamente sconnessa dal passaggio delle funzioni dalle
province ad altri enti. Passaggio che, infatti, si è verificato moltissimi mesi
dopo l’entrata in vigore della legge 190/2014 e per effetto del d.l. 78/2015, convertito
in legge 125/2015, che ha avuto lo scopo di accollare alle regioni i costi
della riforma. Infatti, con la legge di conversione lo Stato ha indotto le
regioni a riordinare le funzioni non fondamentali delle province, sotto la
minaccia che se non avessero provveduto le regioni stesse entro il mese di
ottobre, vi avrebbe provveduto lo Stato, accollando alle regioni tutte le
relative spese.
Sotto questa spada di Damocle
molte regioni si sono finalmente degnate di approvare le leggi regionali di
riordino, dovendo, però, reperire da se stesse le risorse mancanti alla
gestione delle funzioni: il prelievo forzoso imposto dall’articolo 1, comma
418, della legge 190/2014 ha, infatti, comportato un “buco” da 3 miliardi a
regime, che le regioni hanno dovuto coprire. Il fatto è che, concretamente,
poi, ciascuna regione ha reperito le risorse in base alle proprie disponibilità
di bilancio e alla propria volontà politica e non in base al computo della
spesa delle funzioni. Col risultato che in molte regioni i finanziamenti per
l’esercizio delle funzioni non fondamentali delle province risulta largamente
sottodimensionato.
Ma, anche questi aspetti di fatto
sono totalmente sfuggiti alla Consulta, che, infatti, poco oltre si produce
nella statuizione più infondata e sorprendente della sentenza: “più
precisamente, dunque, disponendo il comma 418 che le risorse affluiscano «ad
apposito capitolo di entrata del bilancio dello Stato», si deve ritenere – e
in questi termini la disposizione va correttamente interpretata – che tale
allocazione sia destinata, per quel che riguarda le risorse degli enti di
area vasta connesse al riordino delle funzioni non fondamentali, a una
successiva riassegnazione agli enti subentranti nell’esercizio delle stesse
funzioni non fondamentali (art. 1, comma 97, lettera b, della legge n. 56
del 2014). La previsione del versamento al bilancio statale di risorse
frutto della riduzione della spesa da parte degli enti di area vasta va dunque
inquadrata nel percorso della complessiva riforma in itinere. E, così
intesa, essa si risolve in uno specifico passaggio della vicenda straordinaria
di trasferimento delle risorse da detti enti ai nuovi soggetti ad essi
subentranti nelle funzioni riallocate, vicenda la cui gestione deve
necessariamente essere affidata allo Stato (sentenze n. 159 del 2016 e n. 50
del 2015). I commi 418, 419 e 451, dunque, non violano l’art. 119, primo,
secondo e terzo comma, Cost. nei termini lamentati dalla ricorrente, perché le
disposizioni in essi contenute vanno intese nel senso che il versamento
delle risorse ad apposito capitolo del bilancio statale (così come l’eventuale
recupero delle somme a valere sui tributi di cui al comma 419) è specificamente
destinato al finanziamento delle funzioni provinciali non fondamentali e che tale
misura si inserisce sistematicamente nel contesto del processo di riordino di
tali funzioni e del passaggio delle relative risorse agli enti subentranti”.
Abbiamo letto bene: secondo la
Consulta l’articolo 1, comma 418, della legge 190/2014 non è una norma
incostituzionale perché il prelievo forzoso da esso imposto alle province
avrebbe un particolare “vincolo di destinazione”.
Ricordiamo, allora, brevemente
cosa si deve intendere per “prelievo forzoso”. La gran parte dei media, ma
anche dei commentatori, continua ad affermare che alle province sarebbero stati
imposti “tagli” alla spesa. Non è così.
Lo Stato non poteva tagliare
nulla, perché già dal 2012 erano stati totalmente azzerati i trasferimenti
erariali alle province, attraverso il fondo sperimentale di sviluppo.
La legge 56/2014 prevedeva, come
detto, una rideterminazione delle funzioni provinciali che comportasse il
passaggio in un unico momento di funzioni, patrimonio, contratti, personale e
risorse finanziarie dalle province all’ente di destinazione. Il che avrebbe
comportato che il volume complessivo della spesa delle province, nel 2014 di
circa 10 miliardi, non si sarebbe ridotto.
Questa semplice evidenza, però,
contrastava con la “narrazione” della riforma più volte prodotta dal Governo,
secondo il quale grazie alla riforma delle province sarebbe appunto stata
tagliata la spesa e ridotte le tasse.
Nulla di tutto ciò corrisponde al
vero. La spesa delle province si è ridotta a circa 9 miliardi per durissima e
meritevole azione di contenimento delle province stesse. Ma, a regime 3 di
questi miliardi (oltre ad un altro miliardo e mezzo imposto dalla combinazione
dei d.l. 95/2012 e 66/2014) invece di essere spesi dalle province per
finalizzarli all’esercizio delle funzioni, sono destinati al bilancio dello
Stato. Senza che nessuna tassa provinciale sia stata minimamente ridotta!
Infatti, laddove le province non versassero allo Stato quanto da esso imposto,
scatterebbe appunto il prelievo forzoso, assicurato dalle entrate derivanti
dalla tassa sulla responsabilità civile auto.
Dunque, le province, pur dovendo
continuare a gestire servizi per un volume di spesa del valore di circa 9
miliardi, ne devono dirottare a regime 4 circa allo Stato. Ecco perché già nel
2015 il 70% degli enti ha sforato il patto di stabilità e nel 2017 tutte sono
destinate al dissesto, tanto che già da due anni si consente loro di non
approvare un bilancio triennale, per evitare di evidenziare gli squilibri
finanziari indotti dalla legge 190/2014.
Ora, se davvero i miliardi che lo
Stato ha requisito alle province fossero vincolati al finanziamento delle
funzioni non fondamentali traslate ad altri enti, non vi sarebbero problemi
gestionali di sorta. Le regioni potrebbero vantare un diritto di credito nei
confronti dello Stato e pretendere quelle risorse, per finanziare appunto le
funzioni che hanno riordinato, in parte facendole proprie, in parte
confermandole in capo alle province, in parte minima assegnandole ai comuni.
Il fatto è, però, che la legge
190/2014 e nessun’altra legge prevedono il vincolo di destinazione immaginato,
letteralmente immaginato, dalla Corte costituzionale.
Per averne la prova, oltre a
leggere i testi delle norme, basti semplicemente pensare al riordino di una
funzione non fondamentale: le politiche attive per il lavoro. Proprio perché lo
Stato incamera i soldi espropriati alle province senza alcun vincolo di
ridestinarli alle funzioni non fondamentali, esattamente con il d.l. 78/2015,
il d.lgs 150/2015 e l’accordo raggiunto nella Conferenza Stato-regioni del 30 luglio
2015, si è stabilito che le regioni stipulassero col Ministero del lavoro
convenzioni finalizzate a disciplinare l’esercizio della funzione del mercato
del lavoro, prevedendo che si garantisse la copertura del solo costo del
personale (non della spesa connessa all’esercizio delle funzioni), in modo che
lo Stato la finanziasse per i soli anni 2015 e 2016 nella misura dei 2/3; le
regioni debbono partecipare alla spesa per 1/3.
E’ assolutamente chiaro che se
fosse rispondente alla realtà quanto sostiene la Consulta, non vi sarebbe stato
alcun bisogno di questi accordi, delle connesse convenzioni e della
compartecipazione delle regioni alla spesa: lo Stato avrebbe potuto (e dovuto)
girare alle regioni l’intero finanziamento legato alla funzione del lavoro e,
per altro, a regime e non solo per gli anni 2015-2016.
Anche questo elemento di fatto,
perfettamente conosciuto e, comunque, conoscibile leggendo la cronaca
quotidiana, è totalmente venuto a mancare alla cognizione della Consulta, che,
quindi, ha prodotto una sentenza letteralmente di fantasia, smentita da fatti,
norme e strumenti di attuazione delle riforme.
Sembra, quindi, ironica la chiosa
della sentenza, ove si afferma che “questa Corte ha già precisato sul punto
che nel «processo riorganizzativo generale delle Province che potrebbe condurre
alla soppressione di queste ultime per effetto della riforma costituzionale
attualmente in itinere […] l’esercizio delle funzioni a suo tempo conferite –
così come obiettivamente configurato dalla legislazione vigente – deve essere
correttamente attuato, indipendentemente dal soggetto che ne è temporalmente
titolare e comporta, soprattutto in un momento di transizione caratterizzato da
plurime criticità, che il suo svolgimento non sia negativamente influenzato dalla
complessità di tale processo di passaggio tra diversi modelli di gestione»
(sentenza n. 10 del 2016)”.
Oppure, potrebbe trattarsi di una
chiave di lettura della sentenza 205/2016 meno a tinte fosche. Sulla base,
infatti, di questo passaggio, la sentenza, pur rigettando la questione di
legittimità costituzionale (invero evidentissima) dell’articolo 1, comma 418,
della legge 190/2014, potrebbe considerarsi come “sentenza interpretativa di
rigetto” di tipo additivo. Cioè, la sentenza della Consulta, perché possa
considerarsi logica ed utile al sistema ordinamentale, dovrebbe essere
considerare capace di integrare l’ordinamento di ciò di cui è carente: il
vincolo di destinazione delle risorse espropriate alle province all’intero
finanziamento delle funzioni non fondamentali riordinate.
Sulla base di questa chiave di
lettura, le regioni dovrebbero pretendere dallo Stato l’immediata refusione
delle spese che sono state indotte a sostenere con risorse proprie per effetto
della legge 125/2015. Forse, quindi, il capitolo finale di questa sciagurata
riforma non è stato ancora scritto.
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